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domenica 26 gennaio 2014

Ritratto di signora


Scendeva le scale annaspando come a delineare nel profondo la sua magrezza fisica. A volte ritornava la sera senza guardare i figli che ne decantavano la pace sul volto, come se la sfuggevole presenza non fosse la donna del padre. Anna cercava spesso di rimettere in ordine la sua dimensione di piccola romanziera della realtà ma si trovava a condividere le disgrazie dei vicini, del marito che sembrava girare in casa come in una prigione.
Circolava la voce di non poter avere alcun contatto con il suo domestico, un uomo alto, grazioso, con uno sguardo fisso nel vuoto. Nel paese conviveva con una ragazza da molto tempo, facendo vera l’usanza di malafede di vederne la figlia di un amore nascosto.
Non sorvolava mai sulle accuse delle sue amiche di essersi accontentata di poco, come se la sua famiglia fosse meno importante delle loro o i suoi capelli meno curati di quelli corti e fini dell’interlocutrice. Portava con sé la cura di anni di una vita terrena senza pietà di un uomo, il marito, incontrato per caso un giorno sulla spiaggia sotto casa.
Lui esisteva sentendo lei parlare: stava immobile a sentirne il dolce suono dei racconti ai quali dedicava ormai molto tempo da quando i figli erano meno indispettiti dal loro essere al mondo.
Guanti, stole, bracciali, un anello che teneva nascosto, una serie di collezioni con le quali riempiva scatoloni della mansarda prestata dai vicini spesso sentenziosi su di chi fossero gli averi.
Camminava spesso nei sentieri della campagna mogia, silenziosa e torrida, ammirando con i figli la natura del padre, come se per loro non ci fosse differenza tra gli esseri umani e i fili d’erba da osservare. Non faceva domande che non fossero sentenze per i suoi amici, trovando come risposta altre frasi fuori tema, come se osasse troppo nel porre interrogativi.
La tranquillità della città era spesso interrotta e lei ne sentiva il peso come se ogni azione di ladri, violenti e rissosi corrispondesse a una perdita dei suoi valori. Le appariva insulso e non solo strano non poter fermare il male intricato e torbido che si inframmezzava alla sua visione della vita. In quei momenti cercava spesso un rifugio nei suoi ricordi dell’adolescenza soave e piena di ammonimenti e rinunce ma anche fitta di sorprese che visse, incurante del circondario. Desiderava spesso ritornarvi con la mente come se potesse riascoltare il suono delle parole dei suoi nonni o il fragore delle ore di giochi.
Con le punte dei piedi sulla banchigia, appesantiva i libri scritti con pensieri sul futuro possibile, magari un’altra città, un altro sentimento da sostituire a quello per i suoi concittadini. L’estraneità che non le apparteneva l’avrebbe fatta sorridere e inorridire del passato. I pensieri della sua solitudine rubata al presente erano come figure di un sogno notturno, al tramonto di una vecchia abitudine che sarebbe finita nell’album di fotografie dimenticate. Ritornata a casa da un giorno di lavoro evitava ancora di ripensarvi, cercava motivi per non farne il bottino di una guerra che non voleva combattere.
Preferiva sempre lui, il suo fare lieve che la colpiva al punto da non rispondergli quasi mai. La sua illusione era sempre quella singolare della certezza di un sentimento inossidabile, forse addomesticato dal mondo ma colto in un bagliore del firmamento, in una notte di costellazioni vivide. Colori e immagini di una sola fonte di sopravvivenza, contemporaneamente negata e ammirata dall’esterno. Trascorreva i giorni come se quelle sensazioni fossero pareti della sua casa. Nella sua fragilità di donna inventava oggetti da usare come consuetudine ma che colpivano per la loro estrosità.
I suoi amici ne erano spesso coinvolti, come se dovessero trovare in quegli oggetti qualcosa che la loro ospite non concepiva. E le domandavano spesso di rivederli, quei frammenti di un senso estetico nuovo. La dolcezza di Anna in quei momenti era stranamente sostituita a un senso di vuoto, come una vertigine che le toglieva franchezza e sminuiva la sua ammirazione da parte dei conoscenti. Per lei l’arte era qualcosa di insospettabile, colta in un incontro tra due sconosciuti e lasciata albeggiare.
Sembrava spesso che nessuno si accorgesse della pienezza della sua libertà, come se dovesse avere un ruolo attoriale il convincere della propria. Nel mare delle loro debolezze e delle loro forze, la donna che guardava ogni giorno suo marito e i suoi figli si sentiva simile a un suono leggero come se non dovessere accorgersi di qualcosa in particolare. Aveva tutto o forse doveva averlo, eppure ogni dialogo con i suoi diventava ancora un altro luogo da rammemorare e per lei non esisteva altro.