Affronterò
il problema del rapporto tra linguaggio e socialità prendendo in considerazione
alcune delle riflessioni di due autori, Ferdinand de Saussure e Charles Sanders
Peirce. In entrambi i casi cercherò di delineare le loro posizioni generali
riguardanti il segno, ed in particolare il segno delle lingue verbali. Il
linguaggio sarà inteso sia come capacità che si estrinseca attraverso le forme
degli atti linguistici, sia come linguaggio “che si vede”, quello percepibile
nella nostra esperienza di attori sociali.
La
tesi che voglio sostenere è: il linguaggio crea e modella la socialità. Dove
per socialità non intendo il semplice aggregato di uomini che lottano per la
sopravvivenza fisico-naturale. È socialità perchè l’essere umano nel suo stare
con gli altri accoglie, crea e subisce continuamente gli effetti dello spazio
comunicativo verbale proprio della cultura umana.
Parliamo
del linguaggio. Possiamo farlo perchè siamo nel linguaggio stesso. Il problema
del rapporto tra socialità e linguaggio, se è un problema, deve comunque
svilupparsi a partire dal modo o dai modi di intendere le parole in questione.
Quali sono le domande che ci possiamo porre in proposito? Affrontando il tema
del linguaggio dobbiamo in qualche maniera renderci conto che stiamo trattando
un oggetto che non è tale, poiché lo trattiamo con la sua stessa sostanza,
senza poter assumere un punto di vista esterno o diverso.
Parliamo
della socialità, dunque di un modo di essere sociale. Se il problema è il
possibile legame tra linguaggio e sociale, già si costituisce la questione del
rapporto tra individui che nella loro attività sociale costruiscono il luogo in
cui prendono vita le loro identità. Una possibile domanda per un approccio al
problema è se esiste una società e una socialità indipendentemente dal
linguaggio. Ha senso dire che è la socialità a creare il linguaggio o,
viceversa, che è il linguaggio che costituisce il modo di essere sociale?
Oppure, potremmo ancora chiederci, ha senso parlare di un linguaggio in sé?
Nel
“Corso di linguistica generale” Ferdinand de Saussure è presentato dai suoi allievi
redattori del testo come il fondatore di una scienza, la linguistica, che
riesce a dar conto della necessaria rivalutazione del carattere sociale della
lingua e del linguaggio. In primo luogo, dunque, emerge dalla sua lezione la
distinzione tra una facoltà di linguaggio e il sistema lingua, che si
costituisce come oggetto di una possibile scienza a partire dall’atto dei
parlanti, cioè dalla “parole”. L’atto comunicativo delle lingue verbali che è il motore
dell’intero sistema sociale, è, nello stesso tempo, la fonte viva del sistema
segnico. Sono le interazioni
sociali che danno
senso all’ipotesi di una facoltà di linguaggio, potenzialità propria degli
esseri umani (perchè è ad essi che Saussure si riferisce) e che rendono
possibili le riflessioni sulle lingue. Nel secondo capitolo del testo si legge
: «Il linguaggio è fatto sociale». Non ha senso, dunque, domandarsi se
l’origine del linguaggio sia stata la conseguenza di un qualche evento sociale
o evolutivo. È il linguaggio stesso ad essere intriso di socialità. Non
possiamo parlare la nostra lingua senza essere immersi nella comunità sociale.
Le due caratteristiche della lingua, cioè l’arbitrarietà e la convenzionalità
sono contemporaneamente gli elementi connaturati con l’esistenza di un essere
sociale. Alle due domande iniziali, sulla genesi del linguaggio in relazione
alla società e al linguaggio in sé, Ferdinand de Saussure ha risposto, malgrado
i fraintendimenti del testo, marcando l’ipotesi della socialità della lingua e,
conseguentemente, del linguaggio. Il sistema segnico, di significanti e
significati è strettamente connesso con la possibilità degli uomini di
comprendere le azioni comunicative verbali, gli atti di “parole”; l’uomo non è
mai solo, è sempre, almeno, con un altro individuo. Nel sistema della lingua si
riflette il circuito della “parole”, nel senso in cui non sarebbe possibile
dare luogo ad un atto comunicativo se non vi fossero individui capaci di
comprendersi, capaci di costruire il loro modo di essere sociale. Dall’immagine
acustica e dal concetto come costitutivi del segno, Saussure passa
rispettivamente ai “significanti” e ai “significati”, sottolineando come non
esiste un significato o un significante in sé, poiché l’immagine acustica
diventa significante in virtù della capacità o facoltà di linguaggio dell’uomo
come essere sociale; uomo che, prima di tutto, può riconoscere un segno, può
cogliere le differenze che si collocano anche al livello della lingua, sistema
in cui ogni parte è tale non in se stessa ma in virtù di ogni altra parte o
nodo del sistema.
Il
sistema sociale è il sistema segnico, la persona è essa stessa segno per il gruppo sociale. Da linguaggio e
socialità siamo arrivati a parlare di segno.
Charles
Sanders Peirce nella
sua concezione di segno
mette in evidenza come, nel momento in cui si parla di uno dei tre tipi di
segno cioè il simbolo, è necessario tripartire questa entità in interpretante,
oggetto e representamen. Nel parlare di simbolo, Peirce vuole dar conto dei segni
verbali, se così possiamo dire, in cui è fondamentale riconoscere l’azione
dell’interpretante. Lo studioso tripartisce ulteriormente il simbolo in
termine, proposizione e argomento e nell’esplicazione di questi utilizza le
categorie della sua teoria ontologica. I tre modi della conoscenza, dell’esistenza,
cioè di Primità, Secondità e Terzità si riflettono nella logica e nella
semiotica, partendo dall’osservazione, dall’esperienza sociale. Problematizzare il linguaggio è,
ancora una volta, riflettere sui modi di essere sociali. Un argomento logico è
deduttivo, induttivo o abduttivo non in sé, non indipendentemente dall’uomo
come essere sociale. Un argomento è un segno, un segno è qualcosa che sta a
qualcuno per qualcos’altro sotto un certo rispetto, da un certo punto di vista,
in base all’interpretazione
di una mente, la quale diventa essa stessa segno per un altro interpretante.
Peirce non parla di segni a sé stanti o di persone individuali. La sua ipotesi
o immagine del mondo è di un’armonia complessiva e sostanziale tra ciò che è
sociale e ciò che è linguistico. Ancora una volta non c’è un prima e un dopo,
un linguaggio che influisca su una società o una società già precostituita
all’interno della quale ci si metta d’accordo sul linguaggio da utilizzare. Il
linguaggio non è una strumento per muovere gli oggetti preesistenti nella
realtà, indipendentemente dalle persone, dalla società. Comprendiamo,
conosciamo, viviamo come segni perchè siamo nel linguaggio. Potremmo mai
decidere di non far parte più di questa forma di vita? Potrei forse decidere di
non parlare più o di non scrivere o forse troverei anche il modo per non
pensare. Ma lo avrei fatto sempre con il linguaggio; potrei decidere, comunque,
di non essere più nel linguaggio e isolarmi dalla società. Potrei dimenticare
cosa vuol dire vivere e potrei essere dimenticata da tutti. Ma, a quel punto,
esisterei? Il segno in sé non esiste, così come non esiste la realtà in sé. Il
mio modo di vedere il mondo, di vivere è radicato nella società di cui sono
parte costitutiva ogni volta che decido, con il nostro linguaggio, di agire.
Una qualunque azione sociale è un’azione di linguaggio, nel senso in cui non
posso fare a meno di essere ciò che sono. La mente non è “mia”, come non sono
mie le parole che sto scrivendo. L’atto che sto facendo, adesso, è un atto
sociale.
Di
Saussure vorrei evidenziare la specificità del tipo di immagine che considera
nel dare la sua rappresentazione di segno. Egli, infatti, parla di immagine
acustica come preludio del significante. Cosa vuol dire? Nel circuito della
parole entra in gioco ciò che il parlante performatizza attraverso il suono che
emette, carico di significato e come tale viene recepito dall’interlocutore.
l’immagine acustica giunge all’interlocutore che interagisce, interpretae
comprende sulla base della sua conivisione del contesto comunicativo con
l’altro parlante.
La
Primità di Peirce non potrebbe avere senso se non esistesse la Terzità, in cui
vi è una mente, immersa nel sistema di segni sociale, che la riconosce come
pura qualità; la relazione tra gli oggetti non esisterebbe se non ci fosse la
possibilità di osservarla dal punto di vista logico dell’interpretazione umana
e dunque sociale. L’edificio della mia esperienza, che è sempre esperienza
sociale, si modifica continuamente con il contatto con il mondo. Il mio
linguaggio, le mie credenze, prendono parte al gioco dell’esperienza, non in un
momento successivo ma in simbiosi con questa.
Esperienza
è esposizione al mondo, il mondo è l’insieme di cose con le quali collidiamo e
ci scontriamo, come la pietra che cade dalla montagna; e mondo è fatti sociali,
altrettanto sconvolgenti quando si costruiscono con l’interazione intenzionale
e costrittiva (necessaria) con gli altri esseri umani.
A
mio parere, in entrambi i casi, anche se in modi diversi e da approfondire, la
socialità si costituisce come costruzione fatta di ricerca di senso, di uomini
che si riconoscono parlando e interpretando segni e segnali.
Come
faccio a fare ciò che devo fare? La domanda è la strada, la méta e la risposta
stessa.
L’idea
è che fare esperienza vuol dire esporsi. Esporsi vuol dire stare con gli altri,
essere costretti a riconoscersi nell’altro e negli altri esseri della stessa
specie.
Perché
non credo di essere un gatto? Perchè credo di non saper né poter miagolare?
Perché se rifletto sul sistema segnico che caratterizza la mia vita sociale
presuppongo la mia differenza rispetto alle altre specie?
Perchè
riconosco in colui che leggerà
queste parole qualcuno che credo più simile a me che al mio cane o a Dio?
Per
quale motivo sento il desiderio di parlare?
Cosa
vuol dire sentire, provare un’emozione?
Perché
vorrei che gli altri esseri umani mi riconoscessero come loro simile?
Come
faccio a pianificare le mie azioni?
Come
riconosco l’errore? Come lo giustifico?
Attraverso,
seguendo Peirce, le ipotesi sul mondo. Cosa sono le ipotesi? Argomenti logici.
Qual è la sostanza degli argomenti logici? Il segno. Esiste un segno in sé, che
vive indipendentemente da noi, esiste una parola senza attore – interprete?
Spesso sembra che Peirce voglia dare l’idea di una logica in sé. Ma il fatto
stesso che si argomenti implica un essere immersi nella socialità.
Di
cosa è fatta un’argomentazione. Mi dicono qualcosa ed io cerco di capire. Mi
dicono qualcosa. Ma che tipo di cosa è quel qualcosa?
Vado
alla ricerca. Chiedo al mio amico di ripetere, gentilmente, cosa ha detto,ma
lui, indignato, si gira e se ne va.
E adesso, dove sono le sue parole?
Esiste
un albero delle parole, dove andare, la mattina presto, a sceglierne le più
mature e a scartarne le altre, quelle che non ci piacciono?
Ne
scarto alcune, posso scegliere di non usarne, se così si può dire, ma devo
riconoscerle prima come tali. Come faccio a sapere che la mela che sto
mangiando non è una parola? Sembra che la parola “mela” non sia tutta la mela,
sembra che la mela si possa
mordere e ingoiare. Si, in base all’esperienza. Ma come faccio a esser certa
che questo albero di parole-mela non esiste?
In
realtà, potremmo dire, non posso esserne certa. Ma esiste, come metafora. Ho
detto metafora ricordando la mia professoressa delle scuole medie che me ne
parlò per prima; altri ricorderanno la definizione dal dizionario. La metafora
esiste tra le parole. Le parole hanno poche possibilità di crescere sugli
alberi, almeno tanto quanto un albero ha la possibilità di proferir parole.
Eppure
le parole esistono. Non le tocco, non ne sento l’odore, ma mi fanno ridere,
piangere, emozionare.
Ci
sono le parole che dissero persone ora lontane, ci sono le parole dei libri e
quelle dei bambini che ancora non sanno pronunciare.
Ci
sono gli altri, intorno a me.
Ci
sono le parole, tra me e gli altri. le parole hanno un suono, ci dice Saussure.
Per questo dico che sono tra me e gli altri. Ma è solo questo? Se fossero
soltanto un mero suono, come quello del vento tra le foglie, per quale motivo
mi dovrei emozionare, perchè dovrei piangere? Non sono il vento, non sono
fredde. Non sono una mela, non hanno sapore. Sì, le posso vedere, come vedo
quelle che sto scrivendo. Ma sono sicura che questi segni sono le parole? Da
dove vengono queste linee?
Forse
esistevano prima dell’esistenza dell’essere umano? Può darsi. Ma dove sarebbero
sbocciate?
Se
nascondessi o bruciassi questo foglio o si rompesse il computer, adesso,
certamente esse sparirebbero con tutto il correlato di ingranaggi e viti. Ma è
proprio vero che scomparirebbero? Cancellandone le tracce ne riuscirei a
cancellare il ricordo? Oppure, riuscirei a non proferirle più? O forse non le
sentirei più pronunciate da nessuno?
Il
segno-traccia sul foglio è lo stesso del segno verbale che proferirò, arrivata
a casa, a mia madre? Riuscirò, poi, a cancellare la prove del saluto che le
rivolgerò?
Reversibile-
irreversibile. Quello che dico avrà un suo effetto che non morirà con la traccia acustica che emetterò con la
voce. Mia madre sarà indifferente, forse, perchè impegnata in altre faccende.
Ma riuscirà a far sparire il mio “ciao”, pronunciato in quel momento? Forse
potrà dimenticarlo o potrà non sentirlo. Ma io, avrò dimenticato il ciao lì, dove l’ho pronunciato e potrò
andare a prenderlo, più tardi?
Mamma,
vedi, hai fatto cadere il ciao
sotto il tavolo... ora lo raccolgo e te lo passo.
No,
non sembra logico costringere il mio ciao a posarsi su di un tavolo. Se lo
cercassi lì non troverei che polvere, e la polvere, probabilmente, sarebbe lì
comunque.
Eppure
c’è qualcosa, oltre alla polvere, in quel ciao, che, se ripetuto, farà qualcosa a me
e a mia madre, modificherà il suo umore o il mio e poi, forse, inizieremo o
continueremo a parlare.
Il
mio ciao c’è, lo
chiamiamo segno per dire che è qualcosa che non si mangia, non si calpesta, ma
che sento uscire dalla bocca di qualcun altro che riconosco come della mia
stessa comunità. Posso non capirlo. Ma sento che c’è. Vedo che mia madre oltre
a cucinare, muoversi, emette suoni e modifica il suo modo di essere in base ai
suoni che emette e piange in base ad altri suoni, oltre che per dolori
fisico-materiali.
Ipotizzo
che ci sia qualcosa e lo chiamo segno, e dico che questo segno mi permette di
fare quello che devo fare insieme agli altri esseri umani. Per distinguerlo
dalle tracce, dalle montagne e dalle mele lo chiamo segno verbale.
Parliamo
di linguaggio perchè parliamo di socialità, con il linguaggio che è esso stesso
la nostra vita sociale.
Silvia
Redente
Nessun commento:
Posta un commento