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lunedì 20 aprile 2015

Linguaggio e socialità





Affronterò il problema del rapporto tra linguaggio e socialità prendendo in considerazione alcune delle riflessioni di due autori, Ferdinand de Saussure e Charles Sanders Peirce. In entrambi i casi cercherò di delineare le loro posizioni generali riguardanti il segno, ed in particolare il segno delle lingue verbali. Il linguaggio sarà inteso sia come capacità che si estrinseca attraverso le forme degli atti linguistici, sia come linguaggio “che si vede”, quello percepibile nella nostra esperienza di attori sociali.
La tesi che voglio sostenere è: il linguaggio crea e modella la socialità. Dove per socialità non intendo il semplice aggregato di uomini che lottano per la sopravvivenza fisico-naturale. È socialità perchè l’essere umano nel suo stare con gli altri accoglie, crea e subisce continuamente gli effetti dello spazio comunicativo verbale proprio della cultura umana.



Parliamo del linguaggio. Possiamo farlo perchè siamo nel linguaggio stesso. Il problema del rapporto tra socialità e linguaggio, se è un problema, deve comunque svilupparsi a partire dal modo o dai modi di intendere le parole in questione. Quali sono le domande che ci possiamo porre in proposito? Affrontando il tema del linguaggio dobbiamo in qualche maniera renderci conto che stiamo trattando un oggetto che non è tale, poiché lo trattiamo con la sua stessa sostanza, senza poter assumere un punto di vista esterno o diverso.
Parliamo della socialità, dunque di un modo di essere sociale. Se il problema è il possibile legame tra linguaggio e sociale, già si costituisce la questione del rapporto tra individui che nella loro attività sociale costruiscono il luogo in cui prendono vita le loro identità. Una possibile domanda per un approccio al problema è se esiste una società e una socialità indipendentemente dal linguaggio. Ha senso dire che è la socialità a creare il linguaggio o, viceversa, che è il linguaggio che costituisce il modo di essere sociale? Oppure, potremmo ancora chiederci, ha senso parlare di un linguaggio in sé?

Nel “Corso di linguistica generale” Ferdinand de Saussure è presentato dai suoi allievi redattori del testo come il fondatore di una scienza, la linguistica, che riesce a dar conto della necessaria rivalutazione del carattere sociale della lingua e del linguaggio. In primo luogo, dunque, emerge dalla sua lezione la distinzione tra una facoltà di linguaggio e il sistema lingua, che si costituisce come oggetto di una possibile scienza a partire dall’atto dei parlanti, cioè dalla “parole”. L’atto comunicativo delle lingue verbali che è il motore dell’intero sistema sociale, è, nello stesso tempo, la fonte viva del sistema segnico. Sono le interazioni sociali che danno senso all’ipotesi di una facoltà di linguaggio, potenzialità propria degli esseri umani (perchè è ad essi che Saussure si riferisce) e che rendono possibili le riflessioni sulle lingue. Nel secondo capitolo del testo si legge : «Il linguaggio è fatto sociale». Non ha senso, dunque, domandarsi se l’origine del linguaggio sia stata la conseguenza di un qualche evento sociale o evolutivo. È il linguaggio stesso ad essere intriso di socialità. Non possiamo parlare la nostra lingua senza essere immersi nella comunità sociale. Le due caratteristiche della lingua, cioè l’arbitrarietà e la convenzionalità sono contemporaneamente gli elementi connaturati con l’esistenza di un essere sociale. Alle due domande iniziali, sulla genesi del linguaggio in relazione alla società e al linguaggio in sé, Ferdinand de Saussure ha risposto, malgrado i fraintendimenti del testo, marcando l’ipotesi della socialità della lingua e, conseguentemente, del linguaggio. Il sistema segnico, di significanti e significati è strettamente connesso con la possibilità degli uomini di comprendere le azioni comunicative verbali, gli atti di “parole”; l’uomo non è mai solo, è sempre, almeno, con un altro individuo. Nel sistema della lingua si riflette il circuito della “parole”, nel senso in cui non sarebbe possibile dare luogo ad un atto comunicativo se non vi fossero individui capaci di comprendersi, capaci di costruire il loro modo di essere sociale. Dall’immagine acustica e dal concetto come costitutivi del segno, Saussure passa rispettivamente ai “significanti” e ai “significati”, sottolineando come non esiste un significato o un significante in sé, poiché l’immagine acustica diventa significante in virtù della capacità o facoltà di linguaggio dell’uomo come essere sociale; uomo che, prima di tutto, può riconoscere un segno, può cogliere le differenze che si collocano anche al livello della lingua, sistema in cui ogni parte è tale non in se stessa ma in virtù di ogni altra parte o nodo del sistema.
Il sistema sociale è il sistema segnico, la persona è essa stessa segno per  il gruppo sociale. Da linguaggio e socialità siamo arrivati a parlare di segno.
Charles Sanders Peirce nella sua concezione di segno mette in evidenza come, nel momento in cui si parla di uno dei tre tipi di segno cioè il simbolo, è necessario tripartire questa entità in interpretante, oggetto e representamen. Nel parlare di simbolo, Peirce vuole dar conto dei segni verbali, se così possiamo dire, in cui è fondamentale riconoscere l’azione dell’interpretante. Lo studioso tripartisce ulteriormente il simbolo in termine, proposizione e argomento e nell’esplicazione di questi utilizza le categorie della sua teoria ontologica. I tre modi della conoscenza, dell’esistenza, cioè di Primità, Secondità e Terzità si riflettono nella logica e nella semiotica, partendo dall’osservazione, dall’esperienza sociale. Problematizzare il linguaggio è, ancora una volta, riflettere sui modi di essere sociali. Un argomento logico è deduttivo, induttivo o abduttivo non in sé, non indipendentemente dall’uomo come essere sociale. Un argomento è un segno, un segno è qualcosa che sta a qualcuno per qualcos’altro sotto un certo rispetto, da un certo punto di vista, in base all’interpretazione di una mente, la quale diventa essa stessa segno per un altro interpretante. Peirce non parla di segni a sé stanti o di persone individuali. La sua ipotesi o immagine del mondo è di un’armonia complessiva e sostanziale tra ciò che è sociale e ciò che è linguistico. Ancora una volta non c’è un prima e un dopo, un linguaggio che influisca su una società o una società già precostituita all’interno della quale ci si metta d’accordo sul linguaggio da utilizzare. Il linguaggio non è una strumento per muovere gli oggetti preesistenti nella realtà, indipendentemente dalle persone, dalla società. Comprendiamo, conosciamo, viviamo come segni perchè siamo nel linguaggio. Potremmo mai decidere di non far parte più di questa forma di vita? Potrei forse decidere di non parlare più o di non scrivere o forse troverei anche il modo per non pensare. Ma lo avrei fatto sempre con il linguaggio; potrei decidere, comunque, di non essere più nel linguaggio e isolarmi dalla società. Potrei dimenticare cosa vuol dire vivere e potrei essere dimenticata da tutti. Ma, a quel punto, esisterei? Il segno in sé non esiste, così come non esiste la realtà in sé. Il mio modo di vedere il mondo, di vivere è radicato nella società di cui sono parte costitutiva ogni volta che decido, con il nostro linguaggio, di agire. Una qualunque azione sociale è un’azione di linguaggio, nel senso in cui non posso fare a meno di essere ciò che sono. La mente non è “mia”, come non sono mie le parole che sto scrivendo. L’atto che sto facendo, adesso, è un atto sociale.


Di Saussure vorrei evidenziare la specificità del tipo di immagine che considera nel dare la sua rappresentazione di segno. Egli, infatti, parla di immagine acustica come preludio del significante. Cosa vuol dire? Nel circuito della parole entra in gioco ciò che il parlante performatizza attraverso il suono che emette, carico di significato e come tale viene recepito dall’interlocutore. l’immagine acustica giunge all’interlocutore che interagisce, interpretae comprende sulla base della sua conivisione del contesto comunicativo con l’altro parlante.
La Primità di Peirce non potrebbe avere senso se non esistesse la Terzità, in cui vi è una mente, immersa nel sistema di segni sociale, che la riconosce come pura qualità; la relazione tra gli oggetti non esisterebbe se non ci fosse la possibilità di osservarla dal punto di vista logico dell’interpretazione umana e dunque sociale. L’edificio della mia esperienza, che è sempre esperienza sociale, si modifica continuamente con il contatto con il mondo. Il mio linguaggio, le mie credenze, prendono parte al gioco dell’esperienza, non in un momento successivo ma in simbiosi con questa.
Esperienza è esposizione al mondo, il mondo è l’insieme di cose con le quali collidiamo e ci scontriamo, come la pietra che cade dalla montagna; e mondo è fatti sociali, altrettanto sconvolgenti quando si costruiscono con l’interazione intenzionale e costrittiva (necessaria) con gli altri esseri umani.

A mio parere, in entrambi i casi, anche se in modi diversi e da approfondire, la socialità si costituisce come costruzione fatta di ricerca di senso, di uomini che si riconoscono parlando e interpretando segni e segnali.
Come faccio a fare ciò che devo fare? La domanda è la strada, la méta e la risposta stessa.
L’idea è che fare esperienza vuol dire esporsi. Esporsi vuol dire stare con gli altri, essere costretti a riconoscersi nell’altro e negli altri esseri della stessa specie.
Perché non credo di essere un gatto? Perchè credo di non saper né poter miagolare? Perché se rifletto sul sistema segnico che caratterizza la mia vita sociale presuppongo la mia differenza rispetto alle altre specie?
Perchè riconosco  in colui che leggerà queste parole qualcuno che credo più simile a me che al mio cane o a Dio?
Per quale motivo sento il desiderio di parlare?
Cosa vuol dire sentire, provare un’emozione?
Perché vorrei che gli altri esseri umani mi riconoscessero come loro simile?
Come faccio a pianificare le mie azioni?
Come riconosco l’errore? Come lo giustifico?
Attraverso, seguendo Peirce, le ipotesi sul mondo. Cosa sono le ipotesi? Argomenti logici. Qual è la sostanza degli argomenti logici? Il segno. Esiste un segno in sé, che vive indipendentemente da noi, esiste una parola senza attore – interprete? Spesso sembra che Peirce voglia dare l’idea di una logica in sé. Ma il fatto stesso che si argomenti implica un essere immersi nella socialità.
Di cosa è fatta un’argomentazione. Mi dicono qualcosa ed io cerco di capire. Mi dicono qualcosa. Ma che tipo di cosa è quel qualcosa?
Vado alla ricerca. Chiedo al mio amico di ripetere, gentilmente, cosa ha detto,ma lui, indignato, si gira e se ne va.  E adesso, dove sono le sue parole?
Esiste un albero delle parole, dove andare, la mattina presto, a sceglierne le più mature e a scartarne le altre, quelle che non ci piacciono?
Ne scarto alcune, posso scegliere di non usarne, se così si può dire, ma devo riconoscerle prima come tali. Come faccio a sapere che la mela che sto mangiando non è una parola? Sembra che la parola “mela” non sia tutta la mela, sembra  che la mela si possa mordere e ingoiare. Si, in base all’esperienza. Ma come faccio a esser certa che questo albero di parole-mela non esiste?
In realtà, potremmo dire, non posso esserne certa. Ma esiste, come metafora. Ho detto metafora ricordando la mia professoressa delle scuole medie che me ne parlò per prima; altri ricorderanno la definizione dal dizionario. La metafora esiste tra le parole. Le parole hanno poche possibilità di crescere sugli alberi, almeno tanto quanto un albero ha la possibilità di proferir parole.
Eppure le parole esistono. Non le tocco, non ne sento l’odore, ma mi fanno ridere, piangere, emozionare.
Ci sono le parole che dissero persone ora lontane, ci sono le parole dei libri e quelle dei bambini che ancora non sanno pronunciare.
Ci sono gli altri, intorno a me.
Ci sono le parole, tra me e gli altri. le parole hanno un suono, ci dice Saussure. Per questo dico che sono tra me e gli altri. Ma è solo questo? Se fossero soltanto un mero suono, come quello del vento tra le foglie, per quale motivo mi dovrei emozionare, perchè dovrei piangere? Non sono il vento, non sono fredde. Non sono una mela, non hanno sapore. Sì, le posso vedere, come vedo quelle che sto scrivendo. Ma sono sicura che questi segni sono le parole? Da dove vengono queste linee?
Forse esistevano prima dell’esistenza dell’essere umano? Può darsi. Ma dove sarebbero sbocciate?
Se nascondessi o bruciassi questo foglio o si rompesse il computer, adesso, certamente esse sparirebbero con tutto il correlato di ingranaggi e viti. Ma è proprio vero che scomparirebbero? Cancellandone le tracce ne riuscirei a cancellare il ricordo? Oppure, riuscirei a non proferirle più? O forse non le sentirei più pronunciate da nessuno?
Il segno-traccia sul foglio è lo stesso del segno verbale che proferirò, arrivata a casa, a mia madre? Riuscirò, poi, a cancellare la prove del saluto che le rivolgerò?
Reversibile- irreversibile. Quello che dico avrà un suo effetto che non morirà con  la traccia acustica che emetterò con la voce. Mia madre sarà indifferente, forse, perchè impegnata in altre faccende. Ma riuscirà a far sparire il mio “ciao”, pronunciato in quel momento? Forse potrà dimenticarlo o potrà non sentirlo. Ma io, avrò dimenticato il ciao lì, dove l’ho pronunciato e potrò andare a prenderlo, più tardi?
Mamma, vedi, hai fatto cadere il ciao sotto il tavolo... ora lo raccolgo e te lo passo.
No, non sembra logico costringere il mio ciao a posarsi su di un tavolo. Se lo cercassi lì non troverei che polvere, e la polvere, probabilmente, sarebbe lì comunque.
Eppure c’è qualcosa, oltre alla polvere, in quel ciao, che, se ripetuto, farà qualcosa a me e a mia madre, modificherà il suo umore o il mio e poi, forse, inizieremo o continueremo a parlare.
Il mio ciao c’è, lo chiamiamo segno per dire che è qualcosa che non si mangia, non si calpesta, ma che sento uscire dalla bocca di qualcun altro che riconosco come della mia stessa comunità. Posso non capirlo. Ma sento che c’è. Vedo che mia madre oltre a cucinare, muoversi, emette suoni e modifica il suo modo di essere in base ai suoni che emette e piange in base ad altri suoni, oltre che per dolori fisico-materiali.
Ipotizzo che ci sia qualcosa e lo chiamo segno, e dico che questo segno mi permette di fare quello che devo fare insieme agli altri esseri umani. Per distinguerlo dalle tracce, dalle montagne e dalle mele lo chiamo segno verbale.
Parliamo di linguaggio perchè parliamo di socialità, con il linguaggio che è esso stesso la nostra vita sociale.

Silvia Redente

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