In questo spazio tra me e il mondo c'è il mio romanzo fiume. Crescerà con me e con gli appassionati del tempo: che non ci travolga ma ci permetta di riempirlo di sostanza e di fantasia. Buona lettura. P.s.: si legge al contrario, da Simbiosi verso l'alto.
Co2
venerdì 8 agosto 2014
Possibilità - da "fine dei dialoghi on-line" per l'estate
Poteva non comportarsi come progettava e invece la sua genialità è che fa tutto quello che mi ha detto di poter fare. Ma con la persona sbagliata dal mio punto di vista... lieve suo errore non credere a quello che dicevo... vista l'età, los tile del dialogo e la dipendenza dal mezzo informatico è chiaro che eravamo entrambi veri! Ora, sbagliata per lui, ovvio, ossia se fa davvero quello che ha detto lo prevedo lontano dalle mie visite nell'"altrove", nell'inesplorato.
venerdì 6 giugno 2014
Vacanza
Oggi ho avuto la fortuna di sentire dal vivo l'attacco di un discorso, fatto esattamente come era scritto. Oltretutto dagli artefici in persona. Allora non sono l'unica che si prepara le frasi da dire. Cose da mare.
mercoledì 14 maggio 2014
Silvia Redente Emozionalità e causalità della scrittura Dai racconti alle forme gestuali
Silvia Redente
Emozionalità e causalità
della scrittura
Dai racconti alle forme
gestuali
“Leggiamo una poesia, e questa ci fa una certa
impressione. «Mentre leggi, senti la medesima cosa che senti mentre leggi
qualcosa che ti è indifferente?» - Come ho imparato a rispondere a questa domanda? Forse dirò: «No,
naturalmente!» - e questo vuol dire né più né meno che: questo mi afferra, il resto no”
(Wittgenstein, 1967, p. 37).
0. Premessa
Frequentemente
le posizioni che guardano alle realtà mediatiche della parola considerata
naturale in opposizione elettiva alle imminenze di forme vicine alla
spontaneità non verbale sono ritenute antitetiche alla psicologia del soggetto
parlante. Secondo Wittgenstein l’individualità non va ad inficiare totalmente
la consapevolezza collettiva: l’introspezione coniugata alla ragione riassorbe
necessariamente la psicologia generale del gioco linguistico. “Voglio dire,
propriamente, che gli scrupoli che si provano quando si pensa una certa cosa,
cominciano (hanno le loro radici) nell’istinto. O anche così: Il giuoco
linguistico non ha la sua origine nella riflessione. La riflessione è una parte
del gioco linguistico” (Wittgenstein, 1967, p. 85). Molti autori contemporanei
hanno evidenziato i caratteri morfemici del comportamento simbolico. Cimatti (2007) mette in evidenza un
carattere importante delle formazioni del linguaggio: esse sono sistematiche
così come lo è il mobile stormo nel cielo. Un paragone che permette di vedere
in pochi attimi l’intangibilità della significazione, e anche l’inafferrabilità
di essa. Harris (2007) analizza una serie di possibili definizioni che si
riferiscono non soltanto ai linguaggi formalizzati, ma che si trovano in uso
nella prassi quotidiana, chiamando in causa la gestualità, come nel caso delle
definizioni ostensive. La forma di emozionalità del linguaggio è manifestata
dalla reciprocità dei codici, in senso prietiano, di codici specifici e
tendenzialmente complementari, atti ad essere tradotti l’uno nell’altro.
Diventa insensato, quindi, chiedere ancora alla lingua di fare delle unità che
la rappresentano veicolarizzazioni di altri sensi? E fino a che punto è lecito
parlare di veicolarizzazione dell’articolazione linguistica nelle forme poetiche?
1. Dai
segni gestuali alle abitudini verbali
Delsaut (1975)
mostra come l’organizzazione spaziale condizioni quella sociale della prassi
comunicativa di un gruppo di persone. In particolare presenta le fotografie di
un’abitazione di operai attraverso le quali “si è voluto suggerire la
corrispondenza […] tra il modo di appropriazione dello spazio abitato e
l’organizzazione del discorso popolare” (Delsaut, 1975, p. 21). Ciò su cui
dobbiamo puntare l’attenzione è l’evidente rapporto esistente tra la lingua e
un tipo di cultura principalmente orale. Si tratta di una comunità in cui la
vita è scandita dalla lotta per la sopravvivenza in un’organizzazione spaziale
in cui non esiste “nessuno spazio assegnato alle persone e agli oggetti: il
contatto tra i membri della famiglia è raramente interrotto. Qualsiasi cosa
facciano, tutti gli abitanti della casa si trovano praticamente raggruppati
nello spazio comune” (Ivi, p. 23). Non c’è un criterio che stabilisce le regole
di convivenza, se non quello dettato dalla contingenza. Le persone usano gli
oggetti così come usano le parole, senza fare progetti a lungo termine, non
potendo che vivere in base alle necessità di ciascun momento. La forma di vita
è quella di un’attività comunicativa verbale orale spontanea e istintiva. È ciò
che è naturale della lingua: un evento irripetibile e originale. Il mondo della
comunicazione verbale orale di questa comunità è un buon esempio di quelli che
Vygotskij (1934) chiama “concetti quotidiani” della lingua materna, appresi
senza bisogno di intermediari come la scuola, propri dell’ambiente naturale in
cui il bambino viene a trovarsi. Possiamo chiederci, tuttavia, in che senso si
muove il rapporto tra lo spazio e la lingua. Ossia, è la lingua che influenza
l’organizzazione spaziale o è lo spazio che la condiziona? L’esempio appena
presentato della casa di un operaio dimostra come sia dal lato della lingua che
dal versante dello spazio ci si scontra con una necessità e irrimediabilità.
Non c’è un’esplicita possibilità di scelta autocosciente da parte del parlante,
né per ciò che riguarda l’organizzazione dello spazio né per la lingua, nel
senso in cui non esiste alcuna problematica rispetto a una nomologia della
prassi sociale. Ciò che accade è ciò che è accettabile. Si possono inventare
nomi nuovi e diversi per le stanze, un idioletto privato, poiché non c’è un
punto di riferimento a cui adeguarsi, come potrebbe esserci invece in
un’istituzione quale la scuola o un ufficio. Il lavoro compiuto in fabbrica è
ripetitivo e meccanico, la lingua che si parla è una catena automatica e
spontanea. Quanto influisce, in questo contesto, ciò che si vede su ciò che si
dice e viceversa? A questa domanda possiamo rispondere pensando alle forme
visivo-gestuali che accompagnano la prassi verbale quotidiana fino a diventarne
parte integrante. L’incisività del rapporto tra lingua parlata, lingua scritta
e segni gestuali è rilevata dall’analisi della sintassi dei gesti che
accompagnano il discorso, poiché ne mettono in evidenza la sostanziale
sintatticità.
1.1.
Teorie
sulla scrittura dei tratti gestuali
In diversi lavori Kendon sottolinea
la possibilità di analizzare i gesti attraverso semiotiche scritte. In un certo
senso ci sono grafemi gestuali, unità minime di articolazione delle forme
segniche che differenziano un gesto emblematico da uno o più tratti distintivi
di altri tipi di gestualità. Almeno in due sistemi troviamo modi di formazione
dei segni gestuali, ossia nelle situazioni che Kendon (2004) denomina
“face-to-face”, faccia a faccia e nelle dimensioni sociali più comuni ed estese
in cui si è organizzati per occasioni specifiche, come una partita di baseball.
In un certo senso la copresenza, il fatto che deve esserci un corpo e un
insieme di altri corpi è un fondamento che fa dell’interlocuzione un modo per
annientare l’illimitatezza infinita del regresso esistenziale: l’argomento
della finitezza, del limite dello stimolo è un paradosso che la semiologia
spesso deve affrontare per capire cosa si intende per significazione, nel campo
specifico di una delineazione del senso del discorso. L’analisi linguistica
rimette in gioco la transizione specifica della forma testimoniata dalla
scrittura, e in ciò si trova la natura duplice del linguaggio, l’esistenza
epistemica della quale è in continua formazione. A partire dai dati sperimentali
fino ad ora raccolti sulla possibilità di trascrivere le forme gestuali delle
lingue segnate, insieme ai segni delle lingue che i sordi e i sordomuti
utilizzano possiamo ipotizzare che ci sia una possibilità aperta di
formalizzazione delle capacità espressive della gestualità: un insieme di
tratti semantici precisi sono individuabili e possono trovare una dimensione
semiotica, una sorta di residenza astratta sia della comunicazione verbale, sia
di quella non ancora linguisticizzata.
2. Storie e
racconti
Come condizione
di esistenza delle storie, cosa dobbiamo considerare fondativo? In altre
parole, da un certo punto di vista, cosa contraddistingue la funzione
linguistica della scrittura dall’esperienza che facciamo del linguaggio? Da
molti anni di ricerche nel campo semiologico è stata rilevata l’importanza
della distinzione tra struttura semiotica e struttura linguistica: questa
differenziazione si trova alla base della questione più volte ripresa a partire
da Saussure sull’identità linguistica. In questo caso vorrei prendere in
considerazione la nozione di forma linguistica nella sua specifica attribuzione
ai generi di scrittura come verbalità progressiva e non cristallizzata. In
questo senso le leggende germaniche che sono state analizzate sulla scia del
pensiero saussuriano, come in Prosdocimi (1983) permettono di dare una
consistenza ai termini “personaggio”, “simbolo”, e in senso più ampio a quelli
di “narrazione”, “storia”, nella loro opposizione o complementarità dinamica
con la realtà linguistica e semiotica del senso comune, nelle quali sono
sedimentate le logiche di formazione. L’ipotesi di partenza è che l’intento
interpretativo delle forme scritte rispetto alla realtà contingente è quello di
fermare alcune sincronie e stati di lingua attraverso costanti più o meno
complesse che si ritrovano in ogni forma logica. L’intento è trovare e
differenziare le forme emblematiche nei termini di variazioni dei generi nelle
temporalità del discorso. Parliamo qui della già abusata nozione di genere
linguistico e semiologico. In effetti, la scrittura ha almeno due proprietà: è
la forma specifica di analisi delle unità semiologiche ed è argine della
relazionalità dei segni; si parla di scrivibilità proprio per indicare lo
slittamento continuo che va dalle pratiche del senso comune alla
pertinentizzazione dei sensi non ancora cristallizzati e, infine, alla
tradizione[1].
Cosa significa, in questi termini, destrutturare il linguaggio? Ha senso
pensare di poterlo analizzare come se fossimo capaci di comprenderlo?
Wittgenstein ci dà la possibilità di riflettere sull’immagine linguistica
rispetto alla rappresentazione. Sarebbe possibile scolpire la progettualità
delle logiche esistenziali o di primo approccio di analisi dell’intuizione
logica. “L’avere l’esperienza vissuta di un significato e l’avere l’esperienza
vissuta di un’immagine mentale. «In entrambi i casi si ha l’esperienza
vissuta di qualcosa», si vorrebbe dire,
«soltanto si esperiscono cose diverse. Alla coscienza Ë presentato un contenuto
diverso – un contenuto diverso le sta di fronte». – Qual è il contenuto
dell’esperienza vissuta di una rappresentazione? Si risponde con un’immagine o
con una descrizione” (Wittgenstein, 1953, p. 232). Se attraverso l’analisi
dell’esperienza è possibile ritagliare il fenomeno e circoscrivere il tipo di
narratività che è in gioco la differenza tra linguaggio e lingua che Saussure
introduce nei tre corsi di Linguistica generale può sottendere soluzioni
ulteriori. Per ipotesi, riprendendo il pensiero prietiano, è possibile
incanalare le “pratiche teoriche” radicate nell’evoluzione linguistica
dell’essere umano nel “genere” scientifico. In gioco ci sono non soltanto
chiavi di lettura differenti, ma vere e proprie costanti emotive che non
possono non essere presenti nelle possibili forme di emozionalità
poetiche mostrate da ciascuna forma
linguistica.
2.1. “Esteriorità” e causalità del
personaggio-segno
A partire dalle
prime ricerche saussuriane sulla pregnanza della letteratura nella linguistica
della parole il personaggio letterario
diventa simbolo o risoluzione di insiemi di caratteristiche che un segno
linguistico ha in una storia intesa come narrazione. In una sorta di repertorio
che il simbolo narrativo espone alla storia (per esempio nella microstoria del
racconto leggendario) la poetica del personaggio diventa maggiormente marcata
in ogni passaggio da una scena alla successiva, definendo i contorni di una
caducità dell’espressione rispetto al contenuto. In altre parole l’espressione
perde il contatto con un’esteriorità a-linguistica e diventa essa stessa luogo
simbolico. Cosa significa circoscrivere una proprietà rispetto ad un’altra? A
volte Saussure sembra sottintendere che la differenza tra due segni deve essere
considerata come diversificazione di singole proprietà. Sebbene un segno in sé
non sia definibile, è necessario pensare ad esso come a un modello del pensiero
che può essere frainteso, condiviso e quindi differenziato dagli altri in un
segmento della parole a formare
il segno linguistico complesso della scrittura o grafema. Nelle ipotesi della naturalizzazione
della mente la forma linguistica assume una caratteristica particolare che è
quella di una distanza anche quantitativa dalle semiotiche radicate nei sensi.
A partire dalla prospettiva evoluzionista non possiamo ricavare una serie di
proprietà dirompenti della lingua se non incastoniamo nella stessa corona altre
gemme che sono proprietà fondative dell’uomo come essere biologico anche se non
ancora del tutto integrato nella semiosi linguistica. Nel suo movimento di
ascensione la lingua non ha determinato, in sé, altre logiche che
retrospettivamente hanno agito nella semiosi della biologia umana. C’è un prima
e c’è un dopo, più o meno riconoscibili, che fanno di una lingua una lingua;
tuttavia non si determina in questi termini che un universo positivo in qualche
modo già dato, in cui l’umano ha da lavorare a lungo per ambientarsi. Sappiamo
che per l’uomo non c’è un habitat naturale, mentre c’è per una lepre e per un
coleottero, o almeno c’è stato. Dire che la determinazione ambientale non ha a
che fare con i processi di apprendimento di una lingua sarebbe quindi
insensato, ma il processo stesso potrebbe invece essere dimenticato, messo da
parte, se ci poniamo sul piano dell’espressione linguistica in atto tra i
parlanti. Da questo punto di vista la crescita del linguaggio non è rilevante,
o, ancora meglio, non c’è una crescita del linguaggio: esso raccoglie i fatti
di lingua, da un punto di vista sincronico, e anche nel dominio delle azioni
verbali che i parlanti compiono non c’è un tempo da cronometrare, al di là
della successione data dalla consistenza stessa delle parole, dalla
sintatticità che dà la forma al senso. Quale deve essere, allora, la
determinazione formale della complessità linguistica? Da questa prospettiva il
termine indeterminatezza sembra voler annullare la domanda sulla selezione generale del
significato: ciò che è determinato non ha a che fare con la formazione
ma con il cristallizzato,
ereditato da forme che hanno mutato valore e da piccoli segmenti di senso che
muovono altre forme. Per Saussure dare una distanza da un segno all’altro
devierebbe l’idea stessa di lingua, di segmento funzionale al linguaggio. Non
c’è nessuna forma più rilevante di un’altra forma, non c’è segno più importante
di un altro nella catena della significazione. Purtroppo però questo non sempre
è valido nella storia delle lingue, quando il potere della lettera, per così
dire, prende il sopravvento. La stessa scrittura è, per Saussure, pericolosa,
per la sua forza ordinatrice. Cosa è da ordinare nella lingua che non sia già,
in qualche modo, stato adottato dalla forma linguistica stessa?
2.2. Funzionalismo e categorie come
strutture emozionali
Nelle lingue gestuali è evidente il
rapporto tra forma e senso nei termini di categorie stabili. Dire categorie è
diverso dal dire tempi verbali, o modi, o tutto ciò che ha a che fare con la
grammatica e la sintassi. Il tipo di algebra del segno linguistico è in
relazione con le coordinate spazio-temporali delle lingue prima ancora delle
formazioni in gerarchie d’analisi testuale. Ed è proprio su queste categorie
che la relazione tra il particolare e il generale ha una esplicitazione
attraverso la lingua. Pensiamo a cosa contraddistingue una poesia da un
fraseggiare comune, tra due persone, nella lavorazione che esse danno alla
letteralità. Non si tratta di fare a meno di una logica ma, al contrario, di
formare attraverso pezzi della stessa stoffa, nella metafora saussuriana, altri
vestiti, nuovi, che hanno fattezza simile tra di essi ma mai identica. Se
chiariamo in che senso questo avviene riusciamo a capire meglio che non ha
senso parlare di identità linguistica, perché, da un lato, è come qualcosa di
già dato, e, dall’altro, per il fatto che nel flusso del linguaggio niente rimane
uguale: ci sono somiglianze ma non equivalenze, a meno che non ci muoviamo nei
mari di altri linguaggi, come quelli della matematica algebrica, per esempio.
Attraverso la costituzione di una diagrammaticità che percorre i segni senza
forare le ruote della significazione, senza fermare l’auriga linguistica, si
realizza il percorso lineare del senso. In effetti, la sensazione linguistica
non ha bisogno di una gerarchia: consolidata nell’apparizione delle
espressioni, essa non si radica in una logica specifica. Una postura non ha una
sensibilità linguistica, malgrado sia un comportamento complesso; non è la
complessità che dà la sensazione e l’emozionalità linguistica. In effetti, la
funzione emotiva sembra ricoprire ciascun enunciato, anche se dobbiamo ammettere
che in una formula matematica, ad esempio, è impossibile ritrovare una emozione
linguistica. Al contrario, nelle forme di discorso elaborato avviene una sorta
di sutura con la pura logica della sintassi, si apre al gioco anche la verità
stessa e diventa logicamente accettabile anche il più lontano giocatore:
diventa una funzione del senso o del gioco linguistico.
3. Reversibilità o irreversibilità?
Se si cerca di circoscrivere i luoghi della
significazione attraverso i diagrammi, come nel caso dei grafi esistenziali
peirceani, o anche nelle semplici legende di una mappa geografica, si potrebbe
dimenticare il fatto che una indicizzazione non è una lingua, né della lingua
mostra le proprietà. Guardiamo invece dove si mostra la specificità della narrazione,
nei luoghi circoscritti dalle visioni dei poeti, in cui spesso si simbolizza
qualcosa, spesso le donne dei poeti o le terre da loro auspicate
allegoricamente come sogni irraggiungibili. Come Saussure difende sono
irrisorie, rispetto alla comprensione in atto, le differenze tra senso proprio
e senso figurato, in virtù della fondamentale negatività della lingua. “Non c’è
differenza tra il senso proprio e il senso figurato delle parole (oppure: le
parole non hanno senso figurato più di quanto abbiano senso proprio) perché il
loro senso è eminentemente negativo” (Saussure, 2005, p. 80). È sorprendente come le parole, se portate alla luce come oggetti,
diventano immagine di altro tipo, anche non verbale, e lo diventano nello
stesso senso in cui in un dipinto dei macchiaioli vediamo paesaggi, oggetti
materiali e lo vediamo non come esperienza privata, ma condivisa. Anche le
parole sono gesti del pensiero, lo sono come espressività divergente. Quello
che comunemente si chiama senso figurato è allora un altro senso che tuttavia
non è, in qualche modo, paragonabile ad una “normalità” della stessa parola che
ha un valore determinato soltanto nel contesto d’uso. Ma è anche vero che non
tutto è poesia. Come pensare, in realtà, che la limitazione che in alcuni contesti
viene data al significato sia consolidata nell’uso del senso comune? Il
cambiamento introdotto dalla scrittura poetica influenza anche il modo di usare
le stesse parole nella prassi quotidiana: fino a che punto è un’immagine di
qualcos’altro, di altre categorie mentali?
3.1. Per una destrutturabilità progressiva
Wittgenstein suggerisce la
somiglianza delle parole alle immagini come forme o rappresentazioni. Si mette
in campo una questione più volte affrontata di recente nelle scienze cognitive
e nelle filosofie del linguaggio moderne. “Il concetto di “immagine interna” è
ingannevole, perché a modello di questo concetto si prende “l’immagine esterna”; e tuttavia gli impieghi delle
parole che denotano questi concetti non sono tra loro più simili di quanto non
lo siano quelli di «segno numerico» e di «numero»” (Wittgenstein, 1953,
p. 259). Tuttavia Wittgenstein
non sembra avere dubbi sull’esteriorità, o meglio sull’aspetto pubblico del
senso: è come se ci volesse dire di non complicare ulteriormente il mondo delle
parole, di non farne feticci assurdi, come nel caso del “segno numerico
ideale”. Il segno “2” non è che un numero, e la parola numero ha già la sua
complessità. Non c’è un esterno da contrapporre a un interno, nessun “2” è al
di fuori di qualcosa o all’interno di qualcos’altro, così come nella poesia
nessuna immagine-oggetto è nella testa di chi legge, ma non è neanche al di
fuori della portata esistenziale del discorso poetico. La sua esistenza è
indubitabile, è l’identità iniziale che per Saussure è la prima cosa semplice
che ci viene data di fronte agli occhi. L’idea di una decostruzione delle forme
linguistiche che lo strutturalismo ha cercato di sostenere non è uno “scavare a
fondo” per trovare in un luogo prestabilito un suo tesoro, le verità sulla
lingua o sul significato di una parola della lingua. Proprio perché non c’è
alcun pozzo dei desideri alla base dell’arcobaleno del linguaggio, l’esistenza
semiologica non ha molto a che vedere con la verità in sé, ma è mezzo e modo di
approdo ad essa. Questo sarebbe possibile se mai avessimo quell’occhio mentale
utile ad arrivare ad uno sfondo condiviso di forme linguistiche accettate da
ogni soggetto parlante in uno stesso percorso linguistico. Se partiamo dalla
premessa che il gioco linguistico ha una sua verità, possiamo pensare di
condividere un luogo di sensi che circoscrive quella città invisibile che fa
parte del nostro sogno semiotico, il “dove” che si trasforma nel “come”: si
costituiscono in breve i modi semiologici e semantici.
3.2. Molteplicità delle figure
linguistiche: dimenticare i sensi
In alcuni luoghi comuni delle forme
linguistiche troviamo esperienze di “dimenticanza” o di smarrimento che
l’espressione linguistica accompagna. Penso alle situazioni di imbarazzo che
vengono chiamate di “asocialità”, per un uso assoluto di emblematicità del
senso comune. In altre parole è come se la figura dello smarrimento portasse
non forme nuove o giochi di segni da riformulare e riadattare al contesto
d’uso, ma come se la parola pronunciata fosse deformata o, come spesso si dice,
appartenente a un’altra lingua. È proprio di questo che si tratta. Quando si
dicono espressioni come “ma che lingua parli?” o, come ho avuto modo di sentire
di frequente, “parli arabo?” si fa riferimento a una figura del significato che
non è rintracciabile al di fuori di una tradizione ben determinata e basata su
principi a priori che possono essere considerati ormai superati, alinguistici.
È come pensare a due generazioni di lingue che si differenziano o pretendano di
differenziarsi sulla base di etichette contenute in classificazioni ristagnanti
senza alcuna reciprocità. Si tratta appunto di un’immagine interna che ci si
illude di non poter comunicare, come se non si trattasse di parole ma di
oggetti ognuno comprendente una funzione che è straniera all’altro. Il punto è
che non ci sono funzioni che una parola qualsiasi, potenzialmente, non può
svolgere. Il tutto si risolve nel capire perché essa non diventa condivisibile
per il parlante, per quale motivo non è sentita come comunicabile. Non si
tratta di alcun problema patologico, ma di una sorta di coscienza linguistica
personale che non “ha la volontà” di voler cambiare l’ordine dei suoi calcoli e
le progettualità che fanno di una figura un vero e proprio abito, nei termini
peirceani. Si pensi a quale idea ha questo particolare parlante del mondo: egli
pensa che la sua lingua sia intraducibile, pensa di poter essere solo. La sua
illusione è lecita, perché il suo linguaggio ha molte più ancore di quelle che
egli stesso è capace di manovrare, di gestire. Il primo uomo pensava
probabilmente di dover trovare qualcosa di diverso da sé e non a qualcosa o
qualcuno che fosse esattamente come lui. Ma s’illudeva: come il suo riflesso
nello stagno era facilmente cancellabile dalle onde lo era anche quello delle
altre cose materiali e delle altre facce. Il segno-uomo è modificato
inevitabilmente, e la sua volontà non ha a che vedere con la sua coscienza o,
come si spesso detto, con la sua autocoscienza. Non è chiaro in alcun caso cosa
significa aver consapevolezza di un fatto che riguarda se stessi: ciò che
accade a un uomo è qualcosa che l’uomo vive, e che in qualche modo può soltanto
subire. Tutto ciò che pensiamo di racchiudere nella parola fatti, con un verismo spropositato, in
realtà non ha a che fare con la vita umana, ma con altre forme di percezione
semiotica che, come già Darwin affermò, sono comuni a molte forme di vita
animale, non soltanto dell’uomo. Una conchiglia trovata per terra e risalente a
migliaia di anni or sono non ha altro che una sua identità, che l’individuo può
intimamante sentire parte della sua stessa storia, giacché è lui stesso a
vederne la forma, i contorni e a riconoscerne anche la provenienza e l’età.
Avere coscienza di quanto ho appena descritto non cambia nulla: l’uomo che
trova la conchiglia vive qualcosa, un impatto silenzioso con il mondo. Non gli
serve qualcosa che lo provi o lo misuri rispetto a qualche altro avvenimento.
In questo si snoda il fatto che non c’è alcuna superiorità dell’uomo sulle altre
specie viventi. Qualunque siano le abilità non ci possono essere forze speciali
che irrompono nella quotidianità per mettere sull’attenti la vita
esperienziale. “Qui con “intenzione” intendo ciò che impiega il segno
nel pensiero. L’intenzione sembra interpretare, sembra dare l’interpretazione
definitiva; non però un segno o un’immagine ulteriori, ma qualcos’altro:
qualcosa che non si può interpretare ulteriormente. Ma si raggiunge un termine
psicologico, non un termine logico” (Wittgenstein, 1967, p. 51). É come pensare, in condizioni
normali, di poter prevedere la propria morte. Si può pensare di stare così male
da perdere completamente l’uso dei propri pensieri, una morte psicologica,
diremmo, o avere un grave incidente o, viceversa, possiamo morire pensando di
essere vivi. In mano abbiamo soltanto costanti emotive, modi già visti di
presentarsi della realtà. È una forma di intuitività che comporta l’affermarsi
di legami del passato e relaziona al prelogico, all’istinto del presente.
4. Presente e costanti emotive
Se pensiamo che è possibile
raccogliere ogni esperienza in descrizioni linguistiche dobbiamo chiederci come
il ricordo o l’immagine di esse si presenta in relazione alla sintatticità
emotiva che ciascun soggetto parlante manipola. Accettando l’idea che non c’è
niente che non sia già stato presente alla coscienza, che non c’è mai un nuovo
pensiero, nel senso più totale (penso a quanti scienziati hanno avuto idee
rivoluzionarie il merito delle quali è stato attribuito ad altri,
successivamente premiati per la loro impetuosità: nella storia delle scienze
matematiche ci sono molti episodi di questo tipo e di tale portata). O i casi
di uso implicito di principi che il parlante non ha bisogno di rinvigorire
attraverso la forma esplicita, ma che sono spesso oscuri all’interlocutore,
cause dei numerosi fraintendimenti che caratterizzano la verbalità dialogica
dell’emozione umana. Ciò che appare come privo di elasticità, o duttilità, come
un sentimento non esperibile, perché legato per esempio a un ricordo di un
fatto già accaduto, o legato a una persona immaginaria, si lega a effettività,
a cause, che nella terminologia peirceana sono interpretanti emozionali,
laddove il desiderio si attua in significati propri, specifici. “The first
proper significate effect of a sign is a feeling produced by it. There is
almost always a feeling which we come to interpret as evidence that we
comprehend the proper effect of the sign, although the foundation of truth in
this is frequently very slight. This "emotional interpretant," as I
call it, may amount to much more than that feeling of recognition; and in some
cases, it is the only proper significate effect that the sign produces. Thus,
the performance of a piece of concerted music is a sign”
(C.S. Peirce: CP 5.475). Qui Peirce parla di un
interpretante emozionale che è il primo effetto proprio di un segno specifico,
facilmente riconoscibile nelle sue verità o, potremmo dire, in quello che dice,
che mette in evidenza. A volte un segno è soltanto questo, un interpretante emozionale,
come nel caso di una colonna sonora. Può ammontare a qualcosa in più del
sentimento di riconoscimento, può avere un senso (meaning) più forte della
familiarità, della percezione con la quale ci muoviamo nel mondo, per il fatto
che siamo già nel processo di semiosi. Si tratta allora di pensare ad
una semiosi che sia il risultato di interpretanti che hanno agito al di là
dell’introspezione, che hanno già dissociato e quindi anche associato le parti
psicologiche, che sono divenuti logici. Potremmo concludere che rafforziamo
l’idea del presente nella traduzione di uno stato emotivo in uno
antipsicologico, non più interno alla privatezza del proprio sentire, ma con
una proiezione di questo sulla soggettività estesa delle semiosi in cui ci si
trova a operare. Quando si supera la fase di rispecchiamento del bambino
nell’adulto, per esempio, attraverso il riconoscimento degli stessi movimenti e
in forme più complesse degli stessi atteggiamenti, avviene lo spostamento dalla
soggettività alla semioticità, seguendo Peirce, attraverso la significazione
primaria dell’interpretante emozionale. È il presente del significato. Tra
potenzialità e atto pragmatico, ossia diagrammaticamente programmabile) c’è una
zona intermedia, ed è il presente logico, ma anche psicologico, malgrado Peirce
tende a differenziare i due anche sul piano ontologico, esistenziale.
4.1. Abduzione:
la finitezza del pensiero e il sogno
Come la
psicoanalisi ha sottolineato, il sogno può dare un forte significato alle gravi
psicosi. Esso però prima ancora dello scolio della malattia può dare senso alla
capacità universale dell’infinitezza del pensiero, e in cosa è possibile
trovare il carattere d’infinitezza. “Il pensiero può, per dir così, volare; di camminare non ha bisogno. Tu non comprendi, cioè,
tu non hai una visione complessiva delle tue transazioni, e per così dire
proietti la tua incomprensione nell’idea di un mezzo in cui sono possibili le
cose più sorprendenti” (Wittgenstein, 1967, p. 61). Si può determinare e riconoscere una qualsiasi
nuova forma di pensiero: essa è una transazione, una verità nascosta ma già
conservata nella caverna del pensiero. Come nel caso dei sogni, quando ad
essere rinnovate sono idee e progetti attraverso una apertura all’inconscio. Se
ci pensiamo bene l’inconscio è un insieme criptato di pensieri, che ci sono,
vivono già nel dinamismo preannunciato dalle immagini mentali. Il punto da
affrontare sarebbe quello della stanziazione dell’infinito. La domanda “dov’è
l’infinito?” resta tale, suggerisce Wittgenstein. Esso è quello che cerchiamo,
che evidenziamo in ogni minuto della nostra esistenza. Al contrario, però, di
ciò che sostiene Wittgenstein, ovvero che il calcolo è infinito, sarebbe da
riconoscere che è infinito proprio ciò che non è possibile calcolare[2].
Come incalcolabile è un sogno. Esso è tale proprio in virtù del fatto che è
un’immagine non circoscritta, non delimitata. È un pensiero, un’idea inconscia:
è la realtà del sogno che nella sua vaghezza ci rende partecipi della finitezza
incalcolabile della veglia. Il gesto del ricordare un sogno è una
riabilitazione all’immagine, una ricerca della finitezza intangibile di altre
forme di pensiero, tra le quali quello matematico è il meno vago, certamente.
Al di là dei casi eccezionali, come Einstein sognatore delle dimostrazioni
matematiche, ma di cui pare non ci sia più alcuna traccia nei grandi scienziati
viventi, è improbabile che qualcuno abbia la capacità di sognare la
ri-soluzione di una seria dimostrazione algebrica. In breve, come riporta
Wittgenstein, il finito racchiude l’infinito, se è l’infinito del pensiero[3].
Entrano in campo almeno due questioni. La prima è quella che riguarda
l’astrazione come un processo, quindi riconoscibile o, come direbbero i
cognitivisti, modulare, divisibile in parti, nella querelle insoluta dell’idea
di unità di spazi e tempi finiti e continui. La seconda è: il non detto
dell’inconscio, è calcolabile? Ha lo stesso tipo di progettualità dei
ragionamenti vivi, condivisibili verbalmente? Di fatto, non si ha a che fare
con estremità di una parete, per esempio, ma con relazioni semiotiche o
semplicemente con semiotiche misurabili in qualche modo attraverso strategie
che sono in grado di formare significati.
4.2. La rete linguistica della
dimostratività
A questo punto insorge chiaramente
la domanda sul confine che separa la logica in sé, con il suo infinito, dalla
logica della psiche: esiste realmente questa differenza? Wittgenstein sembra
suggerire di avversare la scissione tra la due scienze, tranne nel caso in cui
si dà alla parola “psicologia” una riformulazione in chiave strettamente
introspezionista – di stati di cose individuali e inattingibili, ma questo
ormai è più che negato dalle ricerche moderne e contemporanee. Negli Zettel Wittgenstein pone in rilievo questo
paradosso che intrattiene i diversi modi di intendere l’intenzione, quella che
il filosofo vuole separare totalmente dall’idea di processo: “Se voglio
descrivere il processo dell’intenzione sento, innanzi tutto, che ciò che essa
deve fare può farlo se, prima di tutto, contiene un’immagine estremamente
fedele di ciò che essa intende. […] Quasi quasi si potrebbe dire: «L’intenzione
va, mentre ogni
processo sta fermo»” (Wittgenstein, 1967, p. 53). Il muoversi delle realtà fenomeniche come
sillogismi definiti dalle forme storiche presenta nelle forme intentive alcune
peculiarità che autori come Wittgenstein ricordano sprovviste di una volontà
esterna all’atto in sé. Come pensare che ciascuna nostra azione è
effettivamente intrisa di infiniti modelli ai quali restituire le vestigia
prima di mostrarne gli errori. Nella operazionabilità del senso comune il fatto
che ci sono immagini talmente radicate nella logica usuale da agire come
veicoli porta alla ripetizione di schemi nei quali non c’è alcuna aspirazione,
alcuna aspettativa. Essi si mostrano in sé e per sé, denudando in presente e
rendendolo progressivo, inusuale nella scioltezza finita delle singole azioni.
È l’idea peirceana di diagramma che diventa una sorta di metro per la
definizione di logica della scrittura, un po’ come nell’idea complessa di
grafematicità.
5. Conclusioni
Se ci fosse davvero un criterio di
insensatezza - come Wittgenstein propone - tale da restituire all’immaginazione
il suo primo compito di autodeterminazione potremmo dividere la concezione del
modo di realizzazione dei sensi dalle esperienze che abbiamo di essi come
istintivi o prelogici fino a dissodare il terreno del linguaggio oggetto, di
ciò che manipoliamo con fiducia. Non è un uso di esperienze che dalla
eversività porta all’autoregolazione: è insensato dire “tutto serve a
qualcosa”, il tutto non è comprensibile, in primis, e inoltre non c’è soltanto
l’esperire, ma purtroppo anche il subire. Il controllo delle emozionalità non
dovrebbe dunque avere a che fare con l’esperienza, la dovrebbe al contrario
allontanare e farne una negatività, una negazione alla realtà: attribuirne il
senso di pura rammemorazione, indicando ad ogni fatto la strada che porta
all’uscita dalle costanti emotive che possono attribuirsi ai significati.
Parlare di tradizione può significare parlare di forme linguistiche sorrette
non soltanto da sintassi grammaticali ma anche da sintassi emozionali. È il
senso del diagramma peirceano e dell’interpretante emozionale come primo indice
della formazione di ipotesi sul mondo e non di semplice percezione degli
universali. In ciascun atto emotivo che si riferisce al simbolo di un
personaggio, per esempio, c’è una costante emotiva della linguisticità, non una
semplice posizione istintiva, ma una connettività che si manifesta nelle forme
generali di apprendimento. Infine, l’individualità dell’atto fonatorio
contrasta la collettività della parole per il fatto che è nel primo che il linguaggio
è un simbolo proprio, strettamente legato al singolo soggetto parlante. Se è
vero che l’immaginazione non è un senso debilitato ma, al contrario, il fulcro
della scoperta scientifica e, in certa misura, nelle esperienze quotidiane di
adattamento, il discorso verbale che fa delle emozioni regole può diventare
segno puro ossia unico, distinguibile dagli altri.
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[1]
Lo Piparo ne parla nel senso di terza dimensione della lingua per accertare la
pluridimensionalità del linguaggio (cfr. Lo Piparo, 2003, pp. 98-102).
[2]
È da riconoscere la preminenza di una posizione matematica della questione.
Essa si è presentata come il problema del continuo, fin dalla posizione aristotelica
della Physica (cfr. Sergio, 2006, pp. 229-242).
[3]
Wittgenstein riporta: “Hardy: «That “the finite cannot understand the infinite”
should surely be a theological and not a mathematical war-cry» (Wittgenstein,
1967, p. 61).
Sentire le regole delle normatività che vivono nei generi linguistici non ha a
che fare che con logiche sequenziali che il senso comune condivide con ciascuna
scienza (e sarebbe maggiormente corretto il contrario).
Poesie di Silvia Redente
Sguardi
La notte
subbuglio
di firmamento
nella dimensione speciale
di improvvisi sguazzi
fili di seta
che fanno del pensiero
nuovi appigli
corsi d’acqua cifrati
cascate d’argento
nebbie salite per nascondere
le note di una canzone
frammentaria
nella sincerità
di un assolo
come a fuggire
dalla sapienza senza tempo
a dipingere
lo sguardo di un sasso
Che sia senza fine
Un pensiero che non abneghi mai
Una sensazione di finitudine e di coraggio
Nella dignità di ciascuno
Allora è così che vive
Dancing
Girando l’angolo
finisce il pensiero
inizia il vibrare
della natura
racchiude
il giro di ballo
della speranza
nella negazione del finito
nel desiderio di essere
ancora altro
di volerne sentire
il profumo iridescente
radicato insonne
privo di carattere
forse immaturo
raffinato dalla quiete
assassino del proprio presente
Tempo
Cercare un marchio
di sé una missione
arrivare alla rinascita
del proprio essere
nel mondo
senza diciture
pubblicità del passato
mai finito
ricordi inespressi
lontani non vissuti
nella certezza
della riuscita avvinghiata
al sordo fischiare del tempo
Perimetro
La realtà che mi
si forma con i granelli
del tuo foglio verde di
quello che hai legato
fine sottile e la tua cadenza
fermata a posta epigona
esile ma di certezza condivisa
la ragiono annaspando tra i
precorrimenti di generazione
che farai con addomesticamenti
e diffrazioni
La ricezione è favorevole alla
porcellana che il tuo volto mi
obbliga come granellame
frutto del settantasette che nessun
circo detiene nessuna belva
feroce ma parole e ovvie
associazioni d’impatti all’angolo
del tuo rosso addizionare favole
che uniscono ai tuoi rimandare le epoché
ma i feeling si inaspriscono e il mio
albero rilascia poche dichiarazioni
le allinea a te
anche se è un giorno
da palindrome
che importa se il sorriso
è il mio e senza sforzarsi
si aggancia alla direzione
deviante dall’uncino alla porta
due arnesi da far ragionare
se continuamente rafforzati in
bicipiti che speri ti difendano dal tuo candore.
Città
Non c’era che uno
e adesso che ha promesso
di non provare a fare
musica deve invece
farla a domenicali incontri
in tarda festività se me
lo avesse detto prima
avrei riavuto un’incudine
amalgamata
di fiori mentre
già entrambi di nuovo
si riallacciano ai loro
passati delusa da entrambi
i geniali intenti non fa
a meno di temporali
e carbonio all’accadere
del tempo
Scritture e Lingue dei Segni
Scritture e Lingue dei Segni
- Introduzione
La corrispondenza tra le forme
codificabili e quelle altre non ancora rese tali dalla sistematicità del
linguaggio è evidente nella relazione tra le scritture e le lingue dei segni.
Il quesito del luogo comune presente tra i diversi sistemi è quello del
riconoscimento di un nucleo al quale riferirsi per la realtà delle forme
linguistiche. Poiché è nel gioco dei segni che la prassi è determinante, il
passaggio dall’immotivato all’arbitrario diventa gioco linguistico se ancorato
alla ricognizione di questo. Pensiamo, a questo proposito, a cosa si intende
per lingua naturale e a cosa, invece, per lingua artificiale. Nel primo caso
esiste una conformità tra mondo e parole, anche se questo non è un modo diretto
e semplice di correlazione; nel secondo, invece, c’è un elemento esterno al
sistema in gioco che interviene come una sorta di interferenza a disturbare la
realtà segnica. Per vedere più da vicino quest’ultimo aspetto pensiamo alla
standardizzazione come modo di omologazione delle variabili linguistiche: il
carattere forte delle forme logiche passa attraverso la trascrizione dei
rapporti spazio-temporali che vivono nelle lingue impiegate dai soggetti
parlanti. Si tratta di considerare il peculiare rapporto che un mezzo esterno
alla forma linguistica naturale ha nella più generale realtà logica di
appartenenza: dal punto di vista del gioco dei segni non è rilevante il punto
di arrivo inteso come forma cristallizzata ma è piuttosto la tendenza ad esso,
fino ad assumere caratteri formali. Questi caratteri di per sé non hanno alcuna
definizione. Essi sono infatti determinabili ma non determinati, proprio perché
vivono nella realtà pratica dei giochi linguistici. Nelle forme di scrittura
che vediamo oggi ci sono nette separazioni, in molti casi, tra il modo di
produzione delle testimonianze linguistiche che assumono caratteri letterari e
le forme in uso. Anche nelle lingue dei segni troviamo questa complessità; non
è definibile, infatti, una lingua madre dalla quale discendono le altre lingue
“minori”. Non c’è alcuna gerarchia che rimandi ad una conformità iniziale,
originale, alla quale aggiungere o sommare la lingua ufficiale: quello che si
pensa come standard non è la vera corrispondenza tra i segni scritti nei
dizionari e le grammatiche utilizzate effettivamente. Da un lato, nelle lingue
dei segni i diversi tratti morfofonologici ovvero più strettamente grammaticali
hanno caratteristiche afferenti a diversi livelli del discorso: anche qui la
materia dell’espressione non è unica, poiché intervengono tratti
sovrasegmentali specifici che hanno a che fare anche con la fisiognomica, la
gestualità naturale, i caratteri simbolici complessi non soltanto linguistici.
Dall’altro, la nozione di scrittura, considerata come lingua, permette di
affacciarsi alla questione della corrispondenza tra pratiche linguistiche e
realtà epilinguistica e metalinguistica. Si pone tra i due livelli di discorso
il problema del come avvicinarsi alla rielaborazione formale senza perdere i
caratteri naturali che danno alla lingua il valore di cui si nutre nelle realtà
sociali. È in un certo senso ricollocare tra le forme linguistiche
visivo-gestuali e quelle vocali e scritte la questione dell passaggio da segni
iconici e ipoiconici a quelli simbolici e arbitrari. Ma qui vorrei
riallacciarmi alla definizione di scrittura e di lingue che si realizza
nell’analisi delle forme naturali e nella distanza che da queste, in gradualità
differenti, si costituisce un’arbitrarietà non più sensibile all’incompiutezza
della memoria linguistica, laddove il senso comune viene abbandonato per un
grado di analogicità in eccesso, quello delle lingue standardizzate. Esse si
nascondono nei livelli di espressione impliciti ed espliciti, nelle lingue
vocali come nelle lingue de segni dalle quali la scrittura emerge come oblio
differenziale. In questo modo di guardare alla scrittura i rapporti specifici di
essa con le lingue si manifestano nelle forme di poesia delle lingue segnate.
Già Diderot evidenzia come l’energia del linguaggio non è riducibile
all’espressione della lingua, riferendosi alle lingue vocali: è l’energia del
gesto a manifesta, invece, il sublime[1].
Esattamente al contrario dei registri artificiosi e standardizzati, il
linguaggio poetico asserve la scrittura facendone emergere le forme libere,
come quella del processo abduttivo che si esprime nelle forma analogiche e
nelle assonanze, ma che vediamo presentarsi anche nel meccanismo che regola le
anafore ed in parte le metafore e le metonimie. Ciò che regge il movimento
della differenzialità sistemica e della variabilità non è dunque una
convenzionalità pura e semplice, come quella dell’accordo tra due individui che
per ellissi sono sempre al di là della sistematicità produttiva, se considerati
come la rappresentazione di uno stato linguistico. Poiché ogni sistema presenta
una autodeterminazione mai definitiva ma sempre mutevole nel dominio linguistico,
la realtà che si sottopone alla trasmissione delle forme specificatamente
letterarie, come quella poetica, è naturale. La funzione dello scritto non
riduce tuttavia la questione della distanza tra la forma scritta e quella
visivo-gestuale. Nell’analisi di una poesia in Lingua dei Segni Italiana Russo
evidenzia come si manifesta nella poesia segnata quella capacità
metalinguistica riflessiva[2] tipica della coscienza linguistica. È da questo
primo punto che emerge la necessità di una divisione specifica tra la scrittura
in senso tecnico e la trascrizione attraverso il sistema Sign Writing (SW)[3]
delle lingue dei segni. Il rapporto tra la metalinguisticità manifesta nelle
lingue verbali il riconoscimento della possibilità di rielaborazione testuale.
In effetti, nella lingua dei segni c’è un rapporto iconico forte tra la
rappresentazione visiva e il documento scritto: la dimensione iconica è
naturale, perché configurata rispetto alla reale forma di cui i segni sono
portatori. Se pensiamo al legame tra la scrittura e la gestualità possiamo
vedere meglio il rapporto tra la forma visivo-gestuale e realtà
morfofonologica, tra la realtà formale perché relazionalità emergente nei
rapporti sociali e ciò che perdura come documento storico al di là della
cognizione del presente.
1. La nascita delle scritture nella Lingua dei
Segni
- Lingue dei segni, LIS e scrittura
Vico evidenzia[4]
che esiste una stretta relazione tra le “lingue mutole” e i caratteri
ideografici scritti. Esiste, in effetti, una simmetria tra i due piani
dell’espressione in gioco ossia quella gestuale-visiva delle lingue dei segni e
quella spazio-visiva delle lingue scritte. Cosa intediamo per complementarità
tra due lingue lo spiega bene Prieto e credo possa valere anche per il tipo di
complementarità tra la LIS (Lingua Italiana dei Segni) e le lingue italiane,
scritta e vocale. In tal senso possiamo ricercare i nessi tra i caratteri
rilevanti che definiscono i tratti specifici di ciascuna lingua. Come Russo ha
rilevato insieme al suo gruppo di ricerca ci sono diverse tipologie di
approccio ai caratteri relativi alle proprietà sintagmatiche e paradigmatiche
decisive per la corrispondenza dei segni gestuali con i segni delle lingue
vocali. Quello che si evince è, tuttavia, un’insufficienza spesso presente del
rapporto tra linguisticità orale (dei segnanti in LIS come nelle lingue vocali)
e linguisticità scritta. In effetti, data la sostanzialità relazionale tra i
tipi di segni in gioco la temporalità relativa a ciascun tipo di sistema linguistico
ridetermina la portata significativa[5]
che si posiziona tra i simboli propri di ciascuna lingua. Possiamo così
riaccostarci all’analisi in strutture che dalla lingua scritta si riaggancia
alla sintesi del sistema vocale. Prendendo in considerazione i lavori di Kendon
notiamo come sia possibile diagrammatizzare in simboli diacritici le gestualità
spontanee che accompagnano i modi di realizzazione vocale delle lingue e che
vanno dalla prossemica alle sequenzialità simultanee della lingua verbale.
Esiste, dunque, un codice morfosintattico visivo che associa tra di loro il
tipo di disegni utilizzati nei dizionari per la diffusione della LIS e delle
lingue dei segni sviluppate nel mondo fino ad oggi. C’è una tradizione
determinata poiché già riconosciuta dagli studi socioantropologici[6],
per esempio, sui modelli sviluppati nei monasteri di diversi ordini religiosi;
ci sono, in effetti, diversi modi di esprimere in segni visivo-gestuali lo
stesso senso o lo stesso oggetto d’uso comune. La verbalità delle lingue dei
segni è tale poiché queste presentano i caratteri di prima e seconda
articolazione, ed i cheremi come unità specifiche di tali lingue sostengono tra
di essi una relazione linguistica complessa.
- Giochi e Segni Simbolici: la naturalità della scrittura
Poiché per analizzare un gesto
bisogna scandire in unità quella che potremmo chiamare la cadenza che la totalità del gesto verbale rappresenta nella
sua complessità nel ritmo specifico che si costituisce come forma, si installa
la necessità di una separazione tra struttura e processo formativo che possiamo
ritrovare sia nella Lingua Italiana dei Segni che in ogni altro sistema
linguistico, anche se in gradi o gradualità differenti in ciascun idioma. Si
tratta, in effetti, di un modello semiotico generale che astrae dalla forma
linguistica la necessaria reciprocità del gioco tra segni e tra tipi di segni
diversi nell’esplicitazione dell’iconicità arbitraria della significazione.[7]
È in tal senso necessario riconsiderare alcune nozioni di base come quella di
contesto, in relazione di inclusione ma anche antinomica, per certi aspetti,
con quella di cotesto che sembra escludere la relazionalità semiotica generale
delle regolarità non-linguistiche. Se è possibile far corrispondere le unità di
ciascuna lingua, almeno fino a un certo punto è anche possibile distinguere ciò
che è mero strumento di veicolarizzazione delle forme significative da ciò che
invece appartiene al senso comune proprio della lingua in questione. Pensiamo
alla definizione di senso proprio che Saussure rifiuta[8]
e a come può essere tradotta all’interno delle lingue segnate per mezzo della
relazionalità afonica con la forma visivo- gestuale. C’è una classificazione
che permette già di vedere negli schemi corporei l’effettiva modificazione tra
i paramentri di analisi e la reale iconicità linguistica che nelle lingue dei
segni è esplicita anche perché fortemente legata ai contesti. Ne troviamo un
esempio nelle forme onomatopeiche come il segno “telefono” in LIS, in cui il
gesto rappresenta esattamente il mezzo “telefono” che è anche l’oggetto del
discorso e che è identico nel gesto naturale dei bambini piccoli non udenti e
udenti, fino al punto in cui nei secondi interviene l’articolazione vocale e
abbandonata in parte quella gestuale. Nel Corso di Linguistica Generale
Saussure evidenzia che ci può essere una identità linguistica, in virtù del
fatto che ciò che è psicologico nella lingua è sociale[9],
poiché radicato non tanto al carattere fonico della lingua ma a quella dualità
incessante che muove il dominio del linguaggio. I segni della lingua devono
avere non soltanto costanti formative, come la materia di cui un segno è
costituito, ma sottoporsi all’aspetto dell’arbitrarietà. Ciò significa che non
c’è una sottomissione definitiva dell’oggetto al segno e viceversa, nel
rapporto tra oggetto e segno: si tratta di una relazione complessa (ad esempio,
la parola scritta cane è isomorfica
alla parola vocale “cane” e alla parola segnata “cane”), e non relativa ad una
mera entità materiale, quale quella della voce o dell’inchiostro, o, anche,
delle parole visibili su uno schermo come quello che sto usando adesso. Il
punto di vista dell’oggetto linguistico è la forma identitaria della forma
stessa, che eccede la semplice entità per sottoporre la significazione alla
variazione spazio-temporale della socialità effettiva. Ma ci chiediamo qui cosa
accade quando quella speciale corrispondenza biunivoca perde la referenzialità
che viene in qualche modo sostenuta dalle unità di ciascuna lingua ricadendo in
un’altra forma che passa attraverso un’ulteriore traduzione simbolica. La trascrizione delle lingue segnate in forme
sempre più complesse e distanti dalla naturale forma di scrittura che usiamo
diventerebbe una forma di artificio estremo, di mera standardizzazione, tale da
ridurre il rapporto indicale e iconico di cui l’arbitrarietà linguistica si
nutre.
2. Dalla storia alla semiosi
- Il tempo storico e la semiosi
La possibilità di iscrizione
della variabilità linguistica con il suo potenziale di oblio nella contingenza
dei monumenti letterari non è tanto nella storia, ma è il principio della
storicità in quanto tale. In questo senso, possiamo considerare la nozione di
identità come principio pratico che si istalla nella pertinentizzazione della
significazione. Per meglio dire, è necessario considerare la consapevolezza
linguistica di cui Russo parla a proposito
della poesia: Per consapevolezza
linguistica intendiamo, in questo
caso [che è quello del linguaggio poetico], la capacità di cogliere il rapporto
tra la forma espressiva di un segno (o di una parola) e il suo significato e la
capacità conseguente di costruire sequenze ritmiche, assonanze, parallelismi
adatti a veicolare proprio quel contenuto.[10]
Ad esempio, se ci poniamo dal punto di vista della sequenzialità
temporale diacronica ci accorgiamo di quello che nei generi letterari si
denomina personaggio: esso racchiude una serie di proprietà e di caratteri
mutabili che diventano un abito fittizio di cui il documento letterario è
portatore. Questo ci serve per dire che la coscienza letteraria ingloba quel
particolare tipo di riflessività di cui
Prosdocimi ci parla a proposito delle analisi saussuriane sulle Leggende
Germaniche. Egli evidenzia come esiste una realtà relativa alla forma simbolica
delle lingue e delle lingue letterarie tale da formare una dimensione ulteriore
di significazione che può essere denominata arbitrarietà metastorica[11].
È questo tipo di relazione simbolica che qui vorrei considerare come esempio di
rapporto della letteratura con la capacità comunicativa attraverso la quale si
parla. In effetti, è nella simbolicità che si racchiude la possibilità di
pertinentizzazione della realtà logico-formale rispetto ai segni in uso nei
nostri giochi linguistici. Questa premessa ci libera dalla ricerca di una
storia di per sé, che sarebbe sterile e vuota se assunta come semplice
variabile della significazione. Anche se consideriamo l’esistenza di gradi di
significatività, non possiamo prescindere dalla possibilità di rapportare
ciascun luogo o insieme di valori ad un contesto d’uso comune. Cosa si intenda,
tuttavia, per contesto sembra non essere tuttora chiaro. A mio parere, esso è
legato all’idea di sistema, nel senso più ampio che in Peirce è riconducibile
alla riduzioni in tassonomiche in categorie, realtà fenomeniche che permettono
di ricondurre ciascuna azione comunicativa, ad ogni livello, alla presenza
materiale della lingua. In tal senso, il linguaggio diventa origine immutabile
e sempre rinnovabile (pensiamo al paragone di Saussure con il ruscello, di
parmenidiana memoria) e riporta alla luce la frammentarietà del gesto storico
in cui il significato resta in oblio, in dimenticanza in quanto tradizione,
tale da essere sempre riportabile ad un altro punto della linearità delle
lingue. Se si assume l’avvenimento come vero (esso manca del proprio contrario,
dunque è non-negabile) si può descrivere la portata del fenomeno come
costrittiva: è in un reale stato linguistico che avviene, attraverso la
risonanza con lo spettro d’azioni comuni, il riconoscimento del complesso. In
che senso, allora, parlare di relazionalità tra mente e mondo esperibile? La
possibilità della emergenza di forme nuove di tipo semiotico all’interno della
logica del senso comune, per esempio, è un modo per avvicinare la funzionalità
delle lingue considerate ciascuna strutturalmente speculare ad un'altra, come
nel caso delle lingue complementari,
nell’accezione di Prieto[12].
All’interno delle Lingue dei Segni, in base alle ricerche recenti, si ritrova
una serie di caratteri sistematici che possono richiamare in campo le proprietà
emergenti delle lingue orali e scritte, con particolare attenzione ai caratteri
specifici di assorbimento iconico tra una lingua e un’altra che mi propongo di
analizzare. Ad esempio, afferma Russo che nella dattilologia le singole
configurazioni delle mani vengono utilizzate per riprodurre la sequenza di
lettere di cui è composta una parola. In questo caso è possibile utlizzare le
configurazioni per introdurre nella comunicazione parole che non hanno un
equivalente esatto in segni o termini specifici del gergo tecnico. La
dattilologia rappresenta, quindi, un modo per traslitterare in lingua dei segni
elementi della lingua vocale scritta, ma non è un procedimento base della
grammatica segnata, che è invece autonoma dalla lingua vocale e scritta.[13]
In questo senso la ricerca di una
relazionalità determinata quale è quella di una definitorietà delle relazioni
tra le variabili e le costanti presenti in un contesto linguistico diventa la
problematica principale, alla quale si legano quelle di identità, di unità e di
equivalenza nelle lingue, come già Harris[14]
ha rilevato rispetto alla teorizzazione di stampo saussuriano.
- Segni e lingue vocali
Tutte quelle pratiche epi e
metalinguistiche che di solito troviamo all’interno dei sistemi semiotici
complessi delle lingue hanno una serie id implicazioni nell’organizzazione
delle dimensioni della significazione. Come emerge dalle analisi delle lingue
dei segni rispetto, ad esempio, alle lingue scritte, ci sono dei rapporti
iconici particolari e specifici di ciascuna lingua e all’interno di
micro-sistemi e delle unità significative. Il principio di storicità alla base
dell’indagine tra la dialettica saussuriana di sincronia e diacronia rispetto
alla possibilità di classificazione categoriale periceana ci permette di
avvicinare la dimensione propriamente linguistica attraverso quelle che
possiamo considerare gradazioni di significatività che vanno a delineare
tipologie diverse di forme logiche. Assumendo la prospettiva del pragmatismo di
Peirce, in particolare delle sue influenze in Italia[15],
possiamo porci l’interrogativo sulla pecularità relazionale tra la continuità
delle lingue letterarie e l’inesauribile operazionalità della significazione. I
tratti determinanti specifici di ciascuna lingua permettono così di arginare le
possibilità di una sorta di deficit che viene spesso attribuito alla realtà
linguistica dei soggetti non udenti. Non soltanto, infatti, il soggetto
parlante è in grado di elaborare elementari giochi linguistici legati già alle
prime forme di relazionalità con i genitori, ma anche di sviluppare forme nuove
e innovative attraverso l’uso contemporaneo di più sistemi. Prendiamo ad
esempio i casi di bilinguismo, che possiamo ricondurre a proprietà specifiche
della materialità linguistica, poiché si tratta di una duttilità della
significazione che ha a che fare con la linearità del significante: l’ordine
del discorso è quello della diagrammatizzazione formale che riveste ciascuna
relazione logica.[16]
Ci sono classificazioni che dal linguaggio muovono la semiosi e ne ritroviamo
gli aspetti più evidenti nelle lingue storico naturali. Nella LIS, in
particolare, ci sono 15 luoghi, 38 configurazioni, 6 orientamenti e 32
movimenti[17] che si
appellano alle regole normative sottomesse a ciascuna relazionalità e a ciascun
rapporto tra forma dell’espressione e contenuto. Non soltanto, infatti,
dobbiamo ricordare che quelli che erano denominati sordi erano anche gli
“stolti”, e quindi emarginati dalla partecipazione alle prassi sociali e ai diritti
legislativi, ma essi erano anche privati della possibilità di esprimersi nelle
stesse comunità attraverso i gesti, poiché tacciati di immoralità da parte
della chiesa. Tuttavia, superata la divisione tra metodo oralista e manualista
e con l’intervento dell’abate De l’Épée intorno al 1750 e l’istituzione del
primo istituto per sordomuti, le possibilità di uno sviluppo sociale adeguato
alle capacità delle persone sordomute sono aumentate notevolmente. Le diverse
comunità che si sono venute a costituire sia all’interno che all’esterno
dell’istituto hanno portato con sé la normatività propria della lingua segnata,
permettendo una relazionalità equivalente, nel tempo, anche a quella di una
lingua non segnata. I caretteri specifici, come i cheremi e i tipi di iconicità
che caratterizzano le lingue dei segni sono stato convogliati nella LIS
attraverso la quale si può oggi contare per uno sviluppo sociale adeguato e
alternativo alla lingua italiana. I testi segnati permettono di rimettere in
gioco i modi tradizionali di approccio alle lingue e alla funzionalità di esse.
In particolare è stato evidenziato come esista una reale connessione tra
aspetti individuali e realtà collettive; in particolare la struttura in
relazione alla composizionalità simbolica è evidentemente una costante in tutte
le lingue segnate. In effetti, il tipo di tradizione che emerge dagli studi
sulla storia delle lingue dei segni mostrano che il grado di artificiosità o
chiusura di ciascuna lingua è molto alto, anche negli stessi periodi storici e
in luoghi molto vicini tra di essi. Anche all’interno di uno stesso istituto si
creavano più idiomi, e gli studenti, come in una lingua naturale, avevano e
hanno tuttora un proprio gergo, con i suoi idioletti e le sue forme specifiche,
che con il passare del tempo destrutturano la lingua ufficiale, malgrado non
sia ancora affermata, soprattutto in Italia, addirittura nelle stesse famiglie,
accrescendo la complessità del problema come evidenzia Caselli: Ma qual è la lingua madre dei bambini sordi figli di
genitori udenti? È quella che si realizza sul canale integro, ma che i genitori
non conoscono – e dunque non usano – e che devono imparare insieme ai loro
figli? O è quella della comunità di origine – la lingua parlata – che però
richiede al bambino un lungo e faticoso processo di apprendimento?[18]
In effetti, il criterio linguistico e socio-geografico è meno unitario
nel caso dei sordi. Johnson e Erting[19]
stabiliscono due criteri oggettivi per la differenziazione della comunità dei
segnanti: il criterio di paternità, della vita biologica e le caratteristiche
delle forme di vita costrette dalla sordità. Nel sistema da loro evidenziato il
nucleo centrale è più denso ed è costituito dal fatto di essere figli di sordi
e sordi fin dall’infanzia. Poi ci sono, nel secondo circolo “cellulare”, i
sordi che segnano fin da piccoli ma non sono figli di sordi, al terzo gli
udenti che segnano ed infine gli udenti che non segnano e i sordi che non
segnano, che in realtà non si considerano del tutto appartenenti alla comunità
sorda.
3. Artificiosità dei tentativi di trascrizione
- Universali linguistici e azioni pratiche
Le caratteristiche iconiche e
ipoiconiche della LIS seguno alcune forme normative che nei diversi tipi di
configurazioni rendono visibile l’ordine sintattico e grammaticale che nelle
lingue dei segni è legato all’uso dei luoghi dello spazio fino ad instaurare un
rapporto diretto tra luoghi ed oggetti nelle relazioni tra significati e
significanti. La natura della lingua è dunque specificamente iconica, legata
naturalmente all’ecologia ambientale. Ad esempio, si chiama morfologia
affissativa la possibilità di certi
movimenti di avere significato grammaticale, detto morfofonologico[20],
poiché i luoghi dello spazio hanno le stesse caratteristiche dei morfemi con
alcune determinazioni grammaticali. L’uso di anafore e di continui richiami
testuali permette di costruire il rapporto tra l’oggetto, il soggetto e il
luogo, quest’ultimo costruito prima dell’enunciazione e epifania di questa. Non
ci sono quindi che rapporti sincronici che tengono insieme ciascuna forma di
azione pratica, che in questo caso porta con sé la necessaria dimensione
simultanea, insita nello sviluppo diacronico dell’azione in presenza. Nelle
lingue dei segni ci sono sia registri fortemente iconici, come quelli poetici,
che registri più standardizzati attraverso i termini specifici stabili. La
forma stabile della significazione è una forma di artificiosità che provoca una
chiusura associativa, poiché, come in molte lingue e per molti registri linguistici,
l’analogia viene bloccata e inibita. È questo che accadde nelle forme di
scrittura più elaborate ma che realizzano una significazione in cui non
soltanto è diversa la materia dell’espressione, ma si modifica in larga parte
la realtà di riferimento, perdendo le caratterittistiche specifiche della forma
visivo-gestuale, come la spazialità e l’espressione facciale, sebbene i
classificatori inseriscano in qualche modo il formato simultaneo
dell’informazione. Tuttavia questo non è sufficiente anche a livello
neurobiologico, in cui a decadere è il tipo di rapporto diretto tra la visione
delle azioni e la capacità di riprodurle. Non è infatti scontanto che il
comunicare di cose visive con segni visivi sia sullo stesso piano della
classificazione restrittiva della semplice simbolizzazione di tipo
convenzionale, come vediamo per esempio nell’uso di segni diacritici di alcune
forme di trasposizione scritta. L’iconicità che si manifesta nelle immagini
verbali dei segni visivo-spaziali è evidente nelle fotografie e nei disegni
necessari alla riproduzione ed alla trasmissione delle lingue dei segni. La
forma di iconismo presente nelle metafore ci permette di fare una distinzione
tra le metafore vive e quelle morte: queste espressioni linguistiche
sottolineano il collegamento tra due campi semantici che usualmente non sono
legati. Mettono in evidenza, quindi, implicitamente, un aspetto dei due campi
semantici che potrebbe sfuggire. Ci sono metafore che non ci accorgiamo di
usare, come “ci aspettano giorni migliori”, che è una metafora cristallizzata,
mentre altre sono morte, poiché talmente insite nelle parole da restare legate
alla analisi in tratti semantici. Esse sono maggiormente legate al livello
grammaticale. Mentre nelle lingue vocali sono affidate al piano della
contestualizzazione diacronica, che si nutre di potenzialità forti, poiché ad
essere messe in gioco sono proprietà formali fortemente stabili, nei gesti esse
sono legate alla struttura del lessico, malgrado un legame metaforico si possa
riscontrare in tutti i segni. Il legame metonimico svolge una funzione simile,
poiché esso può essere considerato una forma specifica di metafora. In effetti,
la metonimia si riferisce indirettamente ad un significato particolare per
indicare e rimandare ad uno più generale, riferendosi ad una parte del segno in
uso. Metafore e metonimie sono i due modi principali attraverso i quali nelle
lingue dei segni si organizzano nuovi paradigmi lessicali. L’interazione tra
metafore e ipoicone è uno dei luoghi significativi in cui avviene l’incontro
tra iconicità e arbitrarietà ed è in questo senso che le metafore maggiormente
caratteristiche dei segni sono metafore morte, poiché di uso comune, delle
quali non ci accorgiamo dell’esistenza. Possiamo quindi affermare che le metafore
morte fanno parte del lessico mentre le vive si riferiscono maggiormente alla
sintassi e ai rapporti formali tra i segni. Un caso specifico è quello
dell’apprendimento dei sordi della scrittura: le parole non possono essere analizzate dal bambino in movimenti
articolatori e, dunque, gli si stampano globalmente nella mente come singole
immagini: il bambino se le ricorda sotto forma di immagini mentali. Da qui la
creazione di una comparazione non letterale basata sull’immagine della “parola
che si stampa nella mente del segnante come fosse una fotografia”. La metafora
innescata potrebbe essere descritta come “fare una fotografia mentale” oppure:
memorizzare è fotografare con la mente, dal momento che il segno RICORDARE in
LIS è eseguito nello stesso luogo (sulla testa).[21]
In particolare, pensiamo alla poesia come luogo di convergenza delle
forme significative diverse, vocali e scritte, con quella segnata. Il mutamento
di registro non fa che ricoprire ancora due campi semantici, quello del
fotografare mentalmente un luogo semiotico e quello del memorizzare. Questi due
realia permettono di rendere viva la
metafora iconica che rende realizzabile la comunicazione dei segnanti. Tuttavia
non è chiara la distinzione tra la forma linguistica dell’azione
visivo-gestuale e quella della realizzazione che occorre tra i segnanti una
lingua dei segni. Fino a che punto, infatti, è possibile dare ai caratteri
fisici della gestualità una corrispondenza con la rappresentazione scritta?
- La poesia segnata e il senso poetico
La premessa rilevante per una
nomologia delle lingue scrivibili si basa sul fatto che le lingue dei segni
sono al pari delle lingue non segnate lingue verbali: la relazione tra i
cheremi è infatti di tipo linguistico. Kendon[22]
evidenzia come ci sia un vero e proprio modello di trascrizione della
gestualità che accompagna le lingue vocali. Tuttavia questo sistema è
fortemente artificioso fino a perdere completamente i rapporti con la
linguisticità manifesta nella presenza dei soggetti parlanti. Se è possibile ripensare
i rapporti tra la forma linguistica della scrittura e la struttura delle lingue
alla luce dei testi dei segnanti, la dimensione simbolica della trascrizione
che passa attraverso la traduzione da una materialità ad un’altra, oltre che
attraverso piani dell’espressione diversi, installa uno scarto tra processo
formativo e forma. La teorizzazione più recente che riguarda la simbolicità
manifesta delle forme si presenta alla luce della ricerca basata sulle analisi
di posizioni diverse. In particolare, quando ci avviciniamo alla realtà della
prassi comunicativa umana notiamo come ad essere introdotte sono norme e fatti
linguistici, nei termini saussuriani, ma anche variabili non emergenti, come la
storia dei cambiamenti e le interazioni tra di essi. La nozione di forma del
messaggio o linguistica, da Saussure a Jakobson a De Mauro, prima, ma fino alle
recenti applicazioni della pragmatica del linguaggio, come nel caso specifico
delle lingue dei segni affrontato da Russo, permette di riaffrontare le questioni
principali che riguardano i fondamenti della comunicazione. Se ci poniamo di
fronte alla necessità di una interazione tra i registri differenti della parole, ad esempio, avremo un determinato modello di
pensiero che dovremmo piegare alle regole che si insinuano laddove si porta a
compimento un’altra forma di pensiero, attraverso forme simmetriche di
simbolicità linguistica, fino a modelli artificiali dai quali neanche le lingue
naturali sono esentate. Ma fino a che punto è lecito tradurre una forma naturale
in una sequenza di regole puramente convenzionali? I tentativi degli studiosi
contemporanei come Kendon ci avvicinano ad un modo di guardare alla memoria e
all’impiego della scrittura in maniera meno semplicistica. La performance
diventa un vero e proprio luogo indipendente dalla forma scritta, se intendiamo
per scrittura e scrittura quel sistema semiologico di tipo linguistico in cui i
segni grafici si piegano alla combinatorietà delle regole linguistiche basate
sulla linearità del significante. Pensiamo a Peirce nel tentativo di
realizzazione di forme linguistiche scritte circoscrivibili ad alterazioni
della prassi quotidiana attraverso i grafi esistenziali: i nessi e le relazioni
logiche che costituiscono un argomento, una o più proposizioni ed enunciati
hanno una forma che realizza uno stato reale del discorso[23].
Probabilmente legati a fini simili lo sviluppo delle lingue dei segni è il
frutto di una necessaria riattivazione dei giochi linguistici fini a se stessi
nella comunità dei parlanti. Ma non è ancora statto chiarito se si tratti di
una reale antinomia o di un rapporto complementare ed è a questo fine che
propongo di considerare entrambi gli aspetti, quello empirico di manifestazione
delle lingue segnate e quello teorico. L’applicazione teorica deve dunque
tenere conto della rilevanza fattuale del fenomeno poetico vivente tra i
segnanti.
Appendice
Propongo uno studio sperimentale
che permetta di rilevare le performance specifiche delle poesie in Lingua
Italiana dei Segni che si tengono periodicamente in Italia, attraverso il
contatto con l’attività diretta dei poeti che segnano è un modo per avvicinare
la realtà dei parlanti la LIS. Non è sufficiente, infatti, scorrere le pagine
di un dizionario della lingua italiana dei segni per capire la natura del
significato gestuale. Se la relazionalità tra scrittura e segno vivo è
indiretta è allora necessario fare un passo indietro per guardare alle forme
impiegate dai parlanti una lingua più o meno naturale. Il grado di
artificiosità delle trascrizioni dovrà allora comprendere una codifica non
puramente convenzionale, ma derivata dalla funzione che ha all’interno delle
comunità e più o meno evidente a seconda dei nuclei do contatto con le comunità
dei non sordomuti. Per non ricadere in semplici artifici della ragione
puramente convenzionali è necessario uno sviluppo dell’interazione trai sistemi
di segni che non si ancori soltanto alle forme antinomiche di confronta tra le
diversità più evidenti, ma che si ancori alla posizione di ciascuna realtà
vivente come modello di pensiero da prendere in considerazione.
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Meltemi, pp. 39-51.
[1] Cfr. D. Diderot, 1751, pp. 8-12.
[2] T. Russo, 2007, pp. 103-116 (in T. Russo – V.
Volterra : 2007), pp. 115-116.
[3] Cfr. A. Di Renzo, 2006, in A. Di Renzo, L. Lamano, T.
Lucioli, B. Pennacchi, E. Pizzuto, L. Ponzo, P. Rossini, 2006.
[4] Cfr. G. Vico : 1744, L. II, sez. II, cap. 4, § 446,
pp. 186-187.
[5] In senso tecnico (cfr. V. Welby : 1986).
[6] Cfr. J. U. Sebeok – T. A. Sebeok : 1987.
[7] Cfr. W. Sandler e D. Lillo-Martin, 2006, pp. 493-499.
[9] Cfr. F. de Saussure, 1916, pp. 13-23.
[10] T. Russo Cardona, 2007, p. 96.
[11] Cfr. A. Prosdocimi, 1983, p. 86.
[12] Cfr. L. Prieto : 1983.
[13] T. Russo, 2007, p. 141, n°2.1.
[14] Cfr. R. Harris : 2000a.
[15] Cfr. G. Papini : 1907.
[16]
Saussure
sostiene che una regola di sintassi e una regola morfologica «per un legame
profondo e indistruttibile appartengono allo STESSO ORDINE DI FATTI, e cioè al
gioco dei segni, per mezzo delle loro differenze in un momento dato» (F. de Saussure,
2005, p. 31).
[17] Cfr. V. Volterra : 1987 (ristampa 2004).
[18]
M. C. Caselli,
2006, p. 204 (in M. C. Caselli –
S. Maragna – L. Pagliari Rampelli – V. Volterra : 2006).
[19] Cfr. R. Johnson e C. Erting : 1992.
[20] Cfr. T. Russo, pp. 70-83.
[21] T. Russo, 2007, p. 90 (in T. Russo – V. Volterra :
2007).
[22] Cfr. Kendon : 2004, ma già Kendon : 2002.
[23] Cfr. C. S. Peirce, 2003 [1906], p. 140.
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