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mercoledì 14 maggio 2014

Silvia Redente Emozionalità e causalità della scrittura Dai racconti alle forme gestuali


Silvia Redente
Emozionalità e causalità della scrittura
Dai racconti alle forme gestuali


“Leggiamo una poesia, e questa ci fa una certa impressione. «Mentre leggi, senti la medesima cosa che senti mentre leggi qualcosa che ti è indifferente?» - Come ho imparato a rispondere a questa domanda? Forse dirò: «No, naturalmente!» - e questo vuol dire né più né meno che: questo mi afferra, il resto no” (Wittgenstein, 1967, p. 37).


0. Premessa

Frequentemente le posizioni che guardano alle realtà mediatiche della parola considerata naturale in opposizione elettiva alle imminenze di forme vicine alla spontaneità non verbale sono ritenute antitetiche alla psicologia del soggetto parlante. Secondo Wittgenstein l’individualità non va ad inficiare totalmente la consapevolezza collettiva: l’introspezione coniugata alla ragione riassorbe necessariamente la psicologia generale del gioco linguistico. “Voglio dire, propriamente, che gli scrupoli che si provano quando si pensa una certa cosa, cominciano (hanno le loro radici) nell’istinto. O anche così: Il giuoco linguistico non ha la sua origine nella riflessione. La riflessione è una parte del gioco linguistico” (Wittgenstein, 1967, p. 85). Molti autori contemporanei hanno evidenziato i caratteri morfemici del comportamento simbolico. Cimatti (2007) mette in evidenza un carattere importante delle formazioni del linguaggio: esse sono sistematiche così come lo è il mobile stormo nel cielo. Un paragone che permette di vedere in pochi attimi l’intangibilità della significazione, e anche l’inafferrabilità di essa. Harris (2007) analizza una serie di possibili definizioni che si riferiscono non soltanto ai linguaggi formalizzati, ma che si trovano in uso nella prassi quotidiana, chiamando in causa la gestualità, come nel caso delle definizioni ostensive. La forma di emozionalità del linguaggio è manifestata dalla reciprocità dei codici, in senso prietiano, di codici specifici e tendenzialmente complementari, atti ad essere tradotti l’uno nell’altro. Diventa insensato, quindi, chiedere ancora alla lingua di fare delle unità che la rappresentano veicolarizzazioni di altri sensi? E fino a che punto è lecito parlare di veicolarizzazione dell’articolazione linguistica nelle forme poetiche?


1.      Dai segni gestuali alle abitudini verbali

Delsaut (1975) mostra come l’organizzazione spaziale condizioni quella sociale della prassi comunicativa di un gruppo di persone. In particolare presenta le fotografie di un’abitazione di operai attraverso le quali “si è voluto suggerire la corrispondenza […] tra il modo di appropriazione dello spazio abitato e l’organizzazione del discorso popolare” (Delsaut, 1975, p. 21). Ciò su cui dobbiamo puntare l’attenzione è l’evidente rapporto esistente tra la lingua e un tipo di cultura principalmente orale. Si tratta di una comunità in cui la vita è scandita dalla lotta per la sopravvivenza in un’organizzazione spaziale in cui non esiste “nessuno spazio assegnato alle persone e agli oggetti: il contatto tra i membri della famiglia è raramente interrotto. Qualsiasi cosa facciano, tutti gli abitanti della casa si trovano praticamente raggruppati nello spazio comune” (Ivi, p. 23). Non c’è un criterio che stabilisce le regole di convivenza, se non quello dettato dalla contingenza. Le persone usano gli oggetti così come usano le parole, senza fare progetti a lungo termine, non potendo che vivere in base alle necessità di ciascun momento. La forma di vita è quella di un’attività comunicativa verbale orale spontanea e istintiva. È ciò che è naturale della lingua: un evento irripetibile e originale. Il mondo della comunicazione verbale orale di questa comunità è un buon esempio di quelli che Vygotskij (1934) chiama “concetti quotidiani” della lingua materna, appresi senza bisogno di intermediari come la scuola, propri dell’ambiente naturale in cui il bambino viene a trovarsi. Possiamo chiederci, tuttavia, in che senso si muove il rapporto tra lo spazio e la lingua. Ossia, è la lingua che influenza l’organizzazione spaziale o è lo spazio che la condiziona? L’esempio appena presentato della casa di un operaio dimostra come sia dal lato della lingua che dal versante dello spazio ci si scontra con una necessità e irrimediabilità. Non c’è un’esplicita possibilità di scelta autocosciente da parte del parlante, né per ciò che riguarda l’organizzazione dello spazio né per la lingua, nel senso in cui non esiste alcuna problematica rispetto a una nomologia della prassi sociale. Ciò che accade è ciò che è accettabile. Si possono inventare nomi nuovi e diversi per le stanze, un idioletto privato, poiché non c’è un punto di riferimento a cui adeguarsi, come potrebbe esserci invece in un’istituzione quale la scuola o un ufficio. Il lavoro compiuto in fabbrica è ripetitivo e meccanico, la lingua che si parla è una catena automatica e spontanea. Quanto influisce, in questo contesto, ciò che si vede su ciò che si dice e viceversa? A questa domanda possiamo rispondere pensando alle forme visivo-gestuali che accompagnano la prassi verbale quotidiana fino a diventarne parte integrante. L’incisività del rapporto tra lingua parlata, lingua scritta e segni gestuali è rilevata dall’analisi della sintassi dei gesti che accompagnano il discorso, poiché ne mettono in evidenza la sostanziale sintatticità.


1.1. Teorie sulla scrittura dei tratti gestuali

In diversi lavori Kendon sottolinea la possibilità di analizzare i gesti attraverso semiotiche scritte. In un certo senso ci sono grafemi gestuali, unità minime di articolazione delle forme segniche che differenziano un gesto emblematico da uno o più tratti distintivi di altri tipi di gestualità. Almeno in due sistemi troviamo modi di formazione dei segni gestuali, ossia nelle situazioni che Kendon (2004) denomina “face-to-face”, faccia a faccia e nelle dimensioni sociali più comuni ed estese in cui si è organizzati per occasioni specifiche, come una partita di baseball. In un certo senso la copresenza, il fatto che deve esserci un corpo e un insieme di altri corpi è un fondamento che fa dell’interlocuzione un modo per annientare l’illimitatezza infinita del regresso esistenziale: l’argomento della finitezza, del limite dello stimolo è un paradosso che la semiologia spesso deve affrontare per capire cosa si intende per significazione, nel campo specifico di una delineazione del senso del discorso. L’analisi linguistica rimette in gioco la transizione specifica della forma testimoniata dalla scrittura, e in ciò si trova la natura duplice del linguaggio, l’esistenza epistemica della quale è in continua formazione. A partire dai dati sperimentali fino ad ora raccolti sulla possibilità di trascrivere le forme gestuali delle lingue segnate, insieme ai segni delle lingue che i sordi e i sordomuti utilizzano possiamo ipotizzare che ci sia una possibilità aperta di formalizzazione delle capacità espressive della gestualità: un insieme di tratti semantici precisi sono individuabili e possono trovare una dimensione semiotica, una sorta di residenza astratta sia della comunicazione verbale, sia di quella non ancora linguisticizzata.


2. Storie e racconti

Come condizione di esistenza delle storie, cosa dobbiamo considerare fondativo? In altre parole, da un certo punto di vista, cosa contraddistingue la funzione linguistica della scrittura dall’esperienza che facciamo del linguaggio? Da molti anni di ricerche nel campo semiologico è stata rilevata l’importanza della distinzione tra struttura semiotica e struttura linguistica: questa differenziazione si trova alla base della questione più volte ripresa a partire da Saussure sull’identità linguistica. In questo caso vorrei prendere in considerazione la nozione di forma linguistica nella sua specifica attribuzione ai generi di scrittura come verbalità progressiva e non cristallizzata. In questo senso le leggende germaniche che sono state analizzate sulla scia del pensiero saussuriano, come in Prosdocimi (1983) permettono di dare una consistenza ai termini “personaggio”, “simbolo”, e in senso più ampio a quelli di “narrazione”, “storia”, nella loro opposizione o complementarità dinamica con la realtà linguistica e semiotica del senso comune, nelle quali sono sedimentate le logiche di formazione. L’ipotesi di partenza è che l’intento interpretativo delle forme scritte rispetto alla realtà contingente è quello di fermare alcune sincronie e stati di lingua attraverso costanti più o meno complesse che si ritrovano in ogni forma logica. L’intento è trovare e differenziare le forme emblematiche nei termini di variazioni dei generi nelle temporalità del discorso. Parliamo qui della già abusata nozione di genere linguistico e semiologico. In effetti, la scrittura ha almeno due proprietà: è la forma specifica di analisi delle unità semiologiche ed è argine della relazionalità dei segni; si parla di scrivibilità proprio per indicare lo slittamento continuo che va dalle pratiche del senso comune alla pertinentizzazione dei sensi non ancora cristallizzati e, infine, alla tradizione[1]. Cosa significa, in questi termini, destrutturare il linguaggio? Ha senso pensare di poterlo analizzare come se fossimo capaci di comprenderlo? Wittgenstein ci dà la possibilità di riflettere sull’immagine linguistica rispetto alla rappresentazione. Sarebbe possibile scolpire la progettualità delle logiche esistenziali o di primo approccio di analisi dell’intuizione logica. “L’avere l’esperienza vissuta di un significato e l’avere l’esperienza vissuta di un’immagine mentale. «In entrambi i casi si ha l’esperienza vissuta di qualcosa», si vorrebbe dire, «soltanto si esperiscono cose diverse. Alla coscienza Ë presentato un contenuto diverso – un contenuto diverso le sta di fronte». – Qual è il contenuto dell’esperienza vissuta di una rappresentazione? Si risponde con un’immagine o con una descrizione” (Wittgenstein, 1953, p. 232). Se attraverso l’analisi dell’esperienza è possibile ritagliare il fenomeno e circoscrivere il tipo di narratività che è in gioco la differenza tra linguaggio e lingua che Saussure introduce nei tre corsi di Linguistica generale può sottendere soluzioni ulteriori. Per ipotesi, riprendendo il pensiero prietiano, è possibile incanalare le “pratiche teoriche” radicate nell’evoluzione linguistica dell’essere umano nel “genere” scientifico. In gioco ci sono non soltanto chiavi di lettura differenti, ma vere e proprie costanti emotive che non possono non essere presenti nelle possibili forme di emozionalità poetiche mostrate da ciascuna forma linguistica.


2.1. “Esteriorità” e causalità del personaggio-segno

A partire dalle prime ricerche saussuriane sulla pregnanza della letteratura nella linguistica della parole il personaggio letterario diventa simbolo o risoluzione di insiemi di caratteristiche che un segno linguistico ha in una storia intesa come narrazione. In una sorta di repertorio che il simbolo narrativo espone alla storia (per esempio nella microstoria del racconto leggendario) la poetica del personaggio diventa maggiormente marcata in ogni passaggio da una scena alla successiva, definendo i contorni di una caducità dell’espressione rispetto al contenuto. In altre parole l’espressione perde il contatto con un’esteriorità a-linguistica e diventa essa stessa luogo simbolico. Cosa significa circoscrivere una proprietà rispetto ad un’altra? A volte Saussure sembra sottintendere che la differenza tra due segni deve essere considerata come diversificazione di singole proprietà. Sebbene un segno in sé non sia definibile, è necessario pensare ad esso come a un modello del pensiero che può essere frainteso, condiviso e quindi differenziato dagli altri in un segmento della parole a formare il segno linguistico complesso della scrittura o grafema. Nelle ipotesi della naturalizzazione della mente la forma linguistica assume una caratteristica particolare che è quella di una distanza anche quantitativa dalle semiotiche radicate nei sensi. A partire dalla prospettiva evoluzionista non possiamo ricavare una serie di proprietà dirompenti della lingua se non incastoniamo nella stessa corona altre gemme che sono proprietà fondative dell’uomo come essere biologico anche se non ancora del tutto integrato nella semiosi linguistica. Nel suo movimento di ascensione la lingua non ha determinato, in sé, altre logiche che retrospettivamente hanno agito nella semiosi della biologia umana. C’è un prima e c’è un dopo, più o meno riconoscibili, che fanno di una lingua una lingua; tuttavia non si determina in questi termini che un universo positivo in qualche modo già dato, in cui l’umano ha da lavorare a lungo per ambientarsi. Sappiamo che per l’uomo non c’è un habitat naturale, mentre c’è per una lepre e per un coleottero, o almeno c’è stato. Dire che la determinazione ambientale non ha a che fare con i processi di apprendimento di una lingua sarebbe quindi insensato, ma il processo stesso potrebbe invece essere dimenticato, messo da parte, se ci poniamo sul piano dell’espressione linguistica in atto tra i parlanti. Da questo punto di vista la crescita del linguaggio non è rilevante, o, ancora meglio, non c’è una crescita del linguaggio: esso raccoglie i fatti di lingua, da un punto di vista sincronico, e anche nel dominio delle azioni verbali che i parlanti compiono non c’è un tempo da cronometrare, al di là della successione data dalla consistenza stessa delle parole, dalla sintatticità che dà la forma al senso. Quale deve essere, allora, la determinazione formale della complessità linguistica? Da questa prospettiva il termine indeterminatezza sembra voler annullare la domanda sulla selezione generale del significato: ciò che è determinato non ha a che fare con la formazione ma con il cristallizzato, ereditato da forme che hanno mutato valore e da piccoli segmenti di senso che muovono altre forme. Per Saussure dare una distanza da un segno all’altro devierebbe l’idea stessa di lingua, di segmento funzionale al linguaggio. Non c’è nessuna forma più rilevante di un’altra forma, non c’è segno più importante di un altro nella catena della significazione. Purtroppo però questo non sempre è valido nella storia delle lingue, quando il potere della lettera, per così dire, prende il sopravvento. La stessa scrittura è, per Saussure, pericolosa, per la sua forza ordinatrice. Cosa è da ordinare nella lingua che non sia già, in qualche modo, stato adottato dalla forma linguistica stessa?


2.2. Funzionalismo e categorie come strutture emozionali

Nelle lingue gestuali è evidente il rapporto tra forma e senso nei termini di categorie stabili. Dire categorie è diverso dal dire tempi verbali, o modi, o tutto ciò che ha a che fare con la grammatica e la sintassi. Il tipo di algebra del segno linguistico è in relazione con le coordinate spazio-temporali delle lingue prima ancora delle formazioni in gerarchie d’analisi testuale. Ed è proprio su queste categorie che la relazione tra il particolare e il generale ha una esplicitazione attraverso la lingua. Pensiamo a cosa contraddistingue una poesia da un fraseggiare comune, tra due persone, nella lavorazione che esse danno alla letteralità. Non si tratta di fare a meno di una logica ma, al contrario, di formare attraverso pezzi della stessa stoffa, nella metafora saussuriana, altri vestiti, nuovi, che hanno fattezza simile tra di essi ma mai identica. Se chiariamo in che senso questo avviene riusciamo a capire meglio che non ha senso parlare di identità linguistica, perché, da un lato, è come qualcosa di già dato, e, dall’altro, per il fatto che nel flusso del linguaggio niente rimane uguale: ci sono somiglianze ma non equivalenze, a meno che non ci muoviamo nei mari di altri linguaggi, come quelli della matematica algebrica, per esempio. Attraverso la costituzione di una diagrammaticità che percorre i segni senza forare le ruote della significazione, senza fermare l’auriga linguistica, si realizza il percorso lineare del senso. In effetti, la sensazione linguistica non ha bisogno di una gerarchia: consolidata nell’apparizione delle espressioni, essa non si radica in una logica specifica. Una postura non ha una sensibilità linguistica, malgrado sia un comportamento complesso; non è la complessità che dà la sensazione e l’emozionalità linguistica. In effetti, la funzione emotiva sembra ricoprire ciascun enunciato, anche se dobbiamo ammettere che in una formula matematica, ad esempio, è impossibile ritrovare una emozione linguistica. Al contrario, nelle forme di discorso elaborato avviene una sorta di sutura con la pura logica della sintassi, si apre al gioco anche la verità stessa e diventa logicamente accettabile anche il più lontano giocatore: diventa una funzione del senso o del gioco linguistico.

3. Reversibilità o irreversibilità?

Se si cerca di circoscrivere i luoghi della significazione attraverso i diagrammi, come nel caso dei grafi esistenziali peirceani, o anche nelle semplici legende di una mappa geografica, si potrebbe dimenticare il fatto che una indicizzazione non è una lingua, né della lingua mostra le proprietà. Guardiamo invece dove si mostra la specificità della narrazione, nei luoghi circoscritti dalle visioni dei poeti, in cui spesso si simbolizza qualcosa, spesso le donne dei poeti o le terre da loro auspicate allegoricamente come sogni irraggiungibili. Come Saussure difende sono irrisorie, rispetto alla comprensione in atto, le differenze tra senso proprio e senso figurato, in virtù della fondamentale negatività della lingua. “Non c’è differenza tra il senso proprio e il senso figurato delle parole (oppure: le parole non hanno senso figurato più di quanto abbiano senso proprio) perché il loro senso è eminentemente negativo” (Saussure, 2005, p. 80). È sorprendente come le parole, se portate alla luce come oggetti, diventano immagine di altro tipo, anche non verbale, e lo diventano nello stesso senso in cui in un dipinto dei macchiaioli vediamo paesaggi, oggetti materiali e lo vediamo non come esperienza privata, ma condivisa. Anche le parole sono gesti del pensiero, lo sono come espressività divergente. Quello che comunemente si chiama senso figurato è allora un altro senso che tuttavia non è, in qualche modo, paragonabile ad una “normalità” della stessa parola che ha un valore determinato soltanto nel contesto d’uso. Ma è anche vero che non tutto è poesia. Come pensare, in realtà, che la limitazione che in alcuni contesti viene data al significato sia consolidata nell’uso del senso comune? Il cambiamento introdotto dalla scrittura poetica influenza anche il modo di usare le stesse parole nella prassi quotidiana: fino a che punto è un’immagine di qualcos’altro, di altre categorie mentali?


3.1. Per una destrutturabilità progressiva

Wittgenstein suggerisce la somiglianza delle parole alle immagini come forme o rappresentazioni. Si mette in campo una questione più volte affrontata di recente nelle scienze cognitive e nelle filosofie del linguaggio moderne. “Il concetto di “immagine interna” è ingannevole, perché a modello di questo concetto si prende “l’immagine esterna”; e tuttavia gli impieghi delle parole che denotano questi concetti non sono tra loro più simili di quanto non lo siano quelli di «segno numerico» e di «numero»” (Wittgenstein, 1953, p. 259). Tuttavia Wittgenstein non sembra avere dubbi sull’esteriorità, o meglio sull’aspetto pubblico del senso: è come se ci volesse dire di non complicare ulteriormente il mondo delle parole, di non farne feticci assurdi, come nel caso del “segno numerico ideale”. Il segno “2” non è che un numero, e la parola numero ha già la sua complessità. Non c’è un esterno da contrapporre a un interno, nessun “2” è al di fuori di qualcosa o all’interno di qualcos’altro, così come nella poesia nessuna immagine-oggetto è nella testa di chi legge, ma non è neanche al di fuori della portata esistenziale del discorso poetico. La sua esistenza è indubitabile, è l’identità iniziale che per Saussure è la prima cosa semplice che ci viene data di fronte agli occhi. L’idea di una decostruzione delle forme linguistiche che lo strutturalismo ha cercato di sostenere non è uno “scavare a fondo” per trovare in un luogo prestabilito un suo tesoro, le verità sulla lingua o sul significato di una parola della lingua. Proprio perché non c’è alcun pozzo dei desideri alla base dell’arcobaleno del linguaggio, l’esistenza semiologica non ha molto a che vedere con la verità in sé, ma è mezzo e modo di approdo ad essa. Questo sarebbe possibile se mai avessimo quell’occhio mentale utile ad arrivare ad uno sfondo condiviso di forme linguistiche accettate da ogni soggetto parlante in uno stesso percorso linguistico. Se partiamo dalla premessa che il gioco linguistico ha una sua verità, possiamo pensare di condividere un luogo di sensi che circoscrive quella città invisibile che fa parte del nostro sogno semiotico, il “dove” che si trasforma nel “come”: si costituiscono in breve i modi semiologici e semantici.


3.2. Molteplicità delle figure linguistiche: dimenticare i sensi

In alcuni luoghi comuni delle forme linguistiche troviamo esperienze di “dimenticanza” o di smarrimento che l’espressione linguistica accompagna. Penso alle situazioni di imbarazzo che vengono chiamate di “asocialità”, per un uso assoluto di emblematicità del senso comune. In altre parole è come se la figura dello smarrimento portasse non forme nuove o giochi di segni da riformulare e riadattare al contesto d’uso, ma come se la parola pronunciata fosse deformata o, come spesso si dice, appartenente a un’altra lingua. È proprio di questo che si tratta. Quando si dicono espressioni come “ma che lingua parli?” o, come ho avuto modo di sentire di frequente, “parli arabo?” si fa riferimento a una figura del significato che non è rintracciabile al di fuori di una tradizione ben determinata e basata su principi a priori che possono essere considerati ormai superati, alinguistici. È come pensare a due generazioni di lingue che si differenziano o pretendano di differenziarsi sulla base di etichette contenute in classificazioni ristagnanti senza alcuna reciprocità. Si tratta appunto di un’immagine interna che ci si illude di non poter comunicare, come se non si trattasse di parole ma di oggetti ognuno comprendente una funzione che è straniera all’altro. Il punto è che non ci sono funzioni che una parola qualsiasi, potenzialmente, non può svolgere. Il tutto si risolve nel capire perché essa non diventa condivisibile per il parlante, per quale motivo non è sentita come comunicabile. Non si tratta di alcun problema patologico, ma di una sorta di coscienza linguistica personale che non “ha la volontà” di voler cambiare l’ordine dei suoi calcoli e le progettualità che fanno di una figura un vero e proprio abito, nei termini peirceani. Si pensi a quale idea ha questo particolare parlante del mondo: egli pensa che la sua lingua sia intraducibile, pensa di poter essere solo. La sua illusione è lecita, perché il suo linguaggio ha molte più ancore di quelle che egli stesso è capace di manovrare, di gestire. Il primo uomo pensava probabilmente di dover trovare qualcosa di diverso da sé e non a qualcosa o qualcuno che fosse esattamente come lui. Ma s’illudeva: come il suo riflesso nello stagno era facilmente cancellabile dalle onde lo era anche quello delle altre cose materiali e delle altre facce. Il segno-uomo è modificato inevitabilmente, e la sua volontà non ha a che vedere con la sua coscienza o, come si spesso detto, con la sua autocoscienza. Non è chiaro in alcun caso cosa significa aver consapevolezza di un fatto che riguarda se stessi: ciò che accade a un uomo è qualcosa che l’uomo vive, e che in qualche modo può soltanto subire. Tutto ciò che pensiamo di racchiudere nella parola fatti, con un verismo spropositato, in realtà non ha a che fare con la vita umana, ma con altre forme di percezione semiotica che, come già Darwin affermò, sono comuni a molte forme di vita animale, non soltanto dell’uomo. Una conchiglia trovata per terra e risalente a migliaia di anni or sono non ha altro che una sua identità, che l’individuo può intimamante sentire parte della sua stessa storia, giacché è lui stesso a vederne la forma, i contorni e a riconoscerne anche la provenienza e l’età. Avere coscienza di quanto ho appena descritto non cambia nulla: l’uomo che trova la conchiglia vive qualcosa, un impatto silenzioso con il mondo. Non gli serve qualcosa che lo provi o lo misuri rispetto a qualche altro avvenimento. In questo si snoda il fatto che non c’è alcuna superiorità dell’uomo sulle altre specie viventi. Qualunque siano le abilità non ci possono essere forze speciali che irrompono nella quotidianità per mettere sull’attenti la vita esperienziale. “Qui con “intenzione” intendo ciò che impiega il segno nel pensiero. L’intenzione sembra interpretare, sembra dare l’interpretazione definitiva; non però un segno o un’immagine ulteriori, ma qualcos’altro: qualcosa che non si può interpretare ulteriormente. Ma si raggiunge un termine psicologico, non un termine logico” (Wittgenstein, 1967, p. 51). É come pensare, in condizioni normali, di poter prevedere la propria morte. Si può pensare di stare così male da perdere completamente l’uso dei propri pensieri, una morte psicologica, diremmo, o avere un grave incidente o, viceversa, possiamo morire pensando di essere vivi. In mano abbiamo soltanto costanti emotive, modi già visti di presentarsi della realtà. È una forma di intuitività che comporta l’affermarsi di legami del passato e relaziona al prelogico, all’istinto del presente.


4. Presente e costanti emotive

Se pensiamo che è possibile raccogliere ogni esperienza in descrizioni linguistiche dobbiamo chiederci come il ricordo o l’immagine di esse si presenta in relazione alla sintatticità emotiva che ciascun soggetto parlante manipola. Accettando l’idea che non c’è niente che non sia già stato presente alla coscienza, che non c’è mai un nuovo pensiero, nel senso più totale (penso a quanti scienziati hanno avuto idee rivoluzionarie il merito delle quali è stato attribuito ad altri, successivamente premiati per la loro impetuosità: nella storia delle scienze matematiche ci sono molti episodi di questo tipo e di tale portata). O i casi di uso implicito di principi che il parlante non ha bisogno di rinvigorire attraverso la forma esplicita, ma che sono spesso oscuri all’interlocutore, cause dei numerosi fraintendimenti che caratterizzano la verbalità dialogica dell’emozione umana. Ciò che appare come privo di elasticità, o duttilità, come un sentimento non esperibile, perché legato per esempio a un ricordo di un fatto già accaduto, o legato a una persona immaginaria, si lega a effettività, a cause, che nella terminologia peirceana sono interpretanti emozionali, laddove il desiderio si attua in significati propri, specifici. “The first proper significate effect of a sign is a feeling produced by it. There is almost always a feeling which we come to interpret as evidence that we comprehend the proper effect of the sign, although the foundation of truth in this is frequently very slight. This "emotional interpretant," as I call it, may amount to much more than that feeling of recognition; and in some cases, it is the only proper significate effect that the sign produces. Thus, the performance of a piece of concerted music is a sign” (C.S. Peirce: CP 5.475). Qui Peirce parla di un interpretante emozionale che è il primo effetto proprio di un segno specifico, facilmente riconoscibile nelle sue verità o, potremmo dire, in quello che dice, che mette in evidenza. A volte un segno è soltanto questo, un interpretante emozionale, come nel caso di una colonna sonora. Può ammontare a qualcosa in più del sentimento di riconoscimento, può avere un senso (meaning) più forte della familiarità, della percezione con la quale ci muoviamo nel mondo, per il fatto che siamo già nel processo di semiosi. Si tratta allora di pensare ad una semiosi che sia il risultato di interpretanti che hanno agito al di là dell’introspezione, che hanno già dissociato e quindi anche associato le parti psicologiche, che sono divenuti logici. Potremmo concludere che rafforziamo l’idea del presente nella traduzione di uno stato emotivo in uno antipsicologico, non più interno alla privatezza del proprio sentire, ma con una proiezione di questo sulla soggettività estesa delle semiosi in cui ci si trova a operare. Quando si supera la fase di rispecchiamento del bambino nell’adulto, per esempio, attraverso il riconoscimento degli stessi movimenti e in forme più complesse degli stessi atteggiamenti, avviene lo spostamento dalla soggettività alla semioticità, seguendo Peirce, attraverso la significazione primaria dell’interpretante emozionale. È il presente del significato. Tra potenzialità e atto pragmatico, ossia diagrammaticamente programmabile) c’è una zona intermedia, ed è il presente logico, ma anche psicologico, malgrado Peirce tende a differenziare i due anche sul piano ontologico, esistenziale.


4.1. Abduzione: la finitezza del pensiero e il sogno

Come la psicoanalisi ha sottolineato, il sogno può dare un forte significato alle gravi psicosi. Esso però prima ancora dello scolio della malattia può dare senso alla capacità universale dell’infinitezza del pensiero, e in cosa è possibile trovare il carattere d’infinitezza. “Il pensiero può, per dir così, volare; di camminare non ha bisogno. Tu non comprendi, cioè, tu non hai una visione complessiva delle tue transazioni, e per così dire proietti la tua incomprensione nell’idea di un mezzo in cui sono possibili le cose più sorprendenti” (Wittgenstein, 1967, p. 61). Si può determinare e riconoscere una qualsiasi nuova forma di pensiero: essa è una transazione, una verità nascosta ma già conservata nella caverna del pensiero. Come nel caso dei sogni, quando ad essere rinnovate sono idee e progetti attraverso una apertura all’inconscio. Se ci pensiamo bene l’inconscio è un insieme criptato di pensieri, che ci sono, vivono già nel dinamismo preannunciato dalle immagini mentali. Il punto da affrontare sarebbe quello della stanziazione dell’infinito. La domanda “dov’è l’infinito?” resta tale, suggerisce Wittgenstein. Esso è quello che cerchiamo, che evidenziamo in ogni minuto della nostra esistenza. Al contrario, però, di ciò che sostiene Wittgenstein, ovvero che il calcolo è infinito, sarebbe da riconoscere che è infinito proprio ciò che non è possibile calcolare[2]. Come incalcolabile è un sogno. Esso è tale proprio in virtù del fatto che è un’immagine non circoscritta, non delimitata. È un pensiero, un’idea inconscia: è la realtà del sogno che nella sua vaghezza ci rende partecipi della finitezza incalcolabile della veglia. Il gesto del ricordare un sogno è una riabilitazione all’immagine, una ricerca della finitezza intangibile di altre forme di pensiero, tra le quali quello matematico è il meno vago, certamente. Al di là dei casi eccezionali, come Einstein sognatore delle dimostrazioni matematiche, ma di cui pare non ci sia più alcuna traccia nei grandi scienziati viventi, è improbabile che qualcuno abbia la capacità di sognare la ri-soluzione di una seria dimostrazione algebrica. In breve, come riporta Wittgenstein, il finito racchiude l’infinito, se è l’infinito del pensiero[3]. Entrano in campo almeno due questioni. La prima è quella che riguarda l’astrazione come un processo, quindi riconoscibile o, come direbbero i cognitivisti, modulare, divisibile in parti, nella querelle insoluta dell’idea di unità di spazi e tempi finiti e continui. La seconda è: il non detto dell’inconscio, è calcolabile? Ha lo stesso tipo di progettualità dei ragionamenti vivi, condivisibili verbalmente? Di fatto, non si ha a che fare con estremità di una parete, per esempio, ma con relazioni semiotiche o semplicemente con semiotiche misurabili in qualche modo attraverso strategie che sono in grado di formare significati.


4.2. La rete linguistica della dimostratività

A questo punto insorge chiaramente la domanda sul confine che separa la logica in sé, con il suo infinito, dalla logica della psiche: esiste realmente questa differenza? Wittgenstein sembra suggerire di avversare la scissione tra la due scienze, tranne nel caso in cui si dà alla parola “psicologia” una riformulazione in chiave strettamente introspezionista – di stati di cose individuali e inattingibili, ma questo ormai è più che negato dalle ricerche moderne e contemporanee. Negli Zettel Wittgenstein pone in rilievo questo paradosso che intrattiene i diversi modi di intendere l’intenzione, quella che il filosofo vuole separare totalmente dall’idea di processo: “Se voglio descrivere il processo dell’intenzione sento, innanzi tutto, che ciò che essa deve fare può farlo se, prima di tutto, contiene un’immagine estremamente fedele di ciò che essa intende. […] Quasi quasi si potrebbe dire: «L’intenzione va, mentre ogni processo sta fermo»” (Wittgenstein, 1967, p. 53). Il muoversi delle realtà fenomeniche come sillogismi definiti dalle forme storiche presenta nelle forme intentive alcune peculiarità che autori come Wittgenstein ricordano sprovviste di una volontà esterna all’atto in sé. Come pensare che ciascuna nostra azione è effettivamente intrisa di infiniti modelli ai quali restituire le vestigia prima di mostrarne gli errori. Nella operazionabilità del senso comune il fatto che ci sono immagini talmente radicate nella logica usuale da agire come veicoli porta alla ripetizione di schemi nei quali non c’è alcuna aspirazione, alcuna aspettativa. Essi si mostrano in sé e per sé, denudando in presente e rendendolo progressivo, inusuale nella scioltezza finita delle singole azioni. È l’idea peirceana di diagramma che diventa una sorta di metro per la definizione di logica della scrittura, un po’ come nell’idea complessa di grafematicità.


5. Conclusioni

Se ci fosse davvero un criterio di insensatezza - come Wittgenstein propone - tale da restituire all’immaginazione il suo primo compito di autodeterminazione potremmo dividere la concezione del modo di realizzazione dei sensi dalle esperienze che abbiamo di essi come istintivi o prelogici fino a dissodare il terreno del linguaggio oggetto, di ciò che manipoliamo con fiducia. Non è un uso di esperienze che dalla eversività porta all’autoregolazione: è insensato dire “tutto serve a qualcosa”, il tutto non è comprensibile, in primis, e inoltre non c’è soltanto l’esperire, ma purtroppo anche il subire. Il controllo delle emozionalità non dovrebbe dunque avere a che fare con l’esperienza, la dovrebbe al contrario allontanare e farne una negatività, una negazione alla realtà: attribuirne il senso di pura rammemorazione, indicando ad ogni fatto la strada che porta all’uscita dalle costanti emotive che possono attribuirsi ai significati. Parlare di tradizione può significare parlare di forme linguistiche sorrette non soltanto da sintassi grammaticali ma anche da sintassi emozionali. È il senso del diagramma peirceano e dell’interpretante emozionale come primo indice della formazione di ipotesi sul mondo e non di semplice percezione degli universali. In ciascun atto emotivo che si riferisce al simbolo di un personaggio, per esempio, c’è una costante emotiva della linguisticità, non una semplice posizione istintiva, ma una connettività che si manifesta nelle forme generali di apprendimento. Infine, l’individualità dell’atto fonatorio contrasta la collettività della parole per il fatto che è nel primo che il linguaggio è un simbolo proprio, strettamente legato al singolo soggetto parlante. Se è vero che l’immaginazione non è un senso debilitato ma, al contrario, il fulcro della scoperta scientifica e, in certa misura, nelle esperienze quotidiane di adattamento, il discorso verbale che fa delle emozioni regole può diventare segno puro ossia unico, distinguibile dagli altri.
























Bibliografia

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[1] Lo Piparo ne parla nel senso di terza dimensione della lingua per accertare la pluridimensionalità del linguaggio (cfr. Lo Piparo, 2003, pp. 98-102).
[2] È da riconoscere la preminenza di una posizione matematica della questione. Essa si è presentata come il problema del continuo, fin dalla posizione aristotelica della Physica (cfr. Sergio, 2006, pp. 229-242).
[3] Wittgenstein riporta: “Hardy: «That “the finite cannot understand the infinite” should surely be a theological and not a mathematical war-cry» (Wittgenstein, 1967, p. 61). Sentire le regole delle normatività che vivono nei generi linguistici non ha a che fare che con logiche sequenziali che il senso comune condivide con ciascuna scienza (e sarebbe maggiormente corretto il contrario).

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