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mercoledì 14 maggio 2014

Scritture e Lingue dei Segni


Scritture e Lingue dei Segni


  1. Introduzione

La corrispondenza tra le forme codificabili e quelle altre non ancora rese tali dalla sistematicità del linguaggio è evidente nella relazione tra le scritture e le lingue dei segni. Il quesito del luogo comune presente tra i diversi sistemi è quello del riconoscimento di un nucleo al quale riferirsi per la realtà delle forme linguistiche. Poiché è nel gioco dei segni che la prassi è determinante, il passaggio dall’immotivato all’arbitrario diventa gioco linguistico se ancorato alla ricognizione di questo. Pensiamo, a questo proposito, a cosa si intende per lingua naturale e a cosa, invece, per lingua artificiale. Nel primo caso esiste una conformità tra mondo e parole, anche se questo non è un modo diretto e semplice di correlazione; nel secondo, invece, c’è un elemento esterno al sistema in gioco che interviene come una sorta di interferenza a disturbare la realtà segnica. Per vedere più da vicino quest’ultimo aspetto pensiamo alla standardizzazione come modo di omologazione delle variabili linguistiche: il carattere forte delle forme logiche passa attraverso la trascrizione dei rapporti spazio-temporali che vivono nelle lingue impiegate dai soggetti parlanti. Si tratta di considerare il peculiare rapporto che un mezzo esterno alla forma linguistica naturale ha nella più generale realtà logica di appartenenza: dal punto di vista del gioco dei segni non è rilevante il punto di arrivo inteso come forma cristallizzata ma è piuttosto la tendenza ad esso, fino ad assumere caratteri formali. Questi caratteri di per sé non hanno alcuna definizione. Essi sono infatti determinabili ma non determinati, proprio perché vivono nella realtà pratica dei giochi linguistici. Nelle forme di scrittura che vediamo oggi ci sono nette separazioni, in molti casi, tra il modo di produzione delle testimonianze linguistiche che assumono caratteri letterari e le forme in uso. Anche nelle lingue dei segni troviamo questa complessità; non è definibile, infatti, una lingua madre dalla quale discendono le altre lingue “minori”. Non c’è alcuna gerarchia che rimandi ad una conformità iniziale, originale, alla quale aggiungere o sommare la lingua ufficiale: quello che si pensa come standard non è la vera corrispondenza tra i segni scritti nei dizionari e le grammatiche utilizzate effettivamente. Da un lato, nelle lingue dei segni i diversi tratti morfofonologici ovvero più strettamente grammaticali hanno caratteristiche afferenti a diversi livelli del discorso: anche qui la materia dell’espressione non è unica, poiché intervengono tratti sovrasegmentali specifici che hanno a che fare anche con la fisiognomica, la gestualità naturale, i caratteri simbolici complessi non soltanto linguistici. Dall’altro, la nozione di scrittura, considerata come lingua, permette di affacciarsi alla questione della corrispondenza tra pratiche linguistiche e realtà epilinguistica e metalinguistica. Si pone tra i due livelli di discorso il problema del come avvicinarsi alla rielaborazione formale senza perdere i caratteri naturali che danno alla lingua il valore di cui si nutre nelle realtà sociali. È in un certo senso ricollocare tra le forme linguistiche visivo-gestuali e quelle vocali e scritte la questione dell passaggio da segni iconici e ipoiconici a quelli simbolici e arbitrari. Ma qui vorrei riallacciarmi alla definizione di scrittura e di lingue che si realizza nell’analisi delle forme naturali e nella distanza che da queste, in gradualità differenti, si costituisce un’arbitrarietà non più sensibile all’incompiutezza della memoria linguistica, laddove il senso comune viene abbandonato per un grado di analogicità in eccesso, quello delle lingue standardizzate. Esse si nascondono nei livelli di espressione impliciti ed espliciti, nelle lingue vocali come nelle lingue de segni dalle quali la scrittura emerge come oblio differenziale. In questo modo di guardare alla scrittura i rapporti specifici di essa con le lingue si manifestano nelle forme di poesia delle lingue segnate. Già Diderot evidenzia come l’energia del linguaggio non è riducibile all’espressione della lingua, riferendosi alle lingue vocali: è l’energia del gesto a manifesta, invece, il sublime[1]. Esattamente al contrario dei registri artificiosi e standardizzati, il linguaggio poetico asserve la scrittura facendone emergere le forme libere, come quella del processo abduttivo che si esprime nelle forma analogiche e nelle assonanze, ma che vediamo presentarsi anche nel meccanismo che regola le anafore ed in parte le metafore e le metonimie. Ciò che regge il movimento della differenzialità sistemica e della variabilità non è dunque una convenzionalità pura e semplice, come quella dell’accordo tra due individui che per ellissi sono sempre al di là della sistematicità produttiva, se considerati come la rappresentazione di uno stato linguistico. Poiché ogni sistema presenta una autodeterminazione mai definitiva ma sempre mutevole nel dominio linguistico, la realtà che si sottopone alla trasmissione delle forme specificatamente letterarie, come quella poetica, è naturale. La funzione dello scritto non riduce tuttavia la questione della distanza tra la forma scritta e quella visivo-gestuale. Nell’analisi di una poesia in Lingua dei Segni Italiana Russo evidenzia come si manifesta nella poesia segnata quella capacità metalinguistica riflessiva[2] tipica della coscienza linguistica. È da questo primo punto che emerge la necessità di una divisione specifica tra la scrittura in senso tecnico e la trascrizione attraverso il sistema Sign Writing (SW)[3] delle lingue dei segni. Il rapporto tra la metalinguisticità manifesta nelle lingue verbali il riconoscimento della possibilità di rielaborazione testuale. In effetti, nella lingua dei segni c’è un rapporto iconico forte tra la rappresentazione visiva e il documento scritto: la dimensione iconica è naturale, perché configurata rispetto alla reale forma di cui i segni sono portatori. Se pensiamo al legame tra la scrittura e la gestualità possiamo vedere meglio il rapporto tra la forma visivo-gestuale e realtà morfofonologica, tra la realtà formale perché relazionalità emergente nei rapporti sociali e ciò che perdura come documento storico al di là della cognizione del presente.








1. La nascita delle scritture nella Lingua dei Segni


  1. Lingue dei segni, LIS e scrittura

Vico evidenzia[4] che esiste una stretta relazione tra le “lingue mutole” e i caratteri ideografici scritti. Esiste, in effetti, una simmetria tra i due piani dell’espressione in gioco ossia quella gestuale-visiva delle lingue dei segni e quella spazio-visiva delle lingue scritte. Cosa intediamo per complementarità tra due lingue lo spiega bene Prieto e credo possa valere anche per il tipo di complementarità tra la LIS (Lingua Italiana dei Segni) e le lingue italiane, scritta e vocale. In tal senso possiamo ricercare i nessi tra i caratteri rilevanti che definiscono i tratti specifici di ciascuna lingua. Come Russo ha rilevato insieme al suo gruppo di ricerca ci sono diverse tipologie di approccio ai caratteri relativi alle proprietà sintagmatiche e paradigmatiche decisive per la corrispondenza dei segni gestuali con i segni delle lingue vocali. Quello che si evince è, tuttavia, un’insufficienza spesso presente del rapporto tra linguisticità orale (dei segnanti in LIS come nelle lingue vocali) e linguisticità scritta. In effetti, data la sostanzialità relazionale tra i tipi di segni in gioco la temporalità relativa a ciascun tipo di sistema linguistico ridetermina la portata significativa[5] che si posiziona tra i simboli propri di ciascuna lingua. Possiamo così riaccostarci all’analisi in strutture che dalla lingua scritta si riaggancia alla sintesi del sistema vocale. Prendendo in considerazione i lavori di Kendon notiamo come sia possibile diagrammatizzare in simboli diacritici le gestualità spontanee che accompagnano i modi di realizzazione vocale delle lingue e che vanno dalla prossemica alle sequenzialità simultanee della lingua verbale. Esiste, dunque, un codice morfosintattico visivo che associa tra di loro il tipo di disegni utilizzati nei dizionari per la diffusione della LIS e delle lingue dei segni sviluppate nel mondo fino ad oggi. C’è una tradizione determinata poiché già riconosciuta dagli studi socioantropologici[6], per esempio, sui modelli sviluppati nei monasteri di diversi ordini religiosi; ci sono, in effetti, diversi modi di esprimere in segni visivo-gestuali lo stesso senso o lo stesso oggetto d’uso comune. La verbalità delle lingue dei segni è tale poiché queste presentano i caratteri di prima e seconda articolazione, ed i cheremi come unità specifiche di tali lingue sostengono tra di essi una relazione linguistica complessa.

  1. Giochi e Segni Simbolici: la naturalità della scrittura

Poiché per analizzare un gesto bisogna scandire in unità quella che potremmo chiamare la cadenza che la totalità del gesto verbale rappresenta nella sua complessità nel ritmo specifico che si costituisce come forma, si installa la necessità di una separazione tra struttura e processo formativo che possiamo ritrovare sia nella Lingua Italiana dei Segni che in ogni altro sistema linguistico, anche se in gradi o gradualità differenti in ciascun idioma. Si tratta, in effetti, di un modello semiotico generale che astrae dalla forma linguistica la necessaria reciprocità del gioco tra segni e tra tipi di segni diversi nell’esplicitazione dell’iconicità arbitraria della significazione.[7] È in tal senso necessario riconsiderare alcune nozioni di base come quella di contesto, in relazione di inclusione ma anche antinomica, per certi aspetti, con quella di cotesto che sembra escludere la relazionalità semiotica generale delle regolarità non-linguistiche. Se è possibile far corrispondere le unità di ciascuna lingua, almeno fino a un certo punto è anche possibile distinguere ciò che è mero strumento di veicolarizzazione delle forme significative da ciò che invece appartiene al senso comune proprio della lingua in questione. Pensiamo alla definizione di senso proprio che Saussure rifiuta[8] e a come può essere tradotta all’interno delle lingue segnate per mezzo della relazionalità afonica con la forma visivo- gestuale. C’è una classificazione che permette già di vedere negli schemi corporei l’effettiva modificazione tra i paramentri di analisi e la reale iconicità linguistica che nelle lingue dei segni è esplicita anche perché fortemente legata ai contesti. Ne troviamo un esempio nelle forme onomatopeiche come il segno “telefono” in LIS, in cui il gesto rappresenta esattamente il mezzo “telefono” che è anche l’oggetto del discorso e che è identico nel gesto naturale dei bambini piccoli non udenti e udenti, fino al punto in cui nei secondi interviene l’articolazione vocale e abbandonata in parte quella gestuale. Nel Corso di Linguistica Generale Saussure evidenzia che ci può essere una identità linguistica, in virtù del fatto che ciò che è psicologico nella lingua è sociale[9], poiché radicato non tanto al carattere fonico della lingua ma a quella dualità incessante che muove il dominio del linguaggio. I segni della lingua devono avere non soltanto costanti formative, come la materia di cui un segno è costituito, ma sottoporsi all’aspetto dell’arbitrarietà. Ciò significa che non c’è una sottomissione definitiva dell’oggetto al segno e viceversa, nel rapporto tra oggetto e segno: si tratta di una relazione complessa (ad esempio, la parola scritta cane è isomorfica alla parola vocale “cane” e alla parola segnata “cane”), e non relativa ad una mera entità materiale, quale quella della voce o dell’inchiostro, o, anche, delle parole visibili su uno schermo come quello che sto usando adesso. Il punto di vista dell’oggetto linguistico è la forma identitaria della forma stessa, che eccede la semplice entità per sottoporre la significazione alla variazione spazio-temporale della socialità effettiva. Ma ci chiediamo qui cosa accade quando quella speciale corrispondenza biunivoca perde la referenzialità che viene in qualche modo sostenuta dalle unità di ciascuna lingua ricadendo in un’altra forma che passa attraverso un’ulteriore traduzione simbolica. La trascrizione delle lingue segnate in forme sempre più complesse e distanti dalla naturale forma di scrittura che usiamo diventerebbe una forma di artificio estremo, di mera standardizzazione, tale da ridurre il rapporto indicale e iconico di cui l’arbitrarietà linguistica si nutre.








2. Dalla storia alla semiosi


  1. Il tempo storico e la semiosi

La possibilità di iscrizione della variabilità linguistica con il suo potenziale di oblio nella contingenza dei monumenti letterari non è tanto nella storia, ma è il principio della storicità in quanto tale. In questo senso, possiamo considerare la nozione di identità come principio pratico che si istalla nella pertinentizzazione della significazione. Per meglio dire, è necessario considerare la consapevolezza linguistica di cui Russo parla a proposito della poesia: Per consapevolezza linguistica intendiamo, in questo caso [che è quello del linguaggio poetico], la capacità di cogliere il rapporto tra la forma espressiva di un segno (o di una parola) e il suo significato e la capacità conseguente di costruire sequenze ritmiche, assonanze, parallelismi adatti a veicolare proprio quel contenuto.[10] Ad esempio, se ci poniamo dal punto di vista della sequenzialità temporale diacronica ci accorgiamo di quello che nei generi letterari si denomina personaggio: esso racchiude una serie di proprietà e di caratteri mutabili che diventano un abito fittizio di cui il documento letterario è portatore. Questo ci serve per dire che la coscienza letteraria ingloba quel particolare tipo di riflessività di cui Prosdocimi ci parla a proposito delle analisi saussuriane sulle Leggende Germaniche. Egli evidenzia come esiste una realtà relativa alla forma simbolica delle lingue e delle lingue letterarie tale da formare una dimensione ulteriore di significazione che può essere denominata arbitrarietà metastorica[11]. È questo tipo di relazione simbolica che qui vorrei considerare come esempio di rapporto della letteratura con la capacità comunicativa attraverso la quale si parla. In effetti, è nella simbolicità che si racchiude la possibilità di pertinentizzazione della realtà logico-formale rispetto ai segni in uso nei nostri giochi linguistici. Questa premessa ci libera dalla ricerca di una storia di per sé, che sarebbe sterile e vuota se assunta come semplice variabile della significazione. Anche se consideriamo l’esistenza di gradi di significatività, non possiamo prescindere dalla possibilità di rapportare ciascun luogo o insieme di valori ad un contesto d’uso comune. Cosa si intenda, tuttavia, per contesto sembra non essere tuttora chiaro. A mio parere, esso è legato all’idea di sistema, nel senso più ampio che in Peirce è riconducibile alla riduzioni in tassonomiche in categorie, realtà fenomeniche che permettono di ricondurre ciascuna azione comunicativa, ad ogni livello, alla presenza materiale della lingua. In tal senso, il linguaggio diventa origine immutabile e sempre rinnovabile (pensiamo al paragone di Saussure con il ruscello, di parmenidiana memoria) e riporta alla luce la frammentarietà del gesto storico in cui il significato resta in oblio, in dimenticanza in quanto tradizione, tale da essere sempre riportabile ad un altro punto della linearità delle lingue. Se si assume l’avvenimento come vero (esso manca del proprio contrario, dunque è non-negabile) si può descrivere la portata del fenomeno come costrittiva: è in un reale stato linguistico che avviene, attraverso la risonanza con lo spettro d’azioni comuni, il riconoscimento del complesso. In che senso, allora, parlare di relazionalità tra mente e mondo esperibile? La possibilità della emergenza di forme nuove di tipo semiotico all’interno della logica del senso comune, per esempio, è un modo per avvicinare la funzionalità delle lingue considerate ciascuna strutturalmente speculare ad un'altra, come nel caso delle lingue complementari, nell’accezione di Prieto[12]. All’interno delle Lingue dei Segni, in base alle ricerche recenti, si ritrova una serie di caratteri sistematici che possono richiamare in campo le proprietà emergenti delle lingue orali e scritte, con particolare attenzione ai caratteri specifici di assorbimento iconico tra una lingua e un’altra che mi propongo di analizzare. Ad esempio, afferma Russo che nella dattilologia le singole configurazioni delle mani vengono utilizzate per riprodurre la sequenza di lettere di cui è composta una parola. In questo caso è possibile utlizzare le configurazioni per introdurre nella comunicazione parole che non hanno un equivalente esatto in segni o termini specifici del gergo tecnico. La dattilologia rappresenta, quindi, un modo per traslitterare in lingua dei segni elementi della lingua vocale scritta, ma non è un procedimento base della grammatica segnata, che è invece autonoma dalla lingua vocale e scritta.[13]
In questo senso la ricerca di una relazionalità determinata quale è quella di una definitorietà delle relazioni tra le variabili e le costanti presenti in un contesto linguistico diventa la problematica principale, alla quale si legano quelle di identità, di unità e di equivalenza nelle lingue, come già Harris[14] ha rilevato rispetto alla teorizzazione di stampo saussuriano.

  1. Segni e lingue vocali

Tutte quelle pratiche epi e metalinguistiche che di solito troviamo all’interno dei sistemi semiotici complessi delle lingue hanno una serie id implicazioni nell’organizzazione delle dimensioni della significazione. Come emerge dalle analisi delle lingue dei segni rispetto, ad esempio, alle lingue scritte, ci sono dei rapporti iconici particolari e specifici di ciascuna lingua e all’interno di micro-sistemi e delle unità significative. Il principio di storicità alla base dell’indagine tra la dialettica saussuriana di sincronia e diacronia rispetto alla possibilità di classificazione categoriale periceana ci permette di avvicinare la dimensione propriamente linguistica attraverso quelle che possiamo considerare gradazioni di significatività che vanno a delineare tipologie diverse di forme logiche. Assumendo la prospettiva del pragmatismo di Peirce, in particolare delle sue influenze in Italia[15], possiamo porci l’interrogativo sulla pecularità relazionale tra la continuità delle lingue letterarie e l’inesauribile operazionalità della significazione. I tratti determinanti specifici di ciascuna lingua permettono così di arginare le possibilità di una sorta di deficit che viene spesso attribuito alla realtà linguistica dei soggetti non udenti. Non soltanto, infatti, il soggetto parlante è in grado di elaborare elementari giochi linguistici legati già alle prime forme di relazionalità con i genitori, ma anche di sviluppare forme nuove e innovative attraverso l’uso contemporaneo di più sistemi. Prendiamo ad esempio i casi di bilinguismo, che possiamo ricondurre a proprietà specifiche della materialità linguistica, poiché si tratta di una duttilità della significazione che ha a che fare con la linearità del significante: l’ordine del discorso è quello della diagrammatizzazione formale che riveste ciascuna relazione logica.[16] Ci sono classificazioni che dal linguaggio muovono la semiosi e ne ritroviamo gli aspetti più evidenti nelle lingue storico naturali. Nella LIS, in particolare, ci sono 15 luoghi, 38 configurazioni, 6 orientamenti e 32 movimenti[17] che si appellano alle regole normative sottomesse a ciascuna relazionalità e a ciascun rapporto tra forma dell’espressione e contenuto. Non soltanto, infatti, dobbiamo ricordare che quelli che erano denominati sordi erano anche gli “stolti”, e quindi emarginati dalla partecipazione alle prassi sociali e ai diritti legislativi, ma essi erano anche privati della possibilità di esprimersi nelle stesse comunità attraverso i gesti, poiché tacciati di immoralità da parte della chiesa. Tuttavia, superata la divisione tra metodo oralista e manualista e con l’intervento dell’abate De l’Épée intorno al 1750 e l’istituzione del primo istituto per sordomuti, le possibilità di uno sviluppo sociale adeguato alle capacità delle persone sordomute sono aumentate notevolmente. Le diverse comunità che si sono venute a costituire sia all’interno che all’esterno dell’istituto hanno portato con sé la normatività propria della lingua segnata, permettendo una relazionalità equivalente, nel tempo, anche a quella di una lingua non segnata. I caretteri specifici, come i cheremi e i tipi di iconicità che caratterizzano le lingue dei segni sono stato convogliati nella LIS attraverso la quale si può oggi contare per uno sviluppo sociale adeguato e alternativo alla lingua italiana. I testi segnati permettono di rimettere in gioco i modi tradizionali di approccio alle lingue e alla funzionalità di esse. In particolare è stato evidenziato come esista una reale connessione tra aspetti individuali e realtà collettive; in particolare la struttura in relazione alla composizionalità simbolica è evidentemente una costante in tutte le lingue segnate. In effetti, il tipo di tradizione che emerge dagli studi sulla storia delle lingue dei segni mostrano che il grado di artificiosità o chiusura di ciascuna lingua è molto alto, anche negli stessi periodi storici e in luoghi molto vicini tra di essi. Anche all’interno di uno stesso istituto si creavano più idiomi, e gli studenti, come in una lingua naturale, avevano e hanno tuttora un proprio gergo, con i suoi idioletti e le sue forme specifiche, che con il passare del tempo destrutturano la lingua ufficiale, malgrado non sia ancora affermata, soprattutto in Italia, addirittura nelle stesse famiglie, accrescendo la complessità del problema come evidenzia Caselli: Ma qual è la lingua madre dei bambini sordi figli di genitori udenti? È quella che si realizza sul canale integro, ma che i genitori non conoscono – e dunque non usano – e che devono imparare insieme ai loro figli? O è quella della comunità di origine – la lingua parlata – che però richiede al bambino un lungo e faticoso processo di apprendimento?[18] In effetti, il criterio linguistico e socio-geografico è meno unitario nel caso dei sordi. Johnson e Erting[19] stabiliscono due criteri oggettivi per la differenziazione della comunità dei segnanti: il criterio di paternità, della vita biologica e le caratteristiche delle forme di vita costrette dalla sordità. Nel sistema da loro evidenziato il nucleo centrale è più denso ed è costituito dal fatto di essere figli di sordi e sordi fin dall’infanzia. Poi ci sono, nel secondo circolo “cellulare”, i sordi che segnano fin da piccoli ma non sono figli di sordi, al terzo gli udenti che segnano ed infine gli udenti che non segnano e i sordi che non segnano, che in realtà non si considerano del tutto appartenenti alla comunità sorda.



3. Artificiosità dei tentativi di trascrizione


  1. Universali linguistici e azioni pratiche

Le caratteristiche iconiche e ipoiconiche della LIS seguno alcune forme normative che nei diversi tipi di configurazioni rendono visibile l’ordine sintattico e grammaticale che nelle lingue dei segni è legato all’uso dei luoghi dello spazio fino ad instaurare un rapporto diretto tra luoghi ed oggetti nelle relazioni tra significati e significanti. La natura della lingua è dunque specificamente iconica, legata naturalmente all’ecologia ambientale. Ad esempio, si chiama morfologia affissativa la possibilità di certi movimenti di avere significato grammaticale, detto morfofonologico[20], poiché i luoghi dello spazio hanno le stesse caratteristiche dei morfemi con alcune determinazioni grammaticali. L’uso di anafore e di continui richiami testuali permette di costruire il rapporto tra l’oggetto, il soggetto e il luogo, quest’ultimo costruito prima dell’enunciazione e epifania di questa. Non ci sono quindi che rapporti sincronici che tengono insieme ciascuna forma di azione pratica, che in questo caso porta con sé la necessaria dimensione simultanea, insita nello sviluppo diacronico dell’azione in presenza. Nelle lingue dei segni ci sono sia registri fortemente iconici, come quelli poetici, che registri più standardizzati attraverso i termini specifici stabili. La forma stabile della significazione è una forma di artificiosità che provoca una chiusura associativa, poiché, come in molte lingue e per molti registri linguistici, l’analogia viene bloccata e inibita. È questo che accadde nelle forme di scrittura più elaborate ma che realizzano una significazione in cui non soltanto è diversa la materia dell’espressione, ma si modifica in larga parte la realtà di riferimento, perdendo le caratterittistiche specifiche della forma visivo-gestuale, come la spazialità e l’espressione facciale, sebbene i classificatori inseriscano in qualche modo il formato simultaneo dell’informazione. Tuttavia questo non è sufficiente anche a livello neurobiologico, in cui a decadere è il tipo di rapporto diretto tra la visione delle azioni e la capacità di riprodurle. Non è infatti scontanto che il comunicare di cose visive con segni visivi sia sullo stesso piano della classificazione restrittiva della semplice simbolizzazione di tipo convenzionale, come vediamo per esempio nell’uso di segni diacritici di alcune forme di trasposizione scritta. L’iconicità che si manifesta nelle immagini verbali dei segni visivo-spaziali è evidente nelle fotografie e nei disegni necessari alla riproduzione ed alla trasmissione delle lingue dei segni. La forma di iconismo presente nelle metafore ci permette di fare una distinzione tra le metafore vive e quelle morte: queste espressioni linguistiche sottolineano il collegamento tra due campi semantici che usualmente non sono legati. Mettono in evidenza, quindi, implicitamente, un aspetto dei due campi semantici che potrebbe sfuggire. Ci sono metafore che non ci accorgiamo di usare, come “ci aspettano giorni migliori”, che è una metafora cristallizzata, mentre altre sono morte, poiché talmente insite nelle parole da restare legate alla analisi in tratti semantici. Esse sono maggiormente legate al livello grammaticale. Mentre nelle lingue vocali sono affidate al piano della contestualizzazione diacronica, che si nutre di potenzialità forti, poiché ad essere messe in gioco sono proprietà formali fortemente stabili, nei gesti esse sono legate alla struttura del lessico, malgrado un legame metaforico si possa riscontrare in tutti i segni. Il legame metonimico svolge una funzione simile, poiché esso può essere considerato una forma specifica di metafora. In effetti, la metonimia si riferisce indirettamente ad un significato particolare per indicare e rimandare ad uno più generale, riferendosi ad una parte del segno in uso. Metafore e metonimie sono i due modi principali attraverso i quali nelle lingue dei segni si organizzano nuovi paradigmi lessicali. L’interazione tra metafore e ipoicone è uno dei luoghi significativi in cui avviene l’incontro tra iconicità e arbitrarietà ed è in questo senso che le metafore maggiormente caratteristiche dei segni sono metafore morte, poiché di uso comune, delle quali non ci accorgiamo dell’esistenza. Possiamo quindi affermare che le metafore morte fanno parte del lessico mentre le vive si riferiscono maggiormente alla sintassi e ai rapporti formali tra i segni. Un caso specifico è quello dell’apprendimento dei sordi della scrittura: le parole non possono essere analizzate dal bambino in movimenti articolatori e, dunque, gli si stampano globalmente nella mente come singole immagini: il bambino se le ricorda sotto forma di immagini mentali. Da qui la creazione di una comparazione non letterale basata sull’immagine della “parola che si stampa nella mente del segnante come fosse una fotografia”. La metafora innescata potrebbe essere descritta come “fare una fotografia mentale” oppure: memorizzare è fotografare con la mente, dal momento che il segno RICORDARE in LIS è eseguito nello stesso luogo (sulla testa).[21] In particolare, pensiamo alla poesia come luogo di convergenza delle forme significative diverse, vocali e scritte, con quella segnata. Il mutamento di registro non fa che ricoprire ancora due campi semantici, quello del fotografare mentalmente un luogo semiotico e quello del memorizzare. Questi due realia permettono di rendere viva la metafora iconica che rende realizzabile la comunicazione dei segnanti. Tuttavia non è chiara la distinzione tra la forma linguistica dell’azione visivo-gestuale e quella della realizzazione che occorre tra i segnanti una lingua dei segni. Fino a che punto, infatti, è possibile dare ai caratteri fisici della gestualità una corrispondenza con la rappresentazione scritta?

  1. La poesia segnata e il senso poetico

La premessa rilevante per una nomologia delle lingue scrivibili si basa sul fatto che le lingue dei segni sono al pari delle lingue non segnate lingue verbali: la relazione tra i cheremi è infatti di tipo linguistico. Kendon[22] evidenzia come ci sia un vero e proprio modello di trascrizione della gestualità che accompagna le lingue vocali. Tuttavia questo sistema è fortemente artificioso fino a perdere completamente i rapporti con la linguisticità manifesta nella presenza dei soggetti parlanti. Se è possibile ripensare i rapporti tra la forma linguistica della scrittura e la struttura delle lingue alla luce dei testi dei segnanti, la dimensione simbolica della trascrizione che passa attraverso la traduzione da una materialità ad un’altra, oltre che attraverso piani dell’espressione diversi, installa uno scarto tra processo formativo e forma. La teorizzazione più recente che riguarda la simbolicità manifesta delle forme si presenta alla luce della ricerca basata sulle analisi di posizioni diverse. In particolare, quando ci avviciniamo alla realtà della prassi comunicativa umana notiamo come ad essere introdotte sono norme e fatti linguistici, nei termini saussuriani, ma anche variabili non emergenti, come la storia dei cambiamenti e le interazioni tra di essi. La nozione di forma del messaggio o linguistica, da Saussure a Jakobson a De Mauro, prima, ma fino alle recenti applicazioni della pragmatica del linguaggio, come nel caso specifico delle lingue dei segni affrontato da Russo, permette di riaffrontare le questioni principali che riguardano i fondamenti della comunicazione. Se ci poniamo di fronte alla necessità di una interazione tra i registri differenti della parole, ad esempio, avremo un determinato modello di pensiero che dovremmo piegare alle regole che si insinuano laddove si porta a compimento un’altra forma di pensiero, attraverso forme simmetriche di simbolicità linguistica, fino a modelli artificiali dai quali neanche le lingue naturali sono esentate. Ma fino a che punto è lecito tradurre una forma naturale in una sequenza di regole puramente convenzionali? I tentativi degli studiosi contemporanei come Kendon ci avvicinano ad un modo di guardare alla memoria e all’impiego della scrittura in maniera meno semplicistica. La performance diventa un vero e proprio luogo indipendente dalla forma scritta, se intendiamo per scrittura e scrittura quel sistema semiologico di tipo linguistico in cui i segni grafici si piegano alla combinatorietà delle regole linguistiche basate sulla linearità del significante. Pensiamo a Peirce nel tentativo di realizzazione di forme linguistiche scritte circoscrivibili ad alterazioni della prassi quotidiana attraverso i grafi esistenziali: i nessi e le relazioni logiche che costituiscono un argomento, una o più proposizioni ed enunciati hanno una forma che realizza uno stato reale del discorso[23]. Probabilmente legati a fini simili lo sviluppo delle lingue dei segni è il frutto di una necessaria riattivazione dei giochi linguistici fini a se stessi nella comunità dei parlanti. Ma non è ancora statto chiarito se si tratti di una reale antinomia o di un rapporto complementare ed è a questo fine che propongo di considerare entrambi gli aspetti, quello empirico di manifestazione delle lingue segnate e quello teorico. L’applicazione teorica deve dunque tenere conto della rilevanza fattuale del fenomeno poetico vivente tra i segnanti.


Appendice

Propongo uno studio sperimentale che permetta di rilevare le performance specifiche delle poesie in Lingua Italiana dei Segni che si tengono periodicamente in Italia, attraverso il contatto con l’attività diretta dei poeti che segnano è un modo per avvicinare la realtà dei parlanti la LIS. Non è sufficiente, infatti, scorrere le pagine di un dizionario della lingua italiana dei segni per capire la natura del significato gestuale. Se la relazionalità tra scrittura e segno vivo è indiretta è allora necessario fare un passo indietro per guardare alle forme impiegate dai parlanti una lingua più o meno naturale. Il grado di artificiosità delle trascrizioni dovrà allora comprendere una codifica non puramente convenzionale, ma derivata dalla funzione che ha all’interno delle comunità e più o meno evidente a seconda dei nuclei do contatto con le comunità dei non sordomuti. Per non ricadere in semplici artifici della ragione puramente convenzionali è necessario uno sviluppo dell’interazione trai sistemi di segni che non si ancori soltanto alle forme antinomiche di confronta tra le diversità più evidenti, ma che si ancori alla posizione di ciascuna realtà vivente come modello di pensiero da prendere in considerazione.

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[1] Cfr. D. Diderot, 1751, pp. 8-12.
[2] T. Russo, 2007, pp. 103-116 (in T. Russo – V. Volterra : 2007), pp. 115-116.
[3] Cfr. A. Di Renzo, 2006, in A. Di Renzo, L. Lamano, T. Lucioli, B. Pennacchi, E. Pizzuto, L. Ponzo, P. Rossini, 2006.
[4] Cfr. G. Vico : 1744, L. II, sez. II, cap. 4, § 446, pp. 186-187.
[5] In senso tecnico (cfr. V. Welby : 1986).
[6] Cfr. J. U. Sebeok – T. A. Sebeok : 1987.
[7] Cfr. W. Sandler e D. Lillo-Martin, 2006, pp. 493-499.
[8] Cfr. F. de Saussure, 2005a, pp. 80-81.
[9] Cfr. F. de Saussure, 1916, pp. 13-23.
[10] T. Russo Cardona, 2007, p. 96.
[11] Cfr. A. Prosdocimi, 1983, p. 86.
[12] Cfr. L. Prieto : 1983.
[13] T. Russo, 2007, p. 141, n°2.1.
[14] Cfr. R. Harris : 2000a.
[15] Cfr. G. Papini : 1907.
[16] Saussure sostiene che una regola di sintassi e una regola morfologica «per un legame profondo e indistruttibile appartengono allo STESSO ORDINE DI FATTI, e cioè al gioco dei segni, per mezzo delle loro differenze in un momento dato» (F. de Saussure, 2005, p. 31).
[17] Cfr. V. Volterra : 1987 (ristampa 2004).
[18] M. C. Caselli, 2006, p. 204 (in M. C. Caselli – S. Maragna – L. Pagliari Rampelli – V. Volterra : 2006).
[19] Cfr. R. Johnson e C. Erting : 1992.
[20] Cfr. T. Russo, pp. 70-83.
[21] T. Russo, 2007, p. 90 (in T. Russo – V. Volterra : 2007).
[22] Cfr. Kendon : 2004, ma già Kendon : 2002.
[23] Cfr. C. S. Peirce, 2003 [1906], p. 140.

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