0. Introduzione........... 2
1. Metafora e logiche poetiche........... 49
1.1.0. Lingua poetica come lingua emozionale.. 54
1.1.1. Metaforicità tra psicologia e poesia.. 56
1.1.2. La tendenza simbolista e le forme poetiche.. 58
1.1.3. Metafora e tendenza alla phronesis.. 61
1.2. Relazioni
strutturate del linguaggio....... 62
1.2.0. La strutturabilità dei sensi e l’indeterminatezza.. 64
1.2.1. La struttura della logica poetica.. 66
1.2.2. Poesia e funzionalità delle lingue.. 68
1.2.3. Livelli di sistematicità tra struttura, schemi e
funzioni.. 70
1.3. L’autonomia e la
storicità della poesia....... 71
1.3.0. L’istintualità del linguaggio come imprinting della
logica poetica.. 74
1.3.1. Distanza e prospettive figurali nella logica della
poesia.. 75
1.3.2. Categorie e complessità dell’immagine verbale.. 77
1.3.3. Il corpo del linguaggio come figura.. 78
2. Poesia e verità storica........... 80
2.1.0. Veridicità e verisimiglianza del riferimento nella
lingua poetica.. 83
2.1.1. Immaginazione come forma di conoscenza.. 85
2.1.2. Modularità nelle logiche dell’azione poetica.. 87
2.1.3. Costanti e finalità della scrittura.. 89
2.2. Interpretazione e
stratificazione dei sensi....... 91
2.2.0. La sostanza come schematismo retorico.. 93
2.2.1. La funzione psicologica delle metafore.. 95
Bibliografia....... 98
0. Introduzione
Nella concezione aristotelica
la fruibilità del mondo e l’attività teorica sono collegate da una tendenza
costante verso il meglio. L’idea di una natura che permetta la concatenazione
di elementi come artefatti e strutture preesistenti alla conoscenza è legata al
concetto di essenza e avvicina alla finalità ultima delle attività umane che è
la felicità. I due tipi di conoscenza, ovvero la conoscenza per natura e la
conoscenza per convenzione nell’opera d’arte coagulano per arrivare a una
funzione formativa e educativa nella società.
A fondamento della
comprensione, sia dell’opera d’arte che della realtà, nella sua essenza, vi è
la mimesi. La mimesi è interna all’oggetto e alla struttura dell’uomo come
tendenza che dall’oggetto attraversa la relazione con le proprietà che lo
caratterizzano. Elemento essenziale della mimesi è per Aristotele il racconto:
la narratività che sottende la logica della poesia nella Poetica si realizza attraverso tre momenti: il nodo,
l’intreccio e lo scioglimento del nodo. Il livello narratologico è dato dalla
condensazione tra i nuclei temporali del racconto; l’ordine logico-metafisico è
realizzato dal fatto che l’uomo è un animale imitativo. La forte influenza
dell’impianto metafisico costituisce per Aristotele la possibilità di far
confluire ogni attività umana nella logica categoriale, chiave di lettura della
Poetica. La natura qualitativa
delle differenze e degli attributi dell’essere è tale da poter essere funzione
della generazione delle attuazioni nel mondo di ciascun elemento potenziale,
mosso dall’energia che è fonte e causa del movimento che dà vita. L’essenza è
rimessa in gioco anche nel campo conoscitivo. Essa è potenzialmente
attualizzabile nel tempo attraverso la socialità che è propria dell’uomo.
La Poetica mette in campo l’apparato metafisico e categoriale
che nelle opere come l’Organon e
il De Interpretatione sono mirate
alla delineazione delle variabili che caratterizzano le attività umane per
mezzo del linguaggio. Il pensiero è alla base dell’essere che non è al di fuori
del pensiero e ha lo stesso valore della natura nella creazione della realtà.
«L’essere
inteso nel senso di vero e non nel senso di accidente consiste in una
connessione del pensiero ed è una affezione di esso: per questo non si
ricercano i principi dell’essere inteso in questo senso, ma solo dell’essere
che è fuori dal pensiero e separato. […] Il fine esiste nelle cose che si
realizzano per natura o ad opera del pensiero[1].»
La differenza esistente tra ciò
che è accidentale e ciò che costituisce l’essenza va a influire sulla realtà
linguistica attraverso il nome. L’accidente è privo di causalità, oltre a
possedere la caratteristica dell’indeterminatezza: non influisce nella
definizione dell’essenza. Nella visione aristotelica la necessità della
sostanza è una necessità ontologica, ma questa necessità non esclude che anche
la definizione degli elementi necessari all’individuazione dell’oggetto sia
materia dell’essere, proprietà primaria e non attributo.
La dinamica che muove gli
aspetti essenziali del racconto, dal nodo allo scioglimento, è essenziale nel
discorso poetico. Per il fatto che nella definizione aristotelica la sostanza è
la materia formata, la forma non è una semplice funzionalità esterna
all’oggetto: parlare di struttura è quindi coerente, rispetto alla struttura
del pensiero e della natura. Aristotele sottolinea che i due mondi, quello del
pensiero e quello della natura, non sono distanti e non si escludono a vicenda.
La presenza del pensiero come logos nella sua condivisibilità, attraverso le
forme artistiche e la cultura di riferimento, è un prodotto della mimesi.
L’attività mimetica come condizione di realizzazione della poiesi è alla base della
conoscenza che si compie attraverso l’arte. A differenza della conoscenza
scientifica che necessita delle dimostrazioni, la conoscenza legata all’opera
d’arte è specificamente formativa, mirata all’educazione dei cittadini.
L’apparato formativo e educativo
della città si può basare sulle modalità di costruzione dei discorsi, come
Aristotele espone nella Retorica, oppure
è composta da forme di discorso poetico, con le regole e le direttive che sono
presenti nella Poetica. In tal
senso la poetica è una testimonianza della coscienza collettiva dell’epoca
rispetto non soltanto alla letteratura, ma soprattutto alle fondamenta
culturali.
Prima di arrivare ai tecnicismi
propri della finalità del discorso poetico, la funzione sociale diventa il
primo valore importante che si rende esplicito nel lavoro aristotelico di
riappropriazione della letteratura conosciuta e di rielaborazione delle
costanti presenti nelle grandi opere, come l’Iliade e l’Odissea, fino a quelle contemporanee al filosofo. Il suo riferimento a Omero è
tale da innalzarlo a esempio illustre, sintomatico di un'elaborazione che, come
vedremo, è in senso tecnico di alto livello, nella formulazione della struttura
necessaria per un’opera ben compiuta. La coerenza e la compiutezza delle
tragedie sono date dalla figurabilità del senso, attraverso la complessità che
permette di analizzare le relazioni esistenti realmente tra gli uomini e di
sintetizzarne i caratteri, nella sequenza di azioni date linearmente.
Le azioni come motori del
racconto fanno in modo che la caratterizzazione del personaggio sia in realtà
una relazione tra azioni che instaurano una dipendenza reciproca, fino a far
sentire il personaggio come verisimile dallo spettatore o dal lettore. L’azione
mimetica è quella che sfiora la natura umana e ne evidenzia la funzione unica e
istintiva che è quella imitativa. Inizialmente l’istintualità non è data da una
funzione diversa da quella degli animali non umani: l’imitazione è una funzione
di sopravvivenza e di socialità, non distinguibile dalla generazione della
cultura, come nel caso delle società complesse. Non è il personaggio a fare
delle caratteristiche presenti nella società un esempio da mostrare nelle
opere, bensì la configurazione di attività che si manifestano nella natura
mimetica e che procede dall’imitazione alla tendenza al bene, all’opera
compiuta da perfezionare nel tempo. Per il fatto che la tecnica non è opposta
alla natura, l’evoluzione delle opere è una capacità dell’essere umano.
L’arte come tecnica non è
dipendente da condizioni particolari esterne all’essere umano. La mimesi
diventa un cambiamento che muove la causalità delle opere verso il fine ultimo
della realizzazione del bene. In tal senso l’oggetto artistico migliore è
quello che risponde alle esigenze di ciascuna epoca e non ha una natura
soggettiva legata soltanto all’artista. Essa elude anche l’interpretazione come
ulteriore modello di formazione. La consistenza dell’incisività dell’opera è
presente agli occhi del pubblico nella funzione catartica che compie attraverso
il pathos e la verisimiglianza, strumenti della catarsi. La dimensione di
riappropriazione delle emozioni e di pietà che muovono le grandi tragedie, per
esempio, dipendono dall’interazione dell’insieme strutturato dell’opera con le
emozioni vere e le esperienze di senso compiute nella vita del fruitore.
Effettivamente non c’è una distanza tra opera come realizzazione e opera dal
punto di vista della ricezione: la buona realizzazione dipende dall’effetto che
ha sul pubblico e tale effetto è parte dell’opera stessa.
Nella Poetica il lavoro di distinzione tra le parti del discorso
che riguardano il racconto è finalizzato all’insegnamento della forma da
rispettare per strutturare e realizzare una tragedia o un’opera epica, per
esempio, ma anche per esplicitare ciò che è sotto gli occhi di chi legge
un’opera. Tale lavoro di strutturazione ricompone, rispetto all’esperienza
personale, uno schema che permetta di comprendere la natura dell’opera. Il tipo
di processo e di progettualità della funzione comunicativa è quindi un effetto
della buona composizione. Suffragando la possibilità di un ritorno della
perfezione di alcune opere, come è evidente nel percorso omerico che Aristotele
erge a esempio, a essere formulata è la gestibilità dell’istintualità umana. La
fattibilità potenziale o l’azione è tale per ogni dinamica possibile.
Il mutamento, visto come
dimensione di affrancamento dall’animalità priva di cultura, è tale da portare
alla natura umana senza discontinuità con le altre specie. In tal senso i
momenti di indipendenza dalle altre forme viventi sono quelli specifici della
verbalità, rivestita tuttavia delle stesse condizioni di realizzazione di
quelle che sono considerate arti mimetiche come la musica e la pittura. Tali
arti peraltro hanno una perfezione maggiore rispetto alla poetica delle forme
verbali. A dimostrazione dell’istintualità della parola non è una vera e
propria forma indipendente dalla realtà non linguistica, ossia la metafora che
contiene, a parere di Aristotele, elementi condivisi con le altre relazioni non
verbali. Il sintomo più evidente della simbiosi tra poetica e realtà naturale è
la dimensione formativa che della lingua comune fa uno strumento di
rielaborazione dell’azione presente all’essere umano; le attività della parola
non sono soltanto funzione di organi dedicati, ma hanno una gestibilità che
oltrepassa la funzione dell’imitazione. La natura dinamica della vita umana non
è nettamente diversa da quella che governa la vita degli altri animali.
La mimesi è una funzione della
commistione tra fatti naturali e fatti culturali: l’essenza di ciascun oggetto
e di ciascun ente è ciò che non può che essere come è. La Poetica permette di affermare che le sensazioni e le emozioni
costituiscono parte del pensiero, similmente all’azione di ago magnetico di una
bussola che sia utile a orientarsi nelle lingue e a incanalare quelle
maggiormente condivisibili in forme del discorso.
La differenza esistente tra una
rappresentazione scenica e la fruizione dell’opera come testo scritto non è
affrontata direttamente da Aristotele. Il logos è considerato nel suo insieme
come parti articolate, le parole e le sillabe, avvicinandosi alla natura di
attività che fa dei caratteri veri e propri personaggi. Tale relazione tra le
parti del discorso e la finalità articolatoria della natura poetica dell’arte
porta alla divergenza tra oratoria e poetica: il tipo di complessità che
troviamo nella Retorica per la
definizione delle parti più consone, atte a convincere il pubblico, non è lo
stesso di quello che è presente nella delineazione delle parti del discorso
poetico. Non è una differenza di prestigio: la natura della poetica è
qualitativamente più vicina alla natura delle azioni umane. Il retore, al
contrario, deve dimenticare le azioni nella loro complessità e estrarne solo
gli aspetti utili a vantaggio del concetto che vuole portare avanti, al fine di
convincere e non di educare. La politica non ha a che fare con la poetica: il
tipo di finalità delle due è diverso nella loro stessa origine, per il fatto
che la politica è atta al governo della città, mentre la poetica mira
all’educazione dei cittadini.
Il tipo di relazione esistente
tra la parola scritta e la rappresentazione mimetica che porta a delineare le
diverse necessità dell’arte è una formazione sempre in crescita, non
artificiale, nello stesso senso delle opere di retorica. La rielaborazione
delle caratteristiche che determinano la fattibilità di un’opera poetica non è
una manipolazione di idee esistenti da ripresentare rispetto a eventi o al fine
di difendere uno stato di cose. La forma del discorso poetico è priva di
invettiva e di critica sociale: ciascuna azione è a favore della catarsi,
finalizzata alla dimensione soggettiva. La catarsi è un processo che coinvolge
non solo la percezione dell’opera, della quale è un effetto, ma anche l’intero
apparato cognitivo dell’uomo: la visione e il riconoscimento di caratteristiche
comuni tra la vita quotidiana e ciò che si vede in un quadro o si legge in
un’opera, per esempio, permette di superare traumi subiti o semplicemente di
sentirsi parte di un universo di emozioni condivise. Quello che sembra un fatto
secondario, ossia la comunione dei sentimenti e delle emozionalità possibili
che sono riprodotte in un’imitazione di azioni e di attività, è realmente
funzionale alle pratiche artistiche. Non potrebbe esserci una nozione di poiesi
se non ci fosse l’effetto dell’opera sul pubblico: anche se non portato in
primo piano da Aristotele, il pathos, l’immergersi dello spettatore nella
complessità delle azioni e delle dimensioni che pertengono all’essenza della
tecnica, ovvero la dimensione formativa e quella mimetica, è parte integrante
di qualsiasi oggetto artistico. Il pathos, come emozione circoscritta
all’essere umano, permette un confronto tra la vita reale e la vita che si
riappropria del suo presente emozionale durante la fruizione dell’opera d’arte.
«Dunque
origine e quasi anima della tragedia è il racconto; seconda è la dipintura dei
caratteri. E lo stesso avviene anche in pittura: se si stendono i più bei
colori diffusamente, senza ritrarre un’immagine, non si soddisfa l’occhio nella
stessa misura. Poi è mimesi di azione, e proprio attraverso di essa è anche
mimesi delle persone che agiscono[2].»
I primi due elementi della
tragedia sono caratteristici dell’arte poetica: la capacità della tragedia è
tale anche senza esecuzione e senza attori. Aristotele afferma che anche il
linguaggio, il quarto elemento, successivo al pensiero, è simile nei versi e
nel discorso. Lo spettacolo è estraneo alla composizione: potrebbe anche non
essere messo in atto per la comprensione dell’opera. Tale elemento non è
secondario rispetto alla definizione della natura dell’arte poetica nella sua
completezza. È importante notare che l’astrazione delle azioni avvicina alla
mimesi che non dipende dai fatti così come sono stati presenti agli occhi dello
storico. Il poeta che osserva e conosce la realtà non diventa un dipendente
della visione storicistica. Anche se quella dimensione della realtà che si
coglie dalle opere è verisimile, essa non corrisponde a fatti, a azioni
brutalmente presenti nel corso del tempo storico.
Cogliere gli elementi delle
azioni del tempo che si concretizza con le forme umane dei personaggi è parte
di un sistema che è proprio della mimesi. L’operazione compiuta dal poeta è
quella di rendere immaginabile non soltanto quello che fa della manifestazione
nella storia un elemento diacritico come parte della memoria cronachistica, ma
soprattutto di profilare la necessità di un'imitazione che non sia simulazione
priva di legami con la sostanza riflessiva, l’anima senziente che attraverso i
simboli e il linguaggio diventa forma di conoscenza. La possibilità di una
visione della rappresentazione come esterna e secondaria anche alla tragedia,
permette di comprendere il senso profondo dell’arte poetica per Aristotele. Ciò
che è evidente non è che un involucro di dimensionalità che l’autore costruisce
senza muoversi al di fuori della sintesi che soltanto attraverso l’imitazione e
per mezzo della mimesi può essere poiesi. È importante ricordare che
l’imitazione è una fonte di rielaborazione delle azioni potenziali: riprodurre
in versi qualcosa che può essere sempre comprensibile al lettore significa
riuscire a distanziare l’ambiente dal quale il poeta ha iniziato a elaborare il
suo progetto poetico e arrivare a riformularne la funzione anche in un contesto
del tutto diverso.
«Perciò
la poesia è attività teoretica e più elevata della storia; la poesia espone
piuttosto una visione del generale, la storia del particolare. Generale significa,
a quale tipo di persona tocca dire o fare quei tipi di cose secondo il
verosimile o il necessario; e di ciò si occupa la poesia, anche se aggiunge
nomi di persona[3].»
L’astrazione diventa, nel
lavoro della poiesi, una formula per elaborare un campo d’azione: lo schema che
il poeta forma è una sintesi duttile di universi del discorso. La catarsi
avviene quindi attraverso il paradigma di una circolarità in parte esperenziale
dell’opera[4].
Il processo si realizza nella composizione degli elementi del racconto,
muovendo la schematizzazione delle sinergie esistenti tra personaggi e vita
reale. Per il fatto che non c’è una contrapposizione tra ciò che si vede sulla
scena e si legge in un’opera scritta anche se non rappresentata, l’universo
della mimesi non ha un luogo privilegiato: come accade all'immagine in un
quadro, la realtà è mediata. In opposizione alle teorie moderne del
significato, il linguaggio per Aristotele non ha una preminenza sulle altre
sostanze che permettono la realizzazione delle opere d’arte.
Per il fatto che la
categorizzazione delle realtà possibili, da una sintesi della percezione che
relaziona l’essenza degli oggetti delle cose osservate all’essere umano, arriva
fino alla teoria della dimostrazione che riguarda il linguaggio nelle sue strutture
più profonde, la teoria di Aristotele sostiene la forma evolutiva e
contemporaneamente la continuità tra il mondo e il pensiero. Tra i pensieri non
può esservi distanza: essi si trovano nella gerarchia aristotelica, prima del
linguaggio. La precedenza del pensiero sul linguaggio permette di riaccostare
le due realtà della forma artistica e del lavoro scientifico nella delineazione
dell’oggetto[5].
La poesia, più filosofica della storia, è tale in virtù della sua universalità.
Mezzi, oggetti e maniera sono i tre elementi che differenziano le imitazioni:
la mimesi che è considerata come una precondizione della realtà imitativa si
compie in un modo che è ricco di legami tra le arti. Aristotele è molto preciso
nella descrizione delle differenze, anche all’interno di uno stesso genere,
prediligendo, tuttavia, la tragedia rispetto alle altre forme.
«Le
forme della tragedia sono quattro, e tante risultano in relazione agli elementi
che abbiamo illustrato. Una è quella avventurosa, che consiste tutta in peripezia
e riconoscimento; una è luttuosa, come i vari Aiaci e Issioni;
una è psicologica, come le Ftiotidi
e il Peleo; e la quarta è
spettacolare, come le Forcidi e Prometeo e le scene dell’oltretomba[6].»
Tale ricerca della
differenziazione delle realtà poetiche permette di rinvenire alla nozione di
simbolo passando attraverso l’opera d’arte e di identificare nella poesia una
parte rilevante di significazione rispetto alla mimesi come germe della
connessione tra la vita naturale e l’arte. L’emozione come fonte di immanenza,
nell’effetto sul pubblico e di universalità, nella maniera in cui è percepita
nella forma categoriale del riconoscimento, unisce il trascendente e
l’immanente, costituendo poiesi e attività teoretica.
«[…]
in Aristotele non c’è distinzione tra mimesi poetica e mimesi filosofica perché
non c’è più ragione per una tale distinzione[7].»
La mimesi diventa una forma di
sillogismo che permette l’apprendimento. Se in Platone la mimesi poetica porta
a sviare altrove il nostro pensiero, a allontanarlo dall’idea originale e
quindi vera, in Aristotele la mimesi è di una natura unitaria, per la filosofia
come per la poesia. Il problema evidenziato è quello che riguarda il logos
poetico: tra poesia e filosofia, fin dalla Teogonia di Esiodo (VIII – VII sec.), i poeti erano coloro
che sapevano dire molte menzogne simili alla verità e contemporaneamente
sapevano anche cantare le cose vere. Secondo Erodoto il fine dell’arte poetica
è rendere verisimile la rappresentazione, verisimiglianza che permette di affermare
che tutta la poesia dei primi secoli ha uno scopo conoscitivo e educativo. In
qualche modo la poesia ha un fine legato alla ricerca: la poiesi permette di
trovare qualcosa di esistente. Per il fatto che il linguaggio è considerato
come esemplificativo per spiegare come avviene il processo mimetico, nella
mimesi sono rimesse in gioco le questioni dell’apprendere e del sillogizzare.
Un esempio pratico è la somiglianza istituita dalla metafora: essa riguarda il
rapporto che le parole hanno con le cose. Nella massima, considerata un esempio
di entimema, la metafora è una forma di consonanza dialettica. Per spiegare
l’esempio di mimesi in una frase vi è la metafora, risultato di una
sostituzione che avviene per via indiretta: “questo è quello”, sembra affermare,
permettendo, con tale allusione, l’attuazione di una forma di apprendimento. Il
radicamento alla verità è pensato come un atto di aisthesis, essendo del tutto
umano: attraverso la mimesi si apprende qualcosa di più della percezione
diretta. Sillogizzare significa quindi cogliere la forma dell’oggetto,
comprendendo anche ciò che potrebbe sfuggire se non avvenisse la mimesi: la
semplice imitazione non permette di rendere conto del lavoro mimetico.
«Sia
il poeta nei suoi stadi compositivi che lo spettatore del dramma teatrale –
colui che era significativamente denominato theoros – nel suo atto di riconoscimento, sono entrambi
guidati dalla forma[8].»
Il processo di riconoscimento
che permette l’attuazione della catarsi è comune a chi crea l’opera tragica e a
chi ne fruisce. Esiste, in tal senso, un principio generale di realizzazione
della funzione artistica che non eccede la sostanzialità stessa della lingua.
La poesia è doxastica e non epistemica poiché ha una forma di sillogismo
essenziale radicato in essa: syllogos è
una forma di aggregazione dei ragionamenti, per la quale il dedurre, in
principio, è usato nel senso generale del riunire. La relazione forte esistente
tra l’azione poetica e la forma dell’opera d’arte ha un luogo di contatto che
non è estraneo all'imperfezione delle azioni umane.
L’hamartia che caratterizza l’atto deliberatorio dell’uomo è
l’effetto fallimentare senza il quale non ci sarebbe la libertà: la poesia
verte sulla libertà e può essere resa inerente al bene soltanto se prende piede
tra i sentieri della libertà. Gli animali non umani, al contrario, non
falliscono poiché possono al più essere sopraffatti dalle circostanze. Essi non
possono realizzarsi al di là della riproduzione. Si tratta di una
caratterizzazione che determina lo scarto netto tra la specie umana e le altre
specie: nella sistematicità aristotelica il fine ultimo corrisponde al primo
motore immobile: il primo è la physis, la sostanzialità messa in atto che
contiene la propria essenza.
L’umanità è legata al kairos, al tempo e soltanto attraverso la prassi mimetica,
nel senso ontologico di forma umana, si realizza la catarsi. L’immedesimazione
che permette di trasformare un dolore in un piacere avviene attraverso la mimesi
praxeos, la prassi che può essere composta
da azioni artistiche che ricalcano quelle della vita naturale[9].
In ogni caso la virtù etica è condizionata dalle passioni. Esse non allontanano
dalla verità, come sono invece considerate da Platone, bensì realizzano la
tendenza al bene e la caratteristica principale della catarsi, ossia la
ricostruzione delle esperienze che da private ritornano a essere condivisibili
nella fruizione dell’opera.
Un esempio di condivisione
della formazione è l’allegoria. Essa ha un fondamento nella concezione che
esisteva in Grecia secondo la quale ognuno può condividere con ogni altro il
possesso del suo stesso livello di formazione dell’aisthesis e della theoria attraverso la cosa manifesta. L’allegoria è lo strumento ermeneutico
che come tale svela il senso nascosto, ossia il significato del significato.
Esso è radicato non solo nelle credenze delle comunità, ma soprattutto nelle
dimensioni letterarie e culturali che si antepongono al presente vissuto. È
un’altra prova dell’aleatorietà del fatto di per sé. La poesia che non è storia
pura è tuttavia una meta della verità condivisibile anche attraverso le
menzogne, se esplicabili nel significato profondo dei simboli. L’età critica
della poesia è quindi quella che dal politeismo della Grecia arriva al
monoteismo del cristianesimo. Con l’età ellenistica avviene la demitizzazione:
non si hanno le divinità poliformi radicate in natura poiché nell’esegesi
allegorica si contempla la nuova concezione del vero.
La poesia diventa un effetto
della serietà e della riflessione, non una pura istintività o una natura a sé
rispetto alla realtà storica. Essa ne costituisce una parte rilevante che non
si annulla con la divinizzazione delle cose materiali: si erge a essere
considerata la forma mimetica per eccellenza, laddove Aristotele caratterizza l’uomo
attraverso la verbalità che è articolata. L’allegoria permette la riduzione
della poesia a finzione: Teofrasto, allievo di Aristotele, interpreta la
filosofia del maestro in senso empiristico e meccanicistico, riducendo alla
materialità delle cose la capacità di trasformazione che la mimesi attua. Nella
concezione aristotelica, in realtà, non è contemplata alcuna forma di
materialismo[10].
La possibilità di una riformulazione della capacità umana di corrispondenza
della forma espressiva con la forma di comprensione che faccia delle emozioni
una realtà anch’essa condivisibile indirettamente è strettamente connessa con
la sinergia esistente tra la dimensione linguistica e quella mimetica. Laddove
Aristotele pone in primo piano le caratteristiche della poetica confrontandole
con quelle dell’arte pittorica, per esempio, la capacità di rappresentazione
diventa secondaria rispetto alla specificità della normatività linguistica.
L’essenza del linguaggio non è
soltanto relegata alle funzioni di duplicità di un contenuto che potrebbe anche
non essere messo in relazione diretta con la prassi comunicativa. Al contrario
è la prima possibilità di un'effettiva dimensione della narratività che faccia
della realtà storica una formazione cooperante ma non determinante al fine
della significazione.
La catarsi come sintomaticità
della natura linguistica e assimilabile alla terra di approdo della lingua
poetica è un fattore di snodo della sintomaticità delle emozioni
verbalizzabili. I caratteri che negli altri animali rimangono fattori di
determinazione dell’evoluzione della specie, nell’umanità la forma emozionale è
soppesata e dilazionata in forme di gestibilità attraverso gli artefatti.
Questo punto importante per capire la visione aristotelica della funzione
mimetica permette di capire in che senso la catarsi sia realizzabile attraverso
la poiesi. In una forma generativa di creatività, la poiesi si realizza non
soltanto con le forme di tragedia e di commedia ma soprattutto con la
possibilità di creare similitudini continue tra la forma linguistica e le arti
liberali come la pittura, il teatro e la poesia. Tale sinestesia si ritrova in
tutte le forme che possono essere considerate nei termini delle tecniche e
quindi come potenziali attività specializzate.
La possibilità di una scrittura
poetica che non sia solo una formula di ricognizione della realtà presente è la
condizione della mimesi come di una riconsiderazione della capacità umana
negata alla pura emozionalità priva di forma. Se non ci fosse la catarsi a
fondamento delle emozioni pure e della naturalità di qualsiasi sentimento
appreso attraverso l’opera d’arte, non sarebbe possibile ricondurre alla
filosofia il lavoro di episteme, del quale la poesia in sé non può esserne
partecipe. La doxa come forma
d'apprendimento formativo non è speculativa, benché la catarsi sia una forma di
conoscenza sottomessa a regole esatte che Aristotele cerca di delineare nel
compendio della Poetica. La
condizione necessaria della rappresentazione che la forma della realtà segnica
presuppone rispetto alla natura della fonte allegorica è un esempio di
tradizione e di circostanzialità della soggettività; la differenza sostanziale
esistente tra un soggetto e un'oggettività che differenzia la storia della
poesia dalla storia filosofica è radicata nella forma di percezione della
realtà logica.
La logica della poesia non ha
la radicalità della funzione di ricostruzione che invece si trova nella
filosofia come mezzo del pensiero, ma ne ricalca la devozione, come se fosse
una ricerca delle forme deduttive del senso: le condizioni di possibilità della
poesia sono quelle della diversità di una rivoluzione senza armi e senza alcun
bisogno di determinare un nemico. Alla poetica delle forme d’arte niente è
estraneo, nessuno è un ospite, poiché ogni elemento contribuisce alla
determinazione di senso, componendo, come se non ci fossero altri motivi di
significazione al di fuori di quella determinata opera che si sta realizzando
in quel dato momento.
A questo punto possiamo
chiederci fino a che punto siano interconnesse le dimensioni del mutamento e
della forma stabile nella generazione del significato. La determinazione dei
luoghi in cui avviene l’intreccio tra le parti stabili e quelle dinamiche del
significato è la tendenza della poesia e delle arti poetiche intese come arti
liberali. Nella prima parte della Poetica
le condizioni di possibilità dell’imitazione si assumono come costanti
cognitive del racconto e delle forme narrative: la musica pertiene all’aspetto
fondativo dell’istintualità umana.
A oltrepassare la dimensione
della fantasia pura e dell’imitazione è il processo che si instaura tra il
poeta e l’opera rispetto agli schemi d’azione umani. Un primo senso della
molteplicità della forma è la sottile linea di separazione esistente tra la
natura della lingua e la natura della riflessione sui modi d'azione della
fantasia[11].
Tale punto di vista permette di corroborare l’ipotesi aristotelica di una
natura comune della mimesi sia per ciò che riguarda la forma poetica sia per
quella che si esplica nelle arti gestuali: tutta la prassi di base è quella in
comune tra ciò che è scritto e ciò che è interpretato dallo spettatore. In
altre parole gli attori, la scena, i costumi sono mezzi del significato
formulato dalla scrittura dell’opera. Il riferimento alla designazione del
significato nella prima fase che si sintetizza è sostanziale per la
comprensione della realtà dinamica, ma non realizzabile attraverso altri
veicoli che non siano quelli dipendenti dalla parola.
La concezione aristotelica del
significato che si ricava dalle formule di funzionamento del linguaggio, come
appare nella Poetica, rispecchia una sistematicità che non è da considerare
soltanto come struttura della lingua: il piano della metamorfosi della
scrittura preme sull’ontologia dell’arte. Tecnica e arte sono le uniche forme
di differenziazione dell’uomo dalle altre specie. Si tratta di una struttura di
raffinamento della germinazione delle lingue attraverso la corporeità e mai
separata da essa totalmente, neanche per la determinazione delle variabili che
operano nelle strutture linguistiche.
La natura mimetica nella Poetica di Aristotele permette di rivalutare la nozione di
schema e di eleggerla a fondamento della concettualità della logica della
poiesi. Per capire la possibilità della natura schematica della forma logica
della poesia la duplicità del senso del linguaggio, nella chiave saussuriana,
assume le caratteristiche della stratificazione linguistica che Hjelmslev
rileva definitoria per la lingua. A convalidare la necessità di una funzione narratologica
della mimesi che si collazioni agli altri stati di significazione vi è la
poiesi come struttura logico-funzionale e di esplicitazione del senso. La
natura logica della poesia è, in tal senso, la forma strutturata della ragione
ultima della lingua naturale. Tuttavia, essendo precedente alla verbalità, la
realtà logica diventa una possibilità che fa della gerarchia funzionale un
passo successivo e consequenziale. La logica poetica, come insieme degli schemi
che si fanno materia logica nel modo di costituirsi degli oggetti artistici,
riunisce la significazione sotto un unico modello di osservazione dell’unione
di forma e contenuto.
Se consideriamo la poesia come
un oggetto d’arte e non soltanto come un prodotto della linguisticizzazione
possiamo ricondurre la poeticità alla funzione principale dell’esperienza
naturale nelle forme del discorso, come legame tra una funzione sociale e una
solidarietà della sostanza significativa sul piano della verisimiglianza. Per
fare questo passo è necessario ricordare cosa significa schema e come è
utilizzato nella storia della critica aristotelica[12].
Ci sono diversi modi di vedere la nozione aristotelica di schema, ma possiamo
ricollegarci alla nozione kantiana che risulta più precisa e rende meno ambigua
la lezione aristotelica.
È noto che in Kant gli schemi
sono alla base dei nostri concetti sensibili puri e che esiste una differenza
tra l’immagine e lo schema: lo schema dei concetti sensibili è un prodotto
dell’immaginazione pura a priori o, in altri termini, ciò che permette di
collegare le immagini percettive ai concetti. L’importanza che Kant dà
all’immaginazione, del resto, fonda l’universalità dei giudizi di gusto
sull’armonia tra l’immaginazione e l’intelletto, ponendo tale questione alla
base della Critica della facoltà di giudizio. Vi saranno così diversi tipi di schemi della sensibilità: lo schema
della sostanza che è la permanenza reale nel tempo, lo schema della causa,
della reciprocità delle sostanze rispetto ai loro accidenti, lo schema della
possibilità come accordo della sintesi di diverse rappresentazioni, lo schema
della realtà e quello della necessità dell’oggetto. La funzione dello schema è,
in questo modo, ciò che limita le categorie dell’intelletto: è un ancoraggio
della percezione alla categorizzazione. Stando a questa definizione lo schema
non è una rappresentazione[13].
Per arrivare a tale forma del pensiero è necessario, per Kant, il giudizio di
gusto, nell’analisi dell’arte e dei suoi principi, ma soprattutto delle
attività che regolano la fondazione del giudizio. In altre parole, la diversità
dipende dall’armonia esistente tra l’oggetto e il soggetto, ma le differenze
permettono anche la fondazione dell’universalità del giudizio di gusto.
È proprio a partire dalla
nozione kantiana di schema, ossia dell’esibizione del concetto in modo diretto,
che possiamo pensare alla proposizione, nel rapporto tra immagine e concetto,
come a uno schema, a partire dalla sua struttura: così, se la proposizione è
uno schema dei concetti, ritroveremo in modo simile la linea mediana della
concettualità poetica, una sorta di mezzo sistematico della struttura del
linguaggio da riaccordare alla realtà linguistica dei parlanti.
Un esempio è quello che si
sviluppa nell’analogia in cui si realizzano quattro punti di vista diversi: tra
i termini medi e gli estremi vi è una proporzione che si forma e diventa
funzione attraverso le distinzioni concettuali degli schemi logici. La sfera
dell’ingegno ricopre la capacità sintetica attraverso la quale si scoprono le
somiglianze tra le cose dissimili o tra gli eventi distanti, come accade nel
rapporto con il principio metaforico. In questo lavoro mi preme affrontare il
modo in cui avviene il passaggio dalla forma significativa, attraverso gli
strumenti della logica, alla realtà linguistica che si manifesti come
poeticità.
L’idea di una natura che sia
non soltanto generazione delle cose che crescono, ma anche principio originario
e immanente, principio del movimento primo e causa del principio materiale
originario, come sostiene Aristotele nella Metafisica, permette di comprendere le caratteristiche di una
forma espressiva che non è soltanto enunciazione in sé, ma soprattutto
divergenza dalla costrizione che si compie attraverso il linguaggio poetico.
All’interno della natura anche il linguaggio è una forma d’imitazione. La
relazione tra i due piani, uno di enunciazione e un altro di divergenza basato
sulla natura stessa del fatto linguistico, è specifico della poetica. Le
opposizioni aristoteliche di potenza e atto, materia e forma, causa e effetto
che appaiono come fondative nell’ontologia dell’essere umano e della natura,
hanno un ricongiungimento nella struttura stessa della poiesi. Questo effetto è
una caratteristica della mimesi che agisce a partire dalla funzione sociale,
fino a scorgere nell’attività del poeta la risoluzione alla questione: per
esempio, rispetto alla discontinuità tra azione tragica, poesia e verità
storica. Aristotele spiega come sia in qualche modo comprensibile che esistano
nelle forme di poetica alcune forzature che permettano di amplificare la
possibilità di produrre azioni palesemente contrarie al principio della
verisimiglianza. Quando si parla di pensiero e linguaggio, Aristotele evidenzia
che le vicende del racconto hanno gli stessi principi del pensiero: il
dimostrare e il confutare, il produrre emozioni, l’amplificare e il minimizzare
alcuni aspetti della realtà. L’unica differenza tra arte poetica e realtà
comunicativa diretta della parola espressa in forma dialogica tra i parlanti è
che questi elementi devono emergere senza alcun commento, al contrario di
quello che avviene nel discorso.
Le
questioni relative al pensiero trovano il loro posto nei libri sulla retorica;
è una discussione che appartiene piuttosto a quella indagine[14].
I dati che permettono di capire
che sia auspicabile la correlazione forte esistente tra forma della tragedia e
forma linguistica sono quindi la struttura del linguaggio e le forme logiche da
un lato; dall’altro la processualità, non solo logica, della funzione che
distingue il poeta da un retore o da un oratore. La forma universale delle
divergenze della realtà che la poesia permette di cogliere è un lavoro di
sintesi continua, rivolta a una costellazione in cui gli argomenti sono
frazionati nelle gerarchie sociali dell’epoca, ma la sintesi poetica non arriva
mai a corrispondere perfettamente alla realtà.
Aristotele, nella Poetica, mette in luce la carta vincente della poiesi,
legata all’istantaneità dell’improvvisazione, laddove la mimesi raggiunge
quello che in termini moderni si chiama il campo semiotico della lingua.
Importante è sottolineare che l’istantaneità e l’improvvisazione non sono
sufficienti alla significazione, al di fuori della struttura linguistica e al
di fuori delle catene emozionali.
Ponendoci dal punto di vista
dell’idea aristotelica di istante, di fatto non è possibile rilevare o
riconoscere l’istante stesso, essendo un limite del tempo. La mimesi diventa
quindi un modo per amplificare l’applicazione della percezione alla forma
cognitiva, sia della ricezione, sia dell’elaborazione poetica. La ricognizione
è quindi una facoltà cognitiva non esentata dalla capacità di rendere evidente
l’emozionalità dell’essere umano. La nozione che spesso si integra a quella
della percezione diretta, in realtà, muove l’esperienza complessa della sintesi
e della selezione degli elementi presenti alla vista del poeta. L’idea di uno
specchio mimetico della poiesi rispetto alla realtà storica delle azioni umane
non soddisfa Aristotele. Per attivare la rappresentazione mimetica devono essere
presenti due aspetti: l’artefatto da un lato e dall’altro la capacità di
significare e di attivare i pattern della realtà supposta[15].
Al contrario di Platone e dell’idea di trasparenza dell’opera, Aristotele mette
in campo l’aspetto duale che riguarda non soltanto il piacere delle emozioni
procurate attraverso la poetica, ma anche la comprensione del mondo che viene
rappresentato[16].
Per il fatto che la comprensione viene considerata come un elemento naturale
dell’azione contemplativa, o meglio dell’attenzione contemplativa, la
mediazione della rappresentazione tra poeta, azione scenica e pubblico è una
prima forma di ricognizione. Da tale ricognizione prendono piede, nella visione
aristotelica, le somiglianze (homoia). Permettendo il passaggio dalla forma
individuale della visione dell’opera, diremmo oggi della ricezione, alla
costituzione del significato che dal senso indivisibile dal poeta, nel legame
messo in atto dalla semiologia dell’opera, le homoia arrivano alla
condivisibilità. Un primo mezzo di tale processo è quello della costruzione di
analogie retoriche che diventano analogie semiotiche nel momento in cui il
testo è decontestualizzato dalla scena o dal luogo fisico della ricezione. In
tal senso il lavoro del poeta è superiore a quello dell’attore, per il fatto
che non ha appigli contestuali immediati ma solo pattern individuali di
selezione dei dati a partire dai movimenti testuali. Tale selezione potrebbe
essere considerata la natura fondativa del campo d'azione del significato
dell’opera. Lo Piparo (2003) relaziona il potere semantico delle parole al
fatto che le parole sono simboli, ossia contemporaneamente e inseparabilmente
articolazioni della voce e operazioni logico-cognitive. A questo si appiglia un
aspetto importante della visione aristotelica della significazione: i fatti
possono essere falsi, anche se reali, mentre la verisimiglianza pertiene nella
narrazione alla verità della logica, poiché è già una forma simbolizzata di
verità. Un esempio aristotelico è quello del sogno: è un fatto della realtà, ma
può essere falso. La necessità della forma segnica come sostanza da un lato, il
riferimento all’oggetto dell’attività artistica dall’altro, porta a sviluppare
la questione della ricerca della causalità dell’arte poetica nella significazione:
dal punto di vista della distinzione tra causa e effetto, materia e forma,
potenza e atto la significazione non potrebbe che essere centrata sulla
divergenza tra ciascuna opposizione diadica e la tempestività o l’istantaneità
dell’improvvisazione.
Il fattore temporale che si
modella nella dimensione della centralità dell’opera come complesso e della
distinzione tra la forma visiva o uditiva, in senso lato sensoriale, delle
percezioni e quella logica, permette di riferirsi alle formazioni linguistiche
come a funzioni della logicità del pensiero. Il problema si pone anche a
livello della distinzione tra modello e processo che, nella forma delle
manifestazioni della fantasia come azione creativa, permette di parlare di una
continuità ricavata soltanto basandosi di netto sulle forme poetiche,
dimenticando le discontinuità che le diverse forme di percezione portano a
compiere nelle dimostrazioni matematiche e nelle scienze non teoretiche.
La metafisica può realizzare
una funzione costitutiva di relazione tra il comportamento umano e la forma
artistica, lineare e privata della sintomaticità che, invece, avvolge il mondo
fisico, per il fatto che la forma umana non può essere vista come una semplice
formazione fisica, ossia dipendente dalla pura causalità. Aristotele, nella Fisica, malgrado ci sia una sorta di elezione dell’oggetto
fisico a prodotto imprescindibile della descrittività di un qualsiasi ente
dell’universo, ricorda che le stesse sostanze sono distinte in base alla natura
del loro movimento. Se pensiamo alla definizione aristotelica del tempo, come
la misura del movimento secondo il prima e il poi, ci rendiamo conto non
soltanto del fatto che il tempo stesso non è movimento, ma che il prima e il
poi non sono concepibili al di fuori della coscienza dell’essere umano. Nessuna
altra forma di vita potrebbe distinguere tali istanti nella linea
spazio-temporale, malgrado possa sentirne l’azione attraverso la sensazione.
Leggendo in questo modo la divergenza tra fisica e metafisica, spesso la
seconda sostituisce la prima nella prassi delle azioni umane: in un certo senso
la poesia, come forma di una distanza che si fa materia, permette di creare una
forma di certezza della predicazione come forma assoluta non inspiegabile, come
prodotto finito della civiltà. Se pensiamo alla quiddità, a una sorta di
essenza non ancora formata delle lingue, possiamo portare lo stesso esempio
alla percettibilità del senso pratico[17].
Rispetto alla realtà sociale il poeta possiede una sorta di privilegio che non
riguarda soltanto la sua possibilità di farsi strumento della logica comune per
eleggere le parti migliori delle personalità a caratteri, ma soprattutto ha a
che fare con la possibilità di mostrare nel suo essere parte della società una
sorta di sintesi funzionale della sua capacità mimetica. L’azione pratica ha
sempre una preminenza e un valore positivo rispetto a quello negativo
dell’ignoranza come non azione, stasi, rifiuto dell’attività: tale dimensione
della realtà mimetica come riassorbimento della prassi nella forma della scrittura,
permette di rilevare una natura duplice nella predicazione: il primo elemento
della predicazione è la dimensione del fantastico e della ricerca poetica come
sistema linguistico e il secondo è la funzione del poeta che non permette di
dividere il senso del lavoro dalla cultura di riferimento.
Vista così la tipologia di
coercizione della poesia sulla lingua dei parlanti non è un formulario già
scritto di riferimento e questo accade non solo per il fatto che la descrizione
non fa parte delle proprietà formali specifiche della funzione poetica, ma
soprattutto in virtù dell’ineccepibilità del lavoro della poesia rispetto alla
filosofia piuttosto che alla storia. Se da un lato, infatti, la divergenza
principale della poesia rispetto alla verità storica è soltanto un’ipotesi,
dall’altro lato parlare di verisimiglianza e non di verità non toglie valore
alla semiologia della poesia. In realtà appena se ne allontana con una mossa di
retoricità, essa assume le peculiarità di un vero (true) logico. Il perimetro
d’azione che la poesia calcola rispetto al linguaggio è quel valore cultuale
che si personifica attraverso la gestualità degli schemi d'attuazione della
tragedia. Un’azione che sia unica, ma non un’unità di per sé è quella che segue
un percorso avallato nella superiorità rispetto all’epica, attraverso caratteri
non soltanto strutturali, del discorso, ma legati a una performatività
dell’azione che si andrà a specificare da sé nella Poetica. Aristotele offre il modello di tragedia attraverso
un’oscillazione che va dal valore di mimesi come simulazione a mimesi come
rappresentazione, la prima ingannevole, la seconda artificio, riproduzione; la
logica della poetica si può rilevare anche senza la rappresentazione
dell’opera.
La tragedia è la forma più
potente d'imitazione poetica, mutando radicalmente la concezione della poesia,
in Platone forma di un sapere fuorviante, per il fatto che è modello di azione
degli uomini. La concezione oppositiva tra visibile come falso e invisibile
come vero, tra apparenza e realtà, non è concepita da Aristotele, per il quale
l’imitazione poetica non è un’attività ingannevole, ma una dimensione pratica,
anche se parziale, di conoscenza: per Platone l’oratore, il retore, è un
mentitore. Aristotele in certi luoghi presenta la poesia come un’abitudine
legata al tempo libero, per il poeta che deve dimostrare d’essere capace di
rispondere alle esigenze sociali in virtù della sua libertà.
«Ora,
poiché abbiamo, per nostra natura, il gusto dell’imitare, e inoltre della
musica e del ritmo, ed è evidente che dei ritmi sono elementi i metri, allora
avvenne da principio che quanti avevano per queste cose le migliori
disposizioni naturali, procedendo a poco a poco, generarono spontaneamente
l’attività poetica[18].»
In tal senso i principi esposti
nell’Etica Nicomachea sono da collegare
agli accenni che Aristotele fa nella Poetica. Analizzando le caratteristiche della poesia e
dell’attività del poeta, dal punto di vista della prassi, sia l’attività sia il
risultato hanno tutte le caratteristiche delle arti liberali e lo status del
poeta è quello dei saggi. La saggezza e la sapienza sono proprie degli uomini
liberi, capaci di imparare e per i quali è piacevole farlo[19].
La poesia è un’attività virtuosa e come tale aumenta, rende fruttuosa
l’attività stessa, nel senso in cui è autonoma e attiene a quelle attività che
producono piacere agli altri uomini, avvicinando in questo modo alla felicità.
Aristotele afferma che la felicità perfetta è quella dell’attività
contemplativa: essa è un habitus proprio dell’anima razionale[20].
Se il fine della vita umana è la felicità e essa è caratterizzata dall’attività
come prassi, dall’autonomia, dal sostegno che un uomo può dare ai cittadini, la
poesia come arte mimetica è la forma più concreta di arte liberale. Dal punto
di vista ontologico la felicità pertiene all’essere umano: le opere d’arte
possono essere apprezzate soltanto dall’uomo e non dagli altri animali e
possono avere funzione catartica: liberano l’uomo dalle passioni dell’anima
irrazionale. La poesia è attività umana, tecnica e il poeta è colui che può
usufruire della mimesi per liberare gli altri dalle passioni: in questo senso
l’azione pratica diventa una forma di politicità della funzione dell’arte
poetica.
La mimesi è quindi un’azione
specificamente umana, propria delle arti liberali. L’arte è, nei termini
aristotelici, tecnica mimetica e la poesia pertiene alle forme più alte di
mimesi, poiché imita azioni che riguardano un contesto liberato dalla schiavitù
della prassi: l’imitare è una forma di integrazione di tutti quei caratteri che
portano l’uomo al sommo bene, al fine ultimo della vita umana che è la
felicità. La mimesi è, in qualche modo, soprattutto un’attività. Lo è, in
primis, dal punto di vista della ricezione, di un pubblico o di un lettore che non
è mai passivo di fronte alla tragedia; lo è, inoltre, dal punto di vista della
produzione dell’arte poetica: il poeta che incarna la possibilità dell’opera è
esonerato dalle attività non direttamente dianoetiche, percepibili come dirette
al sommo bene. Il tempo libero dalla costrizione al lavoro, come mezzo di
arricchimento prettamente del soggetto, è tale da poter essere fruttuoso
soprattutto per il pubblico e per i cittadini lettori. Il lavoro procede con la
ricostruzione, in forma poetica, della parte migliore della soggettività, nei
casi di livello alto della tragedia e dell’epica, in cui vengono messi in
pratica gli aspetti migliori degli uomini o messe in campo le personalità dei
cittadini migliori. Quindi il lavoro del poeta supera quello dello storico per
il fatto che, non soltanto è legato alla conoscenza di fatti storici, di realtà
realmente accadute, ma deve anche rielaborare le azioni e renderle il più
vicino possibile alle logiche universali. In questo senso si può comprendere in
che senso nella visione della Poetica è
considerato di un livello alto il racconto complesso e invece basso il racconto
semplice, privo d'intreccio. In un certo senso la materia della poesia è una
forma di memoria complessa, non relegata alla semplice successione di fatti già
accaduti, ma intrisa di significati, attività di riattualizzazione continua dei
sensi. La tecnica di sintetizzazione è del tutto al di là di un copiare fatti
già accaduti: i fatti non hanno importanza nella visione del poeta, sono, al
contrario, privi di senso se non riorganizzati nella mimesi, azione pratica
della semiosi ovvero, in termini aristotelici, della categorizzazione. In
questo senso nelle logiche della poesia non c’è schematizzazione priva di
categorizzazione.
Pensiamo al riconoscimento come
a una possibilità umana di poter venire a conoscenza di ciò che accade, di
prevedere la riattivazione di alcune situazioni, di avere a che fare con la
memoria complessa. La riattualizzazione dei significati nei sensi che
presentano l’uomo sempre copartecipe in potenza di qualche forma percettiva
complessa come quella della mimesi che governa la parte razionale, porta
Aristotele a deviare il percorso diadico tra schema e narratività del piano
ontologico per approdare all’artificiosità come a una forma di felicità. Il
divario esistente, in teoria, tra potenza e atto, non è dilazionato nella
poetica in maniera meno esplicita della crescita di tipo biologico di un essere
umano. In un certo senso la mimesi corregge la biologia naturale
dell’irrazionalità degli organismi: nessun animale non umano, nella visione
aristotelica, può simbolizzare. La libertà propria dell’uomo rispetto alle
altre specie è tale per il fatto che è mimesi di azioni libere dalla causalità
della dipendenza dagli istinti irrazionali e permette il riconoscimento della
prassi e la rottura con l’azione dei piaceri negativi, legati all’irascibilità,
all’incontinenza e al conflitto o al concupiscibile. Avendo superato l’impatto
con la natura irrazionale attraverso la poiesi e la mimesi, il poeta libera chi
usufruisce della sua attività e crea il movimento, la crescita che è propria
dello sviluppo del soggetto, permettendo uno scarto effettivo che permette il
passaggio dalla fisica alla metafisica[21].
L’idea di potenza e quella di atto, alla base del funzionamento dell’universo
nella sua generazione delle forme e degli elementi, è comune alle forme
naturali della materia e alle forme di creazione artistica propriamente umane,
come quelle della poesia. A partire dal principio di generazione fino a arrivare
allo sviluppo degli enti organici, Aristotele spiega anche l’unità
drammaturgica con la metafora di un corpo che ha un’attualità, mimesi di un
fatto che può sostenersi come autonomo dalla concatenazione che lo precede e in
grado di funzionare come inizio di uno snodo narrativo, come per esempio la
peste a Tebe. Lo sviluppo della forma, nella sua contiguità, permette di
esplicitare il modo di formazione del racconto, per giungere all’epilogo nella
forma più alta che per Aristotele deve essere necessaria, come una conclusione
logica. Si parla, in tal senso, di una forma di tipo narratologico e non
epistemico.
«Poiché
il poeta fa opera di imitazione, esattamente come un pittore o un altro artista
di figure, ne consegue che, tre essendo di numero i possibili oggetti, ne avrà
di volta in volta da riprodurre uno, e cioè: come erano o sono, oppure come si
dice o si ritiene che siano, oppure come dovrebbero essere[22].»
L’apprendimento mimetico della
poesia potrebbe essere un sintomo del legame tra forma e mimesi, anche per il
fatto che la nozione di mimesi non è collegata esclusivamente alla nozione di
verità. Esemplificativa è l’adeguazione della copia al modello che non è basata
sull’esattezza della riproduzione, come nel caso della rappresentazione pittorica
della cerva con le corna: la ricostruzione pittorica della cerva è funzionale a
uno stato di cose, principalmente alla catarsi, mentre il linguaggio non è una
struttura a priori, poiché ci poniamo sul piano dell’esperienza umana, essendo
quest’ultima legata all’efficienza attraverso il piano dell’immagine. La
copresenza del linguaggio e dell’immagine permette di giungere all’area di
significato. La prassi messa in campo è imitativa, ponendosi come via d’accesso
non alla verità ma alla stilizzazione della realtà: in questo senso la
tragedia, così come è conservata nel tempo, è l’esempio di poetica per
eccellenza in cui i due piani, di verità e esperienza, ritrovano al centro la
poetica.
Il linguaggio poetico si
attiene al sistema costituito dal livello alto e da quello basso del
linguaggio, al centro del quale c’è la catarsi: opera epica e tragica, retorica
e poetica si installano in questo percorso. Se riconsideriamo ancora la Fisica di Aristotele notiamo come la continuità che
permette il movimento e quindi i mutamenti è alla base della creazione della
sostanza. In particolare esistono quattro tipi di movimento: sostanziale,
qualitativo, quantitativo e locale. La generazione che permette il passaggio
dalla potenza all’atto riguarda il tempo che non è mai istantaneo, poiché
l’istante è al di fuori dal tempo. Un esempio è quello del vaso, in cui il
contenente e il contenuto non hanno possibilità di essere separati, tuttavia
sono due aspetti diversi, percepiti come distinti. È lo stesso fattore che
riguarda la duplicità delle forme concave e convesse; un altro esempio è
l’istantaneità attraverso la quale l’occhio umano percepisce le forme
gestaltiche come duplici. Tale fattore della riflessione di Aristotele sulla
realtà fisica permette di comprendere come l’osservazione della circolarità
delle relazioni tra oggetto fisico e forma di relazionalità tra le parti
riguarda una dimensione inaccessibile della materia universale. Per il fatto
che la potenza e l’atto sono separati da un limite, l’istante della metamorfosi,
possiamo affermare che si parla di stati della realtà di dimensioni diverse,
probabilmente incommensurabili l’una con l’altro: o meglio, nella visione
aristotelica, privata di una geometria della forma, non ha senso chiedersi che
cosa abbia a che fare l’antecedente, dal punto di vista cognitivo-sensoriale,
con il conseguente. Il principio di formazione è un attivarsi continuo di un
contenuto, in qualche modo già esistente, come se la realtà fosse stata creata
da sempre.
Tale visione della materialità
inonda la prassi umana dell’arte di un valore aggiunto che è quello che
riflette l’adeguazione del contenuto alla forma e non porta a un risultato
costrittivo perché generato in virtù delle causalità. I generi di poesia,
tragedia, commedia e comico permettono di ricondurre la primitività delle forme
di produzione artistica alla poiesi: l’attività è un fare che adegua la forma
alla realtà, nel suo insieme specifico, come contributo alla sostanza. La
visione della scuola pitagorica, della continuità del discreto e
dell’assiomatica, permette di contrastare l’idea di un’unità del tempo e dello
spazio attribuita all’opera d’arte e nello specifico alla poesia. Le strutture
logiche corrispondono alla generazione di due direzioni diverse nella poesia:
una sociale e un’altra percettiva o sensoriale, legata alla tecnica. Barnouw
(2002) parla di adeguazione delle forme logiche alla forma significativa della
poesia. In questo senso la dimensione della proposizione come segmento di
cinesica, di formazione del movimento temporale dell’azione è da scegliere come
dominio della forma linguistica. I livelli considerati da Aristotele sono due:
il livello alto è costituito dall’epica e dalla tragedia, il livello basso è
nel giambo e nella commedia.
La tragedia prende le mosse da
un principio d'improvvisazione, così come è accaduto nella poesia: in entrambi
i casi si parte da una predisposizione naturale, testimoniata dal fatto che
all’inizio la poesia era satiresca e ballabile e si adoperava il tetrametro, e
venne sostituita poi dal parlato, con il giambo. Ricorrendo alla suddivisione
platonica tra poesia drammatica e diegematica, più dotata di mimeticità è la
drammatica, per il fatto che un elemento importante per l’individuazione della
forma poetica genuina è la catarsi, il processo che rende katharos, puro. Una
simile risoluzione della forma tragica rispetto al pubblico o al lettore, non
può prescindere dalle fila di situazioni permesse dell’elemento di aggregazione
della parola sulla gestualità. La catarsi non è quindi soltanto una struttura
logica che agisce come elemento di liberazione dello spettatore o del lettore,
ma è anche e soprattutto lo schema logico, poetico, strutturale della mimesi.
L’imitazione della poesia non è quindi strutturata come se fosse una forma
della significazione qualsiasi, ma è invece una gerarchia di sostanza fatta
forma. Al di là dell’immaginazione, la fantasia è una realtà della logica
comune di realizzazione delle dimensioni storiche. La retorica, per esempio, è
individuata non soltanto come campo d’azione della miscela di simboli e segni
propri della lingua, ma è una sistematicità da scoprire e ricavare come le
pareti di una casa senza porte e priva di ogni tridimensionalità, ma non per
questo senza volume. Gli strumenti lessicali propri della poesia sono esotismi,
enigmi e barbarismi che operano al di là della metafora o attraverso essa. Per
quanto riguarda la ricezione (aisthesis), ossia l’effetto dell’esecuzione
tragica sul pubblico, essa è giudicata esterna all’arte poetica ma
necessariamente contigua, tale che anche il poeta se ne deve preoccupare.
Aristotele spesso contrappone l’arte dell’attore a quella del poeta, del quale
manca una trattazione specifica nella Poetica. Gli strumenti usati sono il ritmo, le parole e le note. Si
considerano poetiche anche le attività strumentali e la danza. Il verisimile
(eikos) è inquadrato nella categoria dell’universale (katholou) che è propria
dell’esercizio cognitivo. Parlare di una predicazione ontologica permette di
capire in che senso i segni non sono soltanto suggestivi, ma sono empiricamente
necessari.
La forma della dimostrazione
nelle logiche della poesia non ha un fondamento epistemologico. Tuttavia se la
poesia è un punto di contatto o una zona di mediazione dal concetto muto alla
forma proposizionale, il suo essere un luogo di significazione è come una tacca
dell’unità di misura delle logiche possibili. In questo modo ha senso pensare a
un luogo della poiesi, nel senso di un luogo logico come limite atemporale
della cognizione umana. Anche se non si può pensare, malgrado Aristotele lo
affermi, che esista una realtà priva di segni, almeno nel senso in cui non può
esistere una finzione artistica senza una forma di schematizzazione del senso,
la circolarità della significazione ha la sua nidificazione in una struttura
causale, simile a una cordata, in cui ciascun elemento è dipendente dal
precedente.
Il punto da affrontare in tal
senso è: fino a che livello di formazione logica si è capaci di attenersi al
discorso complesso, nei termini aristotelici, ossia a un discorso che sia
basato su sillogismi e su trame d’azione che non siano paralogismi, discorsi
fallaci? La poesia in sé può arrecare vantaggi nella selezione delle azioni o
delle attività di predicazione, di enunciazione del parlato? In tal senso entrano
a far parte dell’indagine di questo lavoro le emozioni e la complessità della
significazione scritta e parlata, come una necessità inferenziale e di schemi
pratici. Il senso delineato da Aristotele di una differenza forte esistente tra
l’oratore o il retore e il poeta permette di formulare una domanda seria sulla
distintività delle logiche della poesia. In che misura la realtà della
figurabilità interseca la poesia? Esiste una verità logica di relazioni
necessarie tra la sensorialità delle predicazioni e la verità della
discorsività sillogistica? Gli esempi che apporta Aristotele, dell’Odissea e dell’Iliade come due esemplificazioni della consequenzialità rappresentazionale,
nel campo dell’epica, sono rapportabili alla pratica analogica dalle funzioni
descrittive a quelle antistoriche della poiesi.
L’imitazione, non di fatti, ma
di azioni, è un primo senso che all’interno della diegesi del racconto permette
di creare una gerarchia di livelli che non sia soltanto una descrizione di
fatti ma soprattutto di potenzialità degli accadimenti. In effetti, parlare di
potenzialità permette di rapportare alla poesia anche potenzialità di pensiero
nella specificità della realizzazione delle possibilità di modellare, come si
fa con l’argilla, le caratteristiche dei personaggi. La ricognizione sulla
quale si basa la nozione di riconoscimento della tragedia è da considerare come
un meccanismo linguistico oltre che cognitivo, basato sulle logiche della
definizione oltre che su quelle dell’immaginazione. Per il fatto che non è uno
schema fissato per strutture a priori, ma è una forma di sistematicità
dell’arte poetica, il riconoscimento permette di attribuire alla mimesi una
normatività anche di tipo linguistico.
La differenza tra la poesia
come movimento degli universali e la storia come particolarizzazione di alcuni
momenti della vita sociale è un elemento costitutivo della funzionalità
specifica della poiesi. Come è stato rilevato dai critici contemporanei e dagli
studi di Aristotele, la Poetica è
esemplare su due livelli: l’ordine del discorso e la sua qualità[23].
Le attività poetiche sono tutte forme di mimesi; in quanto attività mimetica la
poesia ha un proprio fondamento naturale e ha due proprietà: insegna e diletta.
Il piacere è, infatti, un elemento caratteristico dei lavori di produzione
della poiesi: nella tragedia, per esempio, la natura della linguisticità che fa
della forma un piacere mimetico e non un piacere innaturale, sembra essere
rapportabile alla giustificazione che la dimensione logica apporta al dominio
della sensorialità. Nelle forme celebrative in cui la forma del discorso è una
fattualità concretizzata in riti, per esempio, la parola fa del movimento
causale delle sillabe e delle unità minime di significato un effettivo richiamo
alla memoria e alla tradizione. Il riscontro sociale è evidente e fa della
convenzione una simbolicità diffusa: la degenerazione sensibile causa il
riconoscimento dell’errore. Non così nelle poesie che sono scritte per il
diletto o per il sistema di riferimento non strettamente formale o assoggettato
alla visione barocca in cui l’elemento sintagmatico diventa pura forma. Le
forme di analogia non sono soltanto legate alla poesia come suono in sé, in cui
l’analogia è vista nell’aspetto della forma della materia, come un suono
“significante” di assonanza e di allofonia. Pensare a una forma di poiesi che
raccolga e escluda contemporaneamente le arti gestuali nella dimensione della
logicità schematica della poesia, permette di riabbracciare la visione
aristotelica come in un possibile lavoro di azione del metro, delle rime, negli
strumenti della logica della parola in uso.
Le categorie come forma
d'intellegibilità delle arti sono alla portata della logica della poesia, di
quella specifica funzione schematica dell’arte che è la forma poetica.
Categorizzare non significa quindi fare della poesia uno schema da applicare
alla realtà logica comune ma, al contrario, ridefinire la centralità della
funzione logica astorica o privata della contingenza che invece attiene alle
altre forme di linguisticità. In tal senso la natura della lingua non è più
unica, esistente come dato di per sé, ma è un principio di realizzazione della
significazione che in Aristotele diventa una possibilità di funzionalità della
forma logica. A esclusione di ogni struttura definita della lingua in uso, la
poesia distingue la fattualità della memoria come azione già passata alla
giudicabilità della lingua, come legge significativa della realizzazione di un
significato o di simboli. La simbolicità non presenta una dipendenza dalla
lingua. Questo è lo scarto che permette di avvicinare la funzione linguistica
alla realtà poetica senza una riflessione generica che lo stesso schema
linguistico standard realizza e rende evidente.
L’attività poetica non è
soltanto pressione della forma logica sul contenuto che si forma nell’attività
di scambio frenetico dei segni linguistici: la formula della quadrangolarità
dello spostamento dialettico dell’analogon non è sintetizzabile in semplici
suoni adornati di forma. Un elemento fondamentale della tragedia è il racconto
o mythos, considerato come la connessione degli avvenimenti. Riassumendo le
caratteristiche di cui abbiamo parlato, importante è il riconoscimento
(anagnorisis), elemento costitutivo del racconto complesso, insieme al
rovesciamento e al pathos. Negli Analitici Secondi Aristotele tratta della dimostrazione e della
conoscenza dimostrativa come di un modo per fare progressi nella conoscenza
scientifica[24].
I punti principali toccati sono due: il primo è come costruire una definizione
e il secondo riguarda quali proposizioni cercare come premesse di una
dimostrazione. Quest’ultimo elemento costituisce lo scopo teoretico della
conoscenza scientifica, mentre il punto di partenza è una domanda specifica,
ossia quale sia l’esatto significato delle espressioni “dimostrazione” e
“conoscenza dimostrativa”. L’altra domanda alla quale Aristotele vuole
rispondere è quella che riguarda la natura della proposizione, ossia in che
termini si predispongono le diverse tipologie di proposizione dimostrativa e
dialettica. L’episteme o conoscenza dimostrativa è contrapposta alle verità non
dimostrate o assiomi: l’arché o punto di partenza è un principio primo. I
teoremi sono dimostrati attraverso sillogismi, le premesse dei quali sono gli
assiomi: la dimostrazione è un sillogismo che procura peculiarmente la
conoscenza dimostrativa. A differenza della conoscenza accidentale o sofistica
la conoscenza dimostrativa è quell’afferrare la ragione per la quale la cosa è,
la ragione di quella cosa. Aristotele cerca di spiegare la conoscenza
delineandone diversi paradigmi: la definizione si lega alla conoscenza precisa
e importante per capirla è la deduzione che permette di arrivare
all’universalità, mentre l’induzione non è sufficiente per capire
l’universalità.
Il linguaggio, nella Poetica, invece, è la composizione dei versi, mentre il
racconto è la composizione dei fatti, i caratteri sono la qualità di chi agisce
e il pensiero è tutto ciò che permette di dimostrare qualcosa parlando, ossia
attraverso cui si esprime un giudizio. In questo senso è attendibile
approcciare la poetica come fondativa per spiegare le logiche della poesia.
Sull’impossibilità della realizzazione di forme logiche che non possono far
parte della logica comune c’è da discutere. Di fatto ci sono motivi che
regolano la lingua come dimensione della coscienza normativa: nelle linee di
unione tra gesto poetico e verbo, azione pratica e arte. Un esempio è la
nozione di pathos. Esso è non soltanto un modello di vicissitudini delle realtà
simboliche, ma è parte della circostanzialità della lingua come filo conduttore
delle emozioni. L’evento traumatico che porta alla vittoria la nozione di una
mimesi come luogo delle circostanze nelle quali prende forma la relazione è un
risultato del racconto, ma anche uno spazio di certezza dell’azione poetica.
Non soltanto, quindi, i fatti sono, rispetto al racconto, da considerarsi come
scontro, rivalsa. L’azione della logica mimetica è una forma di
comportamentismo, ritrovandosi sia nella logica del personaggio e nella realtà
della dimensione che nella relazione e nelle logiche sottese.
In questo lavoro cercherò di
ripercorrere i modi in cui la riflessione sul linguaggio hanno permesso di
riaccordare le manifestazioni sensoriali e percettive alla logica che muove
ciascun discorso poetico. Si tratta di un approccio che Saussure e Hjelmslev
hanno, nei termini che andrò a mostrare, in qualche modo considerato come
approdo di una ricerca sul linguaggio che abbraccia la logica delle realtà
cognitive e l’area cultuale delle forme scritte, nell’aura delle tradizioni
conservate nella figurabilità della poiesi. Alla luce della prospettiva
hjelmsleviana si può compiere una riconsiderazione delle forme logiche come
relazioni tra le funzioni della poesia nella lingua. La nozione di lingua
apparirà come semplice attribuzione di un campo di significazione, in una
riconsiderazione della frammentarietà delle scienze che fanno delle risorse
poetiche non solo un luogo di applicabilità della retorica ma soprattutto della
creatività e delle creazioni fantastiche; laddove vi è la comprensione delle
peculiarità degli schemi logici le emozioni non sono sorrette necessariamente
dalla parola, ma ne costituiscono un’unità. La poesia non è uno scarto
linguistico, ma agisce come campo semiotico specifico della figurabilità della
comunicazione verbale. Se consideriamo il contesto sintattico e semantico che
Hjelmslev adopera per spiegare la stratificazione del linguaggio in piani che
si diramano in base al tipo di rapporto esistente tra sostanza, materia e forma
linguistica, possiamo ricostruire anche la funzione della lingua poetica
superando l’impasse che spesso relega la poesia a ruota di scorta della
significazione linguistica, o come a un senso “latente”. In altre parole non
possiamo difendere alla lettera la suddivisione hjelmsleviana se non teniamo
conto che la struttura linguistica non è sufficiente da sola a dare senso alle
forme di mutabilità delle sensazioni linguistiche.
La poesia non è una semplice
forma di retorica, come già Aristotele ha preannunciato, ma è una dimensione
della forma logica, diventando essa stessa difforme rispetto alla semplicità
del discorso diretto. Nella trattazione saussuriana emergono le divergenze tra
storia e leggenda e contemporaneamente la radicazione religiosa che, come
sottolineano i germanisti, occupa ampi spazi nella mitologia degli studi
germanici. Molinari (1980) evidenzia che la divinità Odino è la più venerata
nella religione germanica delle origini: Mercurio incarna l’eccitazione
provocata dall’arte poetica. Il piacere del testo poetico non è, come afferma
Barthes (1973), in itinere nell’azione della relazione tra lettore e
enunciazione, ma è una forma di logica della mimesi, organizzata secondo
criteri formali che trovano il loro modello nel modello biologico – naturale:
le condizioni di verità non cadono esclusivamente sul dominio del vero e del
falso, ma del verisimile. L’informatività della lingua poetica non è legata
alla logica formale nel senso classico, referenziale. Aristotele sottolinea che
non sono le accentuazioni, gli elementi prosodici, a caratterizzare la forma
poetica. A essere pertinenti al discorso poetico sono quegli elementi che il
lettore o lo spettatore possono cogliere come indicativi perché coerenti
rispetto a una credenza, a un modo di vivere, a una certezza di verisimiglianza
propria di una ricerca e non mossi da semplici circostanze. La condizione di
verità assoluta non riguarda le logiche della poesia, anche se l’aspetto della
forma poetica non può essere soltanto una circostanzialità della materialità
fono-articolatoria. A sostegno di questa tesi Saussure e Hjelmslev hanno in
qualche modo reso implicito il funzionamento delle forme logiche. I due
concetti intorno ai quali l’ipotesi sulla base creazionistica della poesia
diventa un gioco di funzionalità e di rimandi alla percezione sensibile del
testo sono quello di mathesis come forma logica della concettualità e di
sensorialità emozionale. Affiancando la musica come sostanza formale
dell’esperienza poetica e la gestualità come piacere efficace, fermare in poche
assiomatiche le ipotesi sulla scrittura come testo da unire alla forma segnica
permetterebbe di decifrare quali enigmi privano la coscienza sensibile della
capacità di negare gli errori logici che permeano i campi d’investigazione
delle altre scienze.
Aristotele con la sua lezione
intende mostrare la relazione tra mimesi, segno e simbolo: nella sua
interpretazione il segno non è un elemento atomico, come la lettera
dell’alfabeto rispetto alle parole, ma è un principio attivo nella dinamica
mimetica. Attraverso la poesia si costituiscono particolari tipi di
significato, legando i diversi registri linguistici alla verisimiglianza e a
pratiche di localizzazione della significazione. Nella Poetica è evidente che non si tratta di differenziare il
modo di produzione delle tecniche: la differenza tra lo storico e il poeta non
è equivalente all’uso della prosa rispetto a quello del verso, bensì è relativo
al tipo di contenuto. Mentre lo storico deve raccontare i fatti reali, il poeta
espone i fatti che possono avvenire, nella loro generalità. La mimesi opera in
questo senso: il vero, essendo un generale, può essere dato attraverso la
poesia che ha una struttura tale da adeguare alle variabili presenti, come per
esempio eventi e personaggi, alle possibilità che sono pertinenti, credibili,
necessarie. Necessità e verisimiglianza camminano insieme per formare il vero,
ossia ciò che diventa pensabile attraverso l’opera poetica. La mimesi per
Aristotele è comunque basata su una sorta di istinto naturale dell’essere
umano. Il suo funzionamento è in due direzioni: in quella della comprensione,
poiché produce conoscenza e in quello della sensorialità o delle emozioni, in
virtù dell’effetto piacevole che avvicina alla catarsi. In tal senso la distinzione
formulata da Aristotele, non insistendo su una qualità superiore delle tecniche
di un’arte rispetto a un’altra ma al più distinguendo le modalità di attuazione
della prassi mimetica, accentua l’idea di una natura simbolica della poesia e
della sua organicità sensibile.
L’attività simbolica è
costitutiva dell’esperienza umana: essa fa parte della natura logica della
significazione. Un primo elemento che testimonia tale punto di vista è il fatto
che il significato è basato sull’articolazione della voce. Lo Piparo (2003) fa
notare che l’articolazione vocale, ossia la modalità di articolazione del
linguaggio, è la differenza sostanziale esistente tra la voce degli esseri
umani e la voce degli altri animali. Effettivamente, anche se non è totalmente
esplicitato da Aristotele, si tratta della stessa differenza che esiste tra la
disposizione naturale dei segnali degli animali non umani e la tecnica propria
del simbolo. La catarsi in qualche modo doma le irrazionalità e porta
all’intelletto l’azione edificata nella prassi artistica.
Al di sopra della natura, vi è
l’anima intellettiva che fa dell’organo della voce umana uno strumento
specifico del linguaggio: un modo di vedere la narratività come una
discorsività meno convenzionale potrebbe essere quello dell’intenzionalità del
simbolo rispetto a un particolare modo di formularne la definizione. La
questione spesso dibattuta è quella sulla distinzione tra segno e simbolo in
Aristotele attraverso il tema dell’intenzionalità. Il simbolo, nella tradizione
post-aristotelica, è visto come rinvio naturale e intenzionale. Alcune
posizioni hanno mantenuto la lettura più diffusa: il segno è un rimando di
qualcosa a qualcos’altro (aliquid stat pro aliquo), differenziando il segno dal
simbolo attraverso l’intenzionalità[25].
Il segno non intenzionale porterebbe alla semiotica che gli è propria
attraverso un rinvio naturale tra due elementi, come, per esempio, un suono
d’allarme che una scimmia dà ai membri della sua stessa specie. Le
caratteristiche del simbolo di realtà non inerte, di nozione metalinguistica e
di forma introduttiva della contrarietà e della somiglianza sembrano
caratterizzare gli stati precedenti la lingua. Rispetto a questo problema
possiamo capire in che senso per Aristotele vi sia un’anima intellegibile che permette
la mimesi. Ciò avviene attraverso la sequenza lineare specifica della voce e
attraverso l’articolazione.
La concettualità originaria che
si attualizza prima della realizzazione linguistica, trova una traccia
importante nella problematica che riguarda il nome[26].
Nei capitoli XXI e XXII della Poetica
Aristotele compie una vera e propria personificazione dei generi delle parole
come simboli: parla di un genere naturale dei nomi, come se non ci fosse che
una natura propria di ogni forma esistente e la natura si fosse consolidata,
composta, come un abito perfettamente tagliato rispetto all’essere umano.
«Genere
naturale dei nomi: Delle parole considerate in sé, alcuni sono maschi, altre
femmine, altre intermedie[27].»
Secondo Aristotele la parola
umana è formata da stoicheia, mentre l’onoma, la designazione, permette di arrivare al simbolo.
Considerando che non è possibile che si dia un’unica definizione di due cose,
coerentemente al sistema aristotelico, nome, segno e simbolo sono tre aspetti
distinti e non sono sinonimi. Effettivamente, sono tre elementi diversi che
permettono di creare altre forme: il verbo, per esempio, è costituito
dall’universo della designazione e dal tempo. La realtà del nome è uno degli
elementi del linguaggio che nella Poetica è sentito come realtà eterogenea: distinta in cinque tipi principali,
il nome è designazione ma è anche parola, distinta anch’essa in quattro diverse
tipologie. In primo luogo l’onoma è la parola distinta dal verbo: essa andrà a
costituire insieme a quest’ultimo il logos. Il nome è un sostantivo e una
parola di diverse specie: usuale, semplice o composta rispetto alla morfologia
o alla semantica. Un esempio è il nome di persona nella poesia, nella commedia
e nella tragedia. Per il fatto che non si tratta di distinzioni nette, la vera
caratteristica sostanziale del nome è la designazione: ma poiché circoscrive un
vero che non è una verità fattuale, simile a quella della storia, esso agisce
per mezzo di metafore. Il movimento sensibile necessario per far vedere qualcosa
è il ricorso a un nome di altro tipo nella definizione aristotelica,
trasferibile, per esempio, in modo analogico. Vi è una gerarchia delle parole:
la dominante è quella parola usata da tutti, la glossa è più ricercata, la
metafora agisce attraverso lo spostamento e infine vi è il belletto, la parola
costruita dal poeta per sé nelle sue opere.
A questo punto c’è da
domandarsi quale sia il valore logico della mimesi. La sintesi logica dei nomi
e dei verbi, privata di congiunzioni, è il logos[28].
La definizione di logos nella Poetica è
quella di “voce composita espressiva, fra i cui elementi ce ne sono alcuni che
hanno un significato per sé stessi”[29].
Per il fatto che l’indipendenza delle parti che compongono il discorso è data
dai verbi e dai nomi, non ci sono altre parti del discorso con tale autonomia:
le congiunzioni possono essere escluse da tale definizione, così come possono
esserlo nell’esempio aristotelico della definizione di uomo come di “animale
terrestre bipede”[30].
In tal senso Aristotele sembra volersi riferire proprio alla poesia che concede
al verso di essere privo di congiunzioni, come accade per il logos. La
designazione, anche se è una convenzione, vive nella poesia: la naturalità di
questa rispetto all’artificiosità della retorica porta a concludere che non ci
sia una forma più naturale di discorso. La poesia è quella forma di tecnica
designativa che è un legame tra parole, ossia nomi e verbi. La definizione di
logos è quella esplicitata come composto di parole significanti unite in una sintesi
logica, in cui l’azione o il nome e la definizione del nome ossia il verbo,
permettono la costituzione dell’oggetto. Possiamo pensare alla poesia nel senso
di logos come valore di rappresentazione che non sia soltanto di ordine
linguistico, ma che appaia come rapporto tra due elementi diversi: il rapporto
proporzionale è l’esempio pratico di collegamento tra gli elementi di una
stessa specie in rapporti matematici.
Zanatta (1997) evidenzia che la
poesia è mimesi nella corrispondenza delle cause prime. Per Aristotele vi sono
quattro sensi di cause: la prima è la causa che potremmo chiamare materiale,
ossia la materia di cui sono fatte le cose, come per esempio il bronzo è la
causa della statua; un secondo senso è quello della forma e del modello, ossia
l’essenza e i suoi generi; il terzo senso è il principio primo del mutamento o
del riposo; il quarto senso di causa è il fine, lo scopo delle cose. Secondo la
Metafisica, in effetti, ci sono molte
cause dello stesso oggetto. L’arte è sapienza poiché permette di conoscere le
cause delle azioni: insieme al ragionamento differenzia gli uomini dagli
animali non umani. La causa prima è il principio primo come, per esempio, lo è
il padre per il figlio[31].
Effettivamente la poesia è una delle forme di mimesi, anche se non è sottinteso
che se le cause sono le stesse anche la forma risultante lo sia[32].
Il capovolgimento dell’ordine nella configurazione della struttura causale e
ontologica del senso aristotelico riporta anche i rapporti di significazione
alla base biologica dell’essere umano. In altri termini possiamo pensare che la
mimesi sia una funzione della capacità umana e che riconoscere un’azione come
somigliante a un’altra sia una proprietà indipendente dalla poiesi. Il fatto
che la mimesi si manifesti in diverse arti, quali, per esempio, la poesia, la
musica e il teatro è il risultato di almeno due fattori: l’uso dei segni vocali
e la simbolizzazione. In tal senso la capacità di riconoscere somiglianze va
legata alla possibilità di elaborarne le immagini attraverso i simboli e
renderli quindi componibili e continuamente riformulabili. L’imitazione
astratta attraverso gli schemata è come
una forma di cognitività onnivora, intrisa di possibilità diverse di attuazione
attraverso i segni. Pensare all’immagine visiva come all’attuazione di una
forma di schema, per esempio, permette di interpretare il modello di un dipinto
paesaggista, anche se l’esistenza del dipinto non è necessariamente legata alla
capacità di ricognizione visiva. L’oggetto come produzione artistica di fatto
ha lo stesso valore laddove è creato da un’azione d’imitazione volontaria della
realtà. Esemplificativo sarebbe, per esempio, il fatto che uno stesso paesaggio
può essere riprodotto in modo diverso e conservare le stesse caratteristiche
essenziali, ossia essere riconosciuto come un luogo preciso anche se riprodotto
con diversi stili.
Le cause principali della
mimesi sono legate al fatto che tutti gli uomini hanno la tendenza connaturata
a imitare e in particolare a imitare attraverso il linguaggio, l’armonia e il
ritmo. Tali caratteristiche riguardano tutte le altre arti, non solo la poesia.
Ciò che caratterizza la mimesi, al di là della capacità di simulare situazioni
già state presenti, come è comune a molte specie animali, è il fatto che esiste
una fattualità intenzionale delle somiglianze. Aristotele afferma che la mimesi
è una condizione necessaria della poetica: ciò non vuol dire che poesia e
mimesi siano la stessa cosa[33].
Un modo di rapportare la semiosi alla mimesi sarebbe quello che lo stesso Aristotele
suggerisce nella differenza tra schemata e energia: quest’ultima è connaturata
alla materia dinamica e preannuncia il cambiamento, mentre lo schema è una
forma di percezione attiva, prodotto dell’azione della cognitività. Un esempio
di schema d’azione è l’Odissea: una
forma di astrazione in un momento preciso della drammaturgia crea una figura
atta a circoscrivere un modo di vedere le relazioni del racconto. Il nodo e lo
scioglimento sono due punti essenziali esemplificativi dell’astrazione progettuale
propria della natura schematica che la poetica sostiene. L’idea di logos, come
di un collegamento di griglie relazionali da riempire di oggetti, di raccolta,
collezione permette di capire in che senso il discorso sia quasi per
definizione poetico, capace di essere modificato nei livelli sempre più
raffinati di articolazione. Un esempio dell’idea di perfettibilità della lingua
è l’idea di metafora che da parola meno comune, così come è classificata nella Poetica, diventa parola di uso comune nella Retorica: tutti gli uomini discutono con metafore[34].
Anche nell’Organon la metafora è
considerata al di fuori della definibilità, mentre sarebbe necessario
discutervi[35].
L’idea di perfezionamento è legata anche a un’idea generale del legame tra le
forme di astrazione e la gestualità, i segni esteriori che i personaggi
trasportano. Anche se si trovano su due piani strutturali diversi, il racconto
complesso e la lingua di uso comune sono equivalenti sul piano del risultato
formale di appropriazione linguistica: in un certo senso il poeta che si occupa
di una realtà specifica realizza un modello che sospende la mutabilità delle
forme usuali, ma le riannoda alla figurabilità che ha luogo nella narrazione.
L’epica omerica presenta quelle strutture che per Aristotele oggettivizzano le
forme di realizzazione delle altre opere teatrali[36].
Gli schemi come struttura non sono quindi modelli precostituiti, come matrici
già risolte. Le forme dell’arte poetica sono costituite dall’oggetto e dal
modo: non sono come semplici vetrine per esporre concetti già costituiti ma
possibilità relazionali di svolgimento dell’azione e quindi possibilità di
ricostituire una linearità che agisca su diversi livelli cognitivi e
esperenziali.
L’anima senziente degli umani,
separata dal corpo, sarebbe l’intellezione anche priva di schemi, l’energia che
rende naturale l’articolazione della voce: i grammata stoicheia sono strumenti della significazione, malleabili
soltanto attraverso le lingue e i simboli verbali. Sarà anche Hjelmslev a
affermare che come una stessa manciata di sabbia può assumere forme diverse,
così la stessa materia può essere formata o strutturata diversamente in lingue
diverse. Mentre è un fatto condiviso che la significazione sia costituita da
unità discrete, con proprietà determinate, formali e materiali, la mimesi come
attività dell’anima senziente contraddistingue un campo d’azione specifico
dell’animale umano. La naturalità delle lingue non sarebbe fondata, in tal
senso, sulla naturalità della semiosi che è diversa nelle specie differenti, ma
sulla funzione della mimesi.
Aristotele afferma che l’arte è
lo stato di eccellenza del conoscere e della verità nel campo del produrre e le
scienze poietiche consistono in questo. L’arte è l’abito accompagnato da
ragionamento (logos) vero che dirige il produrre[37].
Il verisimile che fa della logica un abito poetico permette di produrre tutte
quelle forme narrative che costituiscono la relazione tra la forma del discorso
diretto e la mimeticità delle azioni drammatiche e diegematiche. Un esempio
molto diffuso è quello della metafora: essa possiede chiarezza. Gli altri
elementi della sua azione nel discorso sono la piacevolezza e l’esoticità,
nonché il fatto che non si possono apprendere i suoi modi di funzionamento e il
suo uso nel discorso dall’uso fatto dagli altri. A partire dall’azione
dell’analogia le metafore appaiono nel discorso retorico come forma enigmatica
e possiedono la particolarità dell’esser frutto di una ricerca profonda nel
linguaggio. Le metafore devono essere ricavate da ciò che è bello per suono,
per effetto, per efficacia visiva o per qualche altra impressione[38].
A dividere il discorso in generi è quanto meno la divergenza nelle designazioni
e non tanto nella pratica della lingua poetica. Il carattere e la posizione
della simbolicità di ciascuna opera è la proporzione relativa al soggetto
descritto e mostrato, nonché l’esprimere emozioni adeguate alla situazione in
modo credibile. La caratteristica principale è il rispetto del destinatario:
l’anima dell’ascoltatore deve provare la stessa emozione dell’oratore, deve
essere copartecipe del suo stato d’animo. Quello che è da dimostrare è che tale
modificazione avvenga anche derivando le caratteristiche del discorso poetico
da quello comune e da quello retorico. In molti casi Aristotele evidenzia il
carattere della finzione del poeta: essa è legata alla spinta energetica che è
prodotta dalla piacevolezza. La gradevolezza pertiene alla completezza della
poesia. Nella Retorica è evidenziato
come tutti desiderano avere chiara la conclusione, come un corridore che non
sente la stanchezza perché ha in vista il traguardo. Il discorso messo in
discussione da Aristotele è quello definito “compatto”, ossia che ha in se
stesso una conclusione. Per questo motivo è molto più facile ricordare una poesia
che non un discorso in prosa[39].
I versi hanno, nel loro farsi, il numero: il periodo è numerato, misurabile,
compiuto. L’elaborazione del verso vista come una sorta di successione
matematica è fondamentale e corrisponde alla compiutezza dell’opera, privandola
della continuità che distoglierebbe lo sguardo dalla completezza e dalla
composizione della poesia.
Pensare alla verosimiglianza
come a una fonte didascalica di formazione può aiutare a comprendere la visione
della poeticità come arte produttiva, artefatto sempre rinnovabile dalla
cultura di riferimento, strumento linguistico. Dal punto di vista della
formazione, infatti, tutto ciò che è imitato bene diventa piacevole e
istruttivo. Non tanto, afferma Aristotele nella Retorica, in virtù dell’oggetto imitato: esso può non essere
piacevole di per sé. A provocare ammirazione, a educare piacevolmente è la
deduzione che l’artefatto corrisponda a un oggetto: l’imitazione è analoga
all’istruzione e dà lo stesso effetto, ossia provoca il piacere dell’intelletto
o dell’anima senziente. Il distacco dall’oggetto, la possibilità offerta dalla
poesia, dal disegno, così come dalla scultura e dal teatro come piacere
intellettivo, permette di abbracciare la posizione aristotelica che vede nella
fantasia il legame con la natura deduttiva della mimesi. In tal senso le forme
logiche che sottendono alla natura convenzionale della significazione e alla
natura sensibile dell’emozionalità che ne sorregge la creazione in artefatti
diventano simboli; ne segue, quindi, non soltanto la convenzionalità come
riconoscimento della separazione dell’elemento imitato, ma come derivazione e
processo di astrazione irripetibile: tale irreversibilità dovrebbe essere la
divergenza sostanziale tra simbolo artistico e simbolo linguistico. Esemplificativa
a tal riguardo è l’interrelazione di ritmo e danza nella poesia: secondo
Aristotele il ritmo è come naturale per gli uomini, istintuale. Dal ritmo
naturale degli esseri umani sarebbe sorta la poesia: una matematica dell’anima,
ovvero una matematica universale che prende forma nella produzione artistica.
Allo stesso modo la danza è vista come una forma di narratività.
L’imitazione è connaturata agli
uomini fin dalla fanciullezza[40].
Riprodurre immagini che siano il più fedele possibile alla realtà visiva, per
esempio, permette di imparare qualcosa dalle opere d’arte. Donini (2008)
definisce l’imitare come un’operazione raffinata di selezione e ricomposizione
interpretativa di aspetti del reale[41].
Quello che le immagini rappresentano è ciò su cui si può discutere: il piano
della rappresentazione è quindi separato da quello che permette l’imitazione e
si differenzia anche dallo schema delle cose imitate. La caratteristica
istintiva dell’imitazione è legata alla conoscenza e al piacere che questa ne deriva.
In tal senso non possiamo pensare alla mimesi come alla pura imitazione: essa
agisce sempre per mezzo di operazioni cognitive complesse che riguardano
l’oggetto artistico, mentre l’imitazione di per sé è naturale, connaturata
all’essere umano[42].
Per il fatto che essa non è uno schema puramente biologico di azione sul mondo,
la mimesi non è pura astrazione. La complessità risiede nella possibilità di
dinamiche interpretative che riguardano l’arte come mezzo di conoscenza, nelle
forme della poesia, della musica, del teatro e della danza. Per il fatto che si
perde il riferimento naturale o biologico, reinterpretare il reale tramite
l’oggetto artistico significa differenziare la sintesi dell’imitazione naturale
dalla sintesi figurativa delle logiche del verisimile. La logica del verisimile
è una pratica combinatoria che si esplica su due piani: il piano della
struttura narrativa che comprende il racconto ovvero il modo per attivarla e il
piano della possibilità, dato che la struttura narrativa è potenzialmente vera.
La copresenza dei due piani
nella rappresentazione scenica potenzia la forma d’azione gestuale che riduce
la sintesi figurativa alle dimensioni della voce e del gesto. Il movimento
della forza esterna come un interpretante logico che si rafforza nel suo essere
immagine della realtà rappresentata è come una simbiosi che si crea tra lavoro
simbolico e narratività. La presenza di personaggi non corrispondenti del tutto
alla realtà, come Medusa, sono la testimonianza della capacità di estensione
della fantasia a partire dalle forme immaginate. Le immagini, nella teoria
aristotelica, sono corrispondenze, in parte referenziali, alla realtà segnica e
naturale. L’aspetto fisiologico è una prima forma di intenzionalità della
materia, come per supplire il salto che esiste tra la materia inorganica e
quella organica. Nella costituzione della realtà l’inerzia non è soltanto
fisica, relazionata alle costanti dell’universo, come la forma degli elementi o
la forza di gravità: l’impulso della fame negli animali non umani, il desiderio
di quello che non può esistere come nelle rappresentazioni tragiche in cui il
fine ultimo è il raggiungimento del bene, sono due forme di movimento che
Aristotele porta a un unicum attraverso la costituzione di due regni, quello
dell’arte e quello delle scienze.
Nel momento in cui l’illusione
epatica avvolge la scena della poetica, lo scarto tra la realtà e l’arte si
compie nel pathos e nel raggiungimento, attraverso il rovesciamento, della
risoluzione: prima dell’uccisione l’arrivo di una lettera salvifica segna il
rovesciamento della storia, oppure il riconoscimento improvviso della rotta da
seguire. Negli Analitici Primi il logos
assume la forma del sillogismo inteso come una forma di parole: la prima
definizione che abbiamo considerato nella Poetica assume i caratteri della dimostrazione. Tale
caratteristica è considerata parte della sostanza del discorso e così è
spiegata la referenzialità delle teorie puramente logiche. La visione della
sostanza come di un processo permette di riconsiderare la nozione di essenza:
la materia entra nel procedimento graduale della costituzione del contenuto
attraverso la costituzione della forma.
«In
conclusione, per quanto riguarda l’impossibile, lo si deve introdurre in
rapporto all’efficacia poetica, o alla rappresentazione del meglio, o
all’opinione generale. In rapporto alla poesia, infatti, è preferibile un
impossibile che sia credibile piuttosto che l’incredibile[43].»
L’introduzione della necessità
logica per Aristotele non coincide con una logica linguistica. Harris (2007)
rileva che la questione è sollevata nel De Interpretatione in stretta connessione con la relazione tra i
simboli da un lato e le affezioni dell’anima dall’altro. A essere evidente è
che esistono immagini dirette degli eventi attuali, percepiti da ogni essere
umano[44].
Le condizioni che sottendono ciascun essere sono tali per necessità, e non per
un’attribuzione esterna di tali caratteristiche. L’impostazione di una
referenzialità al mondo è tale da dare anche agli assiomi sillogistici una
natura necessaria, tale da poter essere di un peso superiore a qualsiasi forma
di psicologismo[45].
Più forte della credenza di un certo stato di cose è la realtà stessa,
indivisibile dalla percezione dell’essere umano.
La conoscenza degli universali che
è propria dell’arte è strettamente connessa al sapere e all’intendere. È
importante capire che l’arte come conoscenza è la causa e la ragione della
conoscenza: le azioni e le produzioni sono invece connesse al particolare e
creano l’esperienza. Il dato di fatto, da un lato, quello dell’esperienza e
quindi dell’induzione, le ragioni e il sapere, la conoscenza delle cause
dall’altro lato, quello dell’arte, permettono di capire come in Aristotele
l’arte produce un regno di senso molto più vicino alla filosofia che alla
storia. La potenzialità che risiede in ogni oggetto artistico è tale da
ritrovare nella sua stessa esistenza un’universalità: è possibile ciò che è
vero, o che può esserlo e anche ciò che non è necessariamente falso.
La sostanza linguistica è
intrisa di fenomeni non linguistici, come nel caso delle metafore e delle
analogie nelle quali il linguaggio si aggancia alla realtà. L’esempio classico
sarebbe quello che vede nella teoria degli insiemi un modo per collegare i
concetti alla realtà sensibile. Nella visione di Cassirer il concetto non si
oppone in alcun caso alle forme naturali: come vediamo nel concetto di albero i
diversi tipi esistenti astratti e sintetizzati come in uno schema ricco di
possibili differenze, così gli insiemi matematici vogliono essere logicamente
ricchi di possibilità: un quadrilatero non è soltanto un insieme di linee, ma
racchiude diverse proprietà e possibilità immaginabili a partire dalla natura
delle cose. Per esempio, a partire dalla forma di una montagna possiamo pensare
a un trapezio e da questo immaginare superfici sempre più complesse, ma simili,
come un pentagono, un ottagono, fino al chiliagono e a figure fantastiche ma
che conservino le stesse proprietà della forma data nella natura fisica. I
concetti che Aristotele cerca di stabilire sono quelli della scienza naturale,
sia descrittiva che classificatoria[46].
All’interno del dibattito moderno, a cominciare da Cassirer, un punto
importante di superamento della teoria aristotelica, spesso considerata
asistemica, è la delineazione delle categorie logiche che hanno permesso di
sostituire la terminologia aristotelica con il vocabolario tecnico. Alla “cosa”
è stato sostituito, in relazione al punto di vista adottato, un vocabolario
specifico che, modificando l’approccio generico, ha permesso di raffinare le
scienze del linguaggio. Un esempio di classificazione che a partire
dall’intuizione dello spazio permette di arrivare a comprendere forme
strutturate di spazio è la geometria euclidea a tre dimensioni; a essere messo
in pratica è il principio di ordinamento in serie che da intuizione diventa
modo sistematico di appropriazione dello spazio[47].
La funzione permette di astrarre le caratteristiche comuni a diversi enti del
mondo e di porli in relazione tra di loro per mezzo della proprietà che hanno
in comune. Si tratta di un procedimento completamente concettuale che realizza
la conoscenza per gradi degli oggetti esperiti, superando la teoria induttiva e
permettendo la deduzione sulla base della conoscenza percettiva, come unione di
esperienza e di logica.
L’astrazione può essere
condizione della forma linguistica: la componente dell’immaginazione sostiene
la proporzionalità tra le parti del discorso di uso comune come proprietà,
contraddistinguendo la forma poetica. A essere messa in gioco è la questione
della verisimiglianza che si allinea a quella della definizione delle variabili
divergenti del linguaggio poetico inteso come elemento da collegare, attraverso
il logos, alla lingua di uso comune. Differenziando le caratteristiche che
portano la funzione della scrittura alla funzione della mimesi possiamo cercare
di capire come funziona la mimesi, come accade che un’opera d’arte entri in
contatto con la natura umana e la trasformi. Un primo modo di formulare la
definizione di mimesi è quella che vede negare la contingenza della realtà: la
persona che si reca a uno spettacolo, che si pone di fronte a un oggetto
artistico, rinuncia a qualche altra attività. L’atto di collegare alla propria
vita un elemento artificiale e allontanarsi dalla prassi quotidiana è il primo
passo che avvicina alla mimesi, anche se il processo di attuazione riguarda
l’azione artistica: la mimetizzazione si attua di fronte all’opera. Immaginare
che il personaggio che è sulla scena, per esempio, sia in alcune parti simile a
una persona nel carattere, nelle azioni e riconoscere che potrebbe essere una
persona realmente parte del gioco della vita è un primo elemento di formazione
mimetica. L’atto dell’immaginazione è fondamento del legame esistente tra l’opera
e il pubblico. Nella definizione stessa dei livelli alti e bassi dell’opera
d’arte si evince tale rilevanza: in entrambi i casi si sintetizzano
caratteristiche di uomini e si concentrano in uno stesso nucleo di azioni,
ossia si fanno realizzare da uno stesso personaggio. Per il fatto che non
esiste nel mondo una persona esattamente riprodotta dal personaggio tragico,
esso risulta sempre portatore di nuovi significati: pone davanti agli occhi
potenzialità celate ovvero esperite dal pubblico nella vita quotidiana, oppure
immagini di mondi possibili. I due aspetti, di ricognizione delle somiglianze e
di trasposizione dal realmente possibile sull’immaginario, sono elementi che la
Poetica pone in rilievo laddove
posiziona il tratto antipsicologico delle forme poetiche tra le possibilità che
l’oggettivizzazione porta alla luce attraverso l’arte[48].
Il fatto che per Aristotele la realizzazione dell’opera d’arte ha
un’indipendenza dall’artista e ha un valore di per sé implica che essa ha un
valore semiotico oltre che mimetico, anche se per arrivare alla mimesi, nella
teoria aristotelica, non è necessaria alcuna interpretazione. La mimesi
effettivamente non progetta un punto di vista che sia esterno all’azione
poetica, ma lo crea nell’impatto con l’opera. In altri termini la natura stessa
dell’uomo è rassomigliante a quella delle opere che potenzialmente può portare
alla luce. Non si tratta di una mancanza, per così dire, malinconica, al
contrario, a essere sempre presente nella verisimiglianza è il rapporto
emozionale che è irriducibile alla semplice pressione di un impatto senza
relazione, come si potrebbe avere in uno stato di costrizione. Nell’arte non
c’è alcun obbligo: la libertà è data dalla natura pratica e non aprioristica
delle regole che muovono le parole di un’opera poetica, di una pièce o di una
rappresentazione pittorica.
Il veicolo originario della
trattazione aristotelica è la natura sempre perfezionabile dell’umanità. La
connessione tra la vita sociale e il progetto poetico è tale da mantenere la
positività dell’opera d’arte: essa è compresa nella generazione della forma
artistica e non oltrepassa la linea che unisce il poeta all’attuazione
poliforme di senso, come è richiesta dalla vita etica e pluridimensionale della
città. La natura pratica e la natura poetica nella visione aristotelica sono
inerenti a un unico funzionamento della socialità. La catarsi che permette il
confronto tra vita reale e vita purificata dall’arte è un processo che
Aristotele affianca alla direzione della mimesi. In un certo senso la mimesi
per essere tale deve realizzare la catarsi, il bene che può essere raggiunto
anche attraverso emozioni negative, di un’azione che attraversa fasi che non
hanno un rapporto di causalità con la conclusione. La natura della lingua
poetica non è quindi diversa da quella di una qualsiasi altra opera d’arte: è
la sua intimità con la necessità di simbolizzare dell’uomo e di nessuna altra
specie che la rende superiore a ogni circostanza, se pur complessa,
dell’organizzazione sociale. Per il fatto che l’arte poetica non è emulazione
della vita reale, ma al contrario parte integrante della formazione del
cittadino, l’intervento della tragedia storica non intacca l’apparato di
elaborazione delle strutture poetiche. Per il fatto che le strutture non sono
apparati sterili da riempire attraverso contenuti storici esterni
all’intuizione del poeta e neanche alla connessione con la creatività, la
peculiarità della poesia pertiene l’elaborazione di una tecnica che cresce e si
perfeziona in base al grado di libertà del poeta e della società nella quale si
sviluppa.
Nel primo capitolo di questo
lavoro affronterò il problema della metafora come utilizzo delle
diagrammaticità proprie della forma poetica. La definizione aristotelica di
diagramma come traccia in movimento, traccia significativa, permette di capire
come la relazione tra struttura e significato che costituisce il gramma sia la
base di selezione della possibilità di funzione linguistica diagrammatica.
Prenderò le mosse dalla negatività linguistica intesa come forma di materia
costituita dalla poesia come lingua. Accettando l’ipotesi della continuità
della sostanza segnica, in ciascuna forma del mondo sensibile, la lingua
poetica assume la stratificazione del linguaggio e seleziona alcuni aspetti
delle gradualità significative. La tendenza simbolista, nei termini assunti da
Hjelmslev, affina la ricerca della dimensione indeterminata della lingua. Nella
riflessione hjelmsleviana decisiva è la coabitazione di simboli e diagrammi,
cinetica dei testi poetici e forma finita del linguaggio nel caso specifico
della lingua poetica. La figurabilità del linguaggio poetico è tale da
rivalutare alcune sostanze frazionate delle lingue verbali: a partire dalla
forma emotiva per arrivare alla forma esperenziale, la materia del contenuto
diviene materia delle formazioni generali, ossia dà forma agli universali
linguistici.
Il secondo capitolo è dedicato
alla questione della poesia come fonte di veridicità e non di verità storica.
In un certo senso, come Aristotele assume fondativo, la forma di
verisimiglianza determina la certezza della sintesi passiva attribuibile al
testo poetico. Accettando la necessità di superare l’induzione come metodo di
approccio alla prima necessità che la lingua poetica determina, la forma
deduttiva diventa un modo di essere della realtà, una forma di ontologia del
senso. La nozione di lingua poetica oscilla dall’idea di fonte naturale del
linguaggio all’artefatto vero e proprio. La percezione da parte del parlante di
quegli aspetti sistemici come i neologismi permette di affermare che le forme
d’azione logica sono inclini a essere riconosciute come regolarizzazioni della
lingua sia affatto dinamica, sia dominio della forma poetica. A essere
necessario è un appello alla natura logica dell’imprinting modale della poesia.
Nel terzo capitolo vorrei che
fosse esplicitata la relazione della forma originaria della poeticità, come
lineamento del profilo logico della lingua in generale, rispetto alla nozione
di lingua poetica nella complessità logica della forma satura di senso: la
funzione duplice che Saussure attribuisce alla lingua e al linguaggio trova
attributi di verisimiglianza nella potenzialità mutevole della poiesi. A dare
una forma determinante della gerarchia delle significazioni sarà non soltanto
la forma espressiva diretta, ma soprattutto la sintonia esistente nella natura
della logica visiva che la lingua ascrive nella genealogia delle predicazioni.
La metafora visuale non è quindi soltanto una forma immaginativa della
disgregazione tra forma e contenuto, materia e sostanza fonica, ma si realizza
come genere specifico attraverso la simbiosi delle variabili in gioco che
caratterizzano la comunicazione poetica.
In conclusione, i piani del
linguaggio, così come sono presentati da Hjelmslev, non corrispondono a
formazioni determinate della lingua, ma permettono di distribuire la
narratività della lingua poetica sull’intero processo di causalità del
significato. L’impatto che una figura retorica ha sulla normatività linguistica
potrebbe essere riassunto con la similitudine dell’impatto visivo che ha un
dipinto rispetto all’interconnessione tra scrittura e significato. Tuttavia, lo
stesso tipo di riconoscimento che esiste nella logica della poesia potrebbe
essere soltanto un tassello di un discorso che gli autori considerati hanno
iniziato a percorrere e a delineare. Come la ricerca di unità minime di
significazione non pretende di trovare uno stesso tipo di unità che sia
condivisibile per la forma scritta e la forma parlata, allo stesso modo parlare
di morfematicità della scrittura poetica e di morfologia della lingua potrebbe
portare a indagare le ragioni della sinestesia tra il pensiero matematico e
quello linguistico, dell’arte diagrammatica e delle forme di interazione
espresse nel pensiero poetico.
1. Metafora e logiche
poetiche
Logica
e estetica possono essere considerate come due facce della stessa medaglia,
soprattutto se rapportare alla poesia e alle logiche che la sottendono come
lingua. Aristotele sottolinea come nella struttura della poesia la metafora è
lo strumento complesso per eccellenza di quel sillogismo inteso soltanto in
generale seguendo la definizione di Aristotele degli Analitici Primi, come forma di parole, come rapporto logico
proporzionale e analogico che si presenta davanti agli occhi e nasconde una
parte complementare, il senso immaginato.
Si
tratta di pensare come si crei attraverso la forma logica della metafora una
zona intermedia tra il metodo induttivo e quello deduttivo. La struttura logica
della poesia è una zona franca per il fatto che è il luogo dell’emozionalità
verbale attraverso la quale si compie la trasformazione del dato in fatto
linguistico potenzialmente polimorfo e pluriprospettico. La Poetica di Aristotele nel Rinascimento è considerata come
base di una enciclopedia, al pari di un formulario di riferimento. La fantasia
del poeta è simile a quella del retore, ma mantiene il legame con l’eikos, la
natura propria delle cose che Tagliabue riporta nell’analisi di Muratori
rispetto alla questione dell’artificio e dell’artificiale[49].
Se consideriamo il punto di vista di Hjelmslev che vede il testo come una
funzione di funzioni la modellizzazione nella poesia è diversa dalle lingue
verbali e si rivela come adeguata e esauriente nella funzionalità che le
pertiene. La suddivisione in sostanza, materia e forma e la coimplicazione di
ciascuna nell’altra come sua forma predicativa attraverso i diversi livelli e i
piani di manifestazione dei sensi e del significato permea la suddivisione in
forme del discorso.
La
sostanza che è la materia formata aristotelicamente è per Hjelmslev uno
schematismo retorico che come tale è la lingua nelle sue forme dell’espressione
e rispetto a un contenuto, sulla scia della suddivisione e della
diversificazione di Saussure tra la materia della linguistica e la forma della
lingua. Negli studi sugli anagrammi di Saussure la struttura della lingua
diventa un modo di manifestarsi della simbolicità inespressa dalla forma
esplicita delle leggi linguistiche. In un certo senso l’idea di normatività
permette di arrivare a una manipolazione della lingua poetica attraverso gli
strumenti della logica. L’idea di De Mauro della dissociazione segnica permette
di ripensare alla testualità lirica sulla base appunto di una dissociazione che
è esplicita nelle forme tropiche come la metafora. Ipotizziamo l’esistenza di
una lingua speciale, una serie sistematica di avvenimenti linguistici che
permetta di eseguire melodie che oltrepassino la serialità e il silenzio
verbale della musica. In altre parole, una lingua che voglia vivere
nell’esecuzione dei parlanti ma che sia precorritrice dei linguaggi e non
corrisponda né si identifichi con le singole esecuzioni. La lingua poetica si
candida a essere definita attraverso quei segni di differenziazione
linguistica, segni di formazioni idiosincroniche che spoglino il silenzio e lo
facciano risplendere di ritmi, versi, rime e soprattutto di una logica che sia
base per ciascun tipo di lingua permeata dai segni di cui è costituita.
Nella
linguistica saussuriana il lavoro linguistico nasce e si radica nelle leggende
germaniche, con una forma di lingua che è poetica e che interseca la fermezza
della poesia attraverso il mito. Questo tipo di relazione è molto complessa e
interessante da analizzare[50].
Con Hjelmslev la realtà poetica subisce alcuni cambiamenti rispetto alla lingua
comune. Nella Categoria dei casi l’uso
dello stile poetico pone dei limiti di variazione rispetto ai casi generalmente
più ampi dell’uso ordinario o neutro. Sulla base dei Principi di
grammatica generale, lavoro che sorregge il
pensiero del linguista danese e preordina la logica della visione del sistema
casuale, un’altra domanda che possiamo porre è quella relativa a una possibile
categoria dei casi o di alcuni casi specifici della lingua poetica. Seguendo
l’ipotesi hjelmsleviana di una grammatica riformulabile e modificabile, la
lingua poetica sarebbe un possibile caso che andrebbe a completare
quell’optimum ipotizzato a partire dalla teoria di Wundt della costante di un
minimum del numero dei casi in tutte le lingue. La logica matematica che
sorregge alcuni comportamenti morfemici dei casi mette in guardia rispetto alla
realtà semantica delle lingue e probabilmente anche del linguaggio. L’esempio
del genitivo dell’inglese moderno permette di scandire i tempi della realtà
intensiva del significato.
«L’uso dello stile poetico pone dei limiti di
variazione generalmente più ampi dell’uso ordinario o neutro[51].»
La
glossematica potrebbe essere considerata una sorta di scienza del linguaggio
generale, formando la lingua poetica, nei modi che considereremo. Attraverso
gli esempi che Hjelmslev espone fin dai Principi di grammatica generale l’idea di una matematica delle strutture
linguistiche soggiace fortemente al linguaggio e al modo di formulare le
ipotesi di distribuzione del valore e del significato, dell’estensione e
dell’intensione. L’uso della lingua comune è legato ai sincretismi casuali non
permessi nell’uso elevato, in base all’ampiezza del sistema[52].
La logica dello stile poetico non è al di fuori del sistema sublogico
tridimensionale, costituito da una direzione in base alla formazione di un
sistema di avvicinamento e di allontanamento, di coerenza e incoerenza, di
oggettività e soggettività.
Giungere
alle lingue come grammatiche significa quindi fare un percorso che va dal
sistema sublogico al principio strutturale, fino al piano prelogico. Esistono
delle vere e proprie cellule di direzione che permettono di individuare i
morfemi e le particelle che costituiscono le espressioni[53].
Altri tipi di unità minime possono costituire il differenziale minimo di
significato, ossia il valore. Il valore espresso è la forma linguistica e porta
Hjelmslev a concludere che qualunque idea può essere espressa in qualunque
lingua, ma non in qualsiasi sistema[54].
Come vedremo nel prossimo paragrafo, quando Saussure inizia a delineare i
limiti tra la linguistica e le scienze a essa connesse, la psicologia appare
tra i fattori esterni all’oggetto del linguaggio. Hjelmslev riattraversa la
negazione dell’estraneità con una direzione lievemente divergente. Creando
ancora la diade tra oggettivo e soggettivo, formulata da Saussure rispetto alla
diagnosi scientifica dello studio delle lingue, propone la formula
dell’induzione e dell’empiria linguistica basandosi sulla poesia lirica. Effettivamente,
la nozione di approccio diretto ovvero induttivo è presente già in Saussure
nello studio sulle leggende. La semiologia linguistica della quale è intriso
anche il Corso di linguistica generale,
permette di delineare i fatti del linguaggio come subcoscienti e, se supportati
dal piano prelogico, di arrivare a rendere l’emozione come un’espressione del
pensiero fino alla coscienza del soggetto parlante. In questo aspetto entrambi
gli autori sembrano trovarsi d’accordo, malgrado le divergenze introdotte da
Hjelmslev. Psicologia e linguistica sono orientati a individuare e analizzare
due oggetti diversi, spesso contrapposti, per non essere confusi, ossia la
soggettività e l’oggettività del linguaggio. Ripercorriamo alcuni dei primi
concetti che Hjelmslev accoglie rispetto alla linguistica saussuriana, in
particolare nella ricostruzione dei diversi contributi che da Saussure hanno
portato il linguista danese a formalizzare la grammatica come scienza. In tal
senso è possibile capire come insieme alla linguistica la grammatica sia da
fondamento per la logica della poesia.
Nei
Principi di grammatica generale
Hjelmslev inquadra la grammatica come una branca della psicologia e della
logica descrittiva, ovvero come una teoria delle categorie, preannunciando il
lavoro della Categoria dei casi
fino a toccare alcuni concetti dell’ultimo lavoro ovvero del Resumé. Le categorie sono costituite dagli elementi
grammaticali, ossia i semantemi e i morfemi che, in base alle caratteristiche
specifiche che andremo a considerare, creano quella scienza pancronica
auspicata da Saussure nella linguistica e ripercorsa da Hjelmslev. Nella teoria
della forma la morfologia e la sintassi diventano un unicum, sostanzialmente,
per il fatto che la funzione determina la forma.
«La maggior parte delle distinzioni della stilistica
appartiene all’uso: un determinato semantema può essere utilizzato come
iperbole, metafora o perifrasi, senza che esso cambi di funzione grammaticale.
L’uso non riguarda la forma, ma rientra nel quadro del significato[55].»
La nozione che
permette di arrivare alla formulazione della forma come classificazione dei
morfemi e dei semantemi o, in altre parole, di idee o simboli all’interno di
certe categorie dalla nostra mente è quella di rection. Essa è il parametro che permane nel passaggio
dall’empiria pura alla deduttività. La rection è la transitività ossia l’insieme sistematico dei
tratti morfologici che indicano un rapporto stretto tra i termini di una stessa
serie. Esistono due tipi di rection,
una pura e una complessa, la prima manifesta un accordo o una concordanza che a
sua volta può essere pura o complessa, come nel caso dei sostantivi che hanno
una dipendenza da elementi preponderanti nella frase; la seconda mostra invece
un ordine o una dipendenza, un carattere particolare come quello di un verbo o
di una preposizione[56].
L’indipendenza della forma dalla sostanza linguistica permette di raggiungere
in pochi passi la fecondità della ricerca nel campo della morfologia e quindi
di trovare nella semantica la composizione della matematica della lingua o
glossematica. Inoltre, l’opposizione a Jakobson da parte del linguista danese
sulle nozioni di termini marcati e non marcati e la proposta di parlare di
intensione e estensione permette di riaprire una parentesi sulla nozione di
simbolo e sulla rete di categorie che preannunciano quel movimento sistemico
alla base del tema che ci preme analizzare.
1.1.0. Lingua poetica come lingua emozionale
Le azioni
narrative che la logica poetica comprende possono essere considerati modelli di
verità delle differenze tra generi di discorso e mettono in luce l’insieme dei
fatti linguistici e delle possibilità nella cronologia dell’azione. La
simbolicità, vista come una tendenza del contesto simbolico, abbandona la
tripartizione dell’azione in un inizio, un mezzo e una fine e si incarna nelle
figure retoriche come le metafore e le metonimie. In effetti, i tecnicismi che
mettono in relazione, per esempio, le rime, le assonanze e i paragoni hanno un
valore che fa dell’iconicità della struttura più semplice del linguaggio una
funzione vera e propria. Nella lingua chinook analizzata da Hjelmslev i
semantemi si raggruppano in categorie secondo le diverse sensazioni.
«La struttura dei fonemi di semantemi è determinata
dal bisogno di imitare vocalmente tutti i tipi di impressioni sensibili. I
semantemi sono costituiti o sono accompagnati da gesti vocali descrittivi che
abbozzano oppure esprimono, così come il gesto delle mani, l’atto o l’oggetto
in questione. Vi sono così delle imitazioni o riproduzioni vocali per i suoni,
per gli odori, per i gusti, per le impressioni tattili, per il colori, la
pienezza, il grado, il dolore, il benessere[57].»
In
opposizione al convenzionalismo di Whitney che Hjelmslev definisce uno dei
maggiori avversari dell’idea di una connessione tra idea e parola, Jespersen
mette in campo la costante mentale dell’abitudine alla parola per fissare come
punto di partenza imprescindibile l’arbitrarietà[58].
Come ha analizzato Garroni, il tipo di studio che Jakobson ha essenzialmente
riportato alla luce si basa su una caratterizzazione precisa finalizzata alla
riproduzione di un sistema esplicativo. Tale sistema si evince nell’idea della
metafora, vista come esempio di ordine del sistema e di serie metaforica come
paradigma sintagmatizzato: una categoria che assimila la selezione alla
contiguità[59].
Un uso metaforico di una qualsiasi parte del discorso è un semantema non
imitativo al contrario dell’onomatopea che si realizza per espressività,
potremmo dire, ossia per esprimere qualcosa che esiste soltanto come
controparte di ciò che si mostra con la parola stessa nell’accezione
tradizionale. La teoria della forma è una teoria che considera il significato
come corrispondente all’uso del soggetto parlante e questo aspetto dell’atteggiamento
della glossematica spiega anche la necessità di una preferenza per una nozione
meno drastica della distinzione tra le categorie.
Nella
definizione dell’arbitrarietà emerge l’avversione per la continuità: la visione
di una continuità come precorritrice del senso della lingua manipolata dai
soggetti parlanti è un’illusione, per il fatto che essa è, al contrario, un
luogo di annullamento della libertà, un campo di selezione, una
cristallizzazione: ritroviamo questo aspetto nella caratterizzazione di figure
retoriche come la metonimia[60].
L’idea che fa dell’uso la norma ricalca la nozione stessa di grammatica
generale che Hjelmslev porta alla luce, nell’applicazione alle lingue e
soprattutto portando a esempio quelle in cui non è ancora sviluppato un sistema
di scrittura. I grafematemi alla base dello sviluppo delle lingue poetiche sono
tassemi, veri e propri tasselli della derivazione gerarchico-funzionale ma
anche arbitraria delle morfologie.
1.1.1. Metaforicità tra psicologia e poesia
La problematicità
che si mette in campo nella soggettività contrasta la forma oggettiva del mito
e in un senso che vedremo più avanti anche dell’archetipo. Nel mito troviamo la
forma compiuta nella ciclicità che incessante e liberatoria allontana e rende
inscindibili inizio e fine: nella poesia come in un romanzo postmoderno, si
tratta di considerare il contesto come disambiguante. Per esempio, se leggiamo
la frase “In dieci minuti il chirurgo guarisce dalla miopia” possiamo chiederci
se il chirurgo è colui che compie l’azione o se invece la subisce, se ne è
l’oggetto. Il fatto che sia scritto in un romanzo, in una poesia o su un
quotidiano è determinante per comprendere la pertinenza a una delle tre
possibilità.
«Come
la poesia lirica, la psicologia diretta conserva sempre l’impronta della
soggettività[61].»
L’idea della
soggettività della psicologia è sostenuta da Saussure nel Corso di
linguistica generale. La soggettività di
una forma idiosincronica è simile a quella che un testo scritto manipola nella
sua esteriorità. Tale rapporto tra forma e testualità segna l’interdipendenza
tra il movimento testuale e l’oggetto stesso della linguistica. La questione
che pone Hjelmslev sulla grammatica come esteriorità della semantica intesa
come significato è rapportabile non soltanto allo stile della scrittura ma
anche e principalmente all’ipotesi di unità organizzate come un organismo[62].
Spazio e tempo sono privati dell’eventualità della parola quando ci ritroviamo
nello spazio logico dei cenemi gestuali, per esempio, dove le emozionalità del
linguaggio diventano plurivocità di intenzioni della forma linguistica[63].
Applicare una speciale dinamicità alla lingua poetica all’interno di una
psicologia della forma permette di riconsiderare anche le nozioni gestaltiche
nella pluridimensionalità dell’intenzione così come è presentata da Brentano[64].
La nozione di intenzionalità, formalizzata dal pragmatismo fin da William
James, è legata non tanto a una interpretazione delle azioni e quindi dei segni
che la compongono, quanto a una proattività che rende l’azione progettata
soltanto una sutura finale. Nel quadro di un’estetica fenomenologica si
parlerebbe di quella forma particolare dei significati che si realizza come
appercezione, ovvero come determinazione preannunciata di una forma della percezione.
Alcune realizzazioni simboliche manifestate dalla poesia assumono la forma
linguistica come una pura e semplice immagine mentale. Un esempio è quello dei
gesti strutturali delle lingue segnate dei sordi e dei sordomuti nei quali la
sintatticità è nelle unità gestuali insieme con una grammaticità che permette
di inserire elementi preposizionali, come immagini, non tanto di ciò che si
dice nella corrispondente lingua verbale, italiano scritto e parlato, per
esempio, ma di ciò che si crea come immagine nel senso della lingua dei segni
che si sta parlando[65].
Nelle poesie delle lingue segnate i caratteri morfemici dei grafemi gestuali
ricorrono alla ripetizione di tratti gestuali che richiamano immagini
semi-cristallizzate dei segni linguistici. L’uso diventa stile, quindi,
ciecamente, in un certo senso, ossia allontanandosi dalla logica della lingua
verbale legata all’informatività e aggregando cellule significanti usualmente
legate a altri sensi. Resta quindi da riconsiderare la possibilità di una funzionalità
che non si limita a una semplice gerarchizzazione dei sensi letterari o della
lingua parlata, ma diventando un ripresentarsi della sporadica possibilità data
al soggetto parlante di presentare l’espressione come a un terreno di lancio di
nuove combinazioni semantiche.
1.1.2. La tendenza simbolista e le forme poetiche
La
necessità di un’alterazione dei sensi, come rileva Hjelmslev nella sua
distinzione tra continuità e indeterminatezza, permane negli scritti successivi
ai Principi di grammatica generale. Il
suo tentativo di delineare i confini di una scienza, la glottologia, che della
lingua consideri una grammatica specifica, non quantitativa o matematica in
senso numerico e quindi non sottomessa agli universali della logica classica, è
tangibile laddove c’è una testimonianza di analisi di lingue particolari, non
toccate dalla forma scritta. Gli esempi che abbiamo visto, come quelli della
lingua chinook, permettono di capire come la forma linguistica determini la
direzione di marcia della significazione. In effetti, parlare di riproduzione
vocale non ha senso per la sintatticità: anche le lingue più semplici ossia
estese su un unico livello espressivo, ovvero che si appoggiano sui sistemi
gestuali della prossemica e che quindi accompagnano il discorso, conservano
un’iconicità che eleva l’azione fonica alla logicità dell'ipoicona. A essere
messo in gioco è un simulacro espressivo di atteggiamenti che trovano un
artificio naturale nei suoni emessi per simulare altre azioni comunicative. La
complessità di tali azioni è sostitutiva di una volontà dell’azione verbale che
fa della produttività creativa una scala da formare e attraversare. Nel caso
particolare legato alla logica poetica possiamo esprimere la sistematicità
linguistica su quattro piani differenti: quello del contenuto del contenuto,
del contenuto della forma, della forma del contenuto e della forma della forma.
Per il fatto che l’espressività non ha toccato la forma scritta, il piano
dell’espressione non riguarda la funzione poetica di per sé. In tal senso la
nozione di logica poetica è da considerare fondativa non solo della poesia ma
anche, come già Jakobson mostra, di una permeabilità del linguaggio alla
trasparenza del senso che non ha necessità di un involucro espressivo
ulteriore. Benché la funzione espressiva non sia da attribuire alla
linguisticità artificiale della lingua formalizzata o dei linguaggi matematici,
le rappresentazioni che determinano le divergenze o gli slittamenti di senso
decostruiscono la gerarchia funzionale nella possibilità della lingua di
fermare in segni le azioni. Hjelmslev ripropone spesso, soprattutto nei lavori
giovanili, il suo scetticismo per le generalizzazioni imposte dalle
matematiche.
Per
poter considerare il linguaggio come un caso particolare di un sistema
semiotico, non è necessario guardare a quell’insieme di linguaggi che sono
privi di sostanza, come nel caso di matematiche tipologiche, malgrado la forma
sia da fulcro dell’azione. Questo paradosso spesso non permette di comprendere
la nozione di forma che va a eludere la determinazione di una simbolicità in
progressione. In effetti, l’abbandono del metodo induttivo
porta a scegliere la virtualità dell’immagine grammaticale.
La
funzione semiologica che permette di riunire il piano del contenuto e il piano
dell’espressione è una relazione. Hjelmslev precisa che le relazioni sono tali
in virtù della coesistenza dei due piani e non dell’alternatività. Nelle lingue
verbali l’accento è un esempio di rection,
ossia di direzione dell’unità
ideale selezionata. Per il fatto che la glossematica stessa è un’ipotesi di
formazione e di funzionalità della struttura linguistica, nell’introdurre le
nozioni che fanno della glossematica una scienza, la linguistica assume una
posizione di supporto alla nuova teoria. Se consideriamo gli sviluppi
contemporanei delle applicazioni della teoria hjelmsleviana alla grammatica e
alla semiologia notiamo che, effettivamente, si sintomatizza la suddivisione
tra la facoltà di parola e la strutturabilità di essa, soprattutto negli studi strutturalistici.
Un primo grande campo di ricerca riformula la nozione di scrittura come di una
semiosi indistruttibile e quindi più facilmente analizzabile[66].
Un’istanza di distinguibilità tra la realtà mediatica e la sostanza è
rappresentata dalla categoria della forma: la forma come rapporto astratto con
l’indefinibile, come una sorta di modello mentale, la sostanza come materia
formata, o come token, realizzazione concreta, percettiva[67].
Sarà con l’introduzione delle variabili dell’arbitrarietà che Hjelmslev
richiama la sospensione della demarcazione netta tra le categorie e, come
conseguenza ovvia, tra i livelli della stratificazione linguistica. A proposito
di un articolo del 1923 di Johannes Hjelmslev, il padre del linguista,
riguardante un caso di indeterminatezza e di introduzione del livello
probabilistico, esprime la riluttanza alla formulazione di una definizione
rigida di forma nella glossematica. A essere negata è la formula assiomatica,
propria delle matematiche.
Per
il fatto che la rection è un modo di
realizzazione della tendenza alla simbolicità, la decisione del matematico di
inserire la nozione di possibilità di realizzazione e non di semplice
realizzazione concreta della materia geometrizzabile mette in luce il fulcro
della questione: la logica binaria del sì o no opprime la realtà della
percezione e insieme a questa preclude la possibilità della verità della teoria
del visibile. La logica che non considera l’insieme come una sorta di contesto
e che non concretizza la geometria della forma in teorie o in simboli è priva
di interesse per il matematico. Non si tratta soltanto di accettare il
referenzialismo, come quello fregeano, ma di un vero e proprio generativismo
della nozione stessa di arbitrarietà. Gli assiomi devono poter essere arbitrari, allo stesso modo in cui noi con il
linguaggio naturale diciamo “a presto” a un amico, pensando non soltanto di
volere un nuovo incontro, ma anche di poter realizzare quell’evento in qualche modo indefinito
ma che sappiamo possibile all’interno di un insieme di possibilità razionali.
1.1.3. Metafora e
tendenza alla phronesis
La
disambiguazione della sostanza letteraria permette di pensare all’espressione
poetica come al metasprog, al metalinguaggio hjelmsleviano. Il ricorrere alla
forma sensibile della metafora ricongiunge la compiutezza del testo alle figura
del discorso poetico. La poiesi è una vera e propria praxis, un fare che è
un’attività, come esperire l’energeia che è un tutt’uno con la vita. Il pathos
che è quel meccanismo destrutturante del gioco tragico diventa la maschera
dell’opera d’arte rispetto alla vita. In tal senso la phronesis, la saggezza, è
il nucleo dell’eudiamonia, la felicità che comporta comunque necessariamente il
fallibilismo, l’errore. I quattro requisiti della tragedia, ossia il valore,
l’appropriatezza, la somiglianza e la coerenza sono riformulabili come forma
iniziale o causa prima della figurabilità: le metafore, oltre a essere
somiglianze di somiglianze, sono anche la forma maggiormente fruibile del
linguaggio poetico, giocando contemporaneamente sui piani del contenuto e della
forma espressiva.
«E proprio in virtù delle sue maggiori
qualità sensibili: piacere, movimento, concentrazione temporale, visibilità dei
fatti che imita[68].»
Il
riconoscimento poetico non è una semplice forma intuitiva, bensì un rimandare
il senso alla causa prima dell’oggetto mimetico, costituendo il principio della
metafora che muove il tragico. La saggezza risiede quindi nel pensare al
ritorno alla felicità senza allontanare i diversi modi di concepire i
riconoscimenti come forme di giustizia poetica. I cinque modi di presentarsi
del riconoscimento, mediante segni, inventati dal poeta, attraverso il ricordo,
nel sillogismo e dai fatti stessi sono metafore della realtà umana e della
conoscenza. All’interno del racconto non ci sono soltanto i sensi interni tra i
personaggi dell’opera, bensì i continui richiami metaforici a somiglianze che
dalla storia arrivano alla letteratura costituendo un piano metastorico. Se
pensiamo al mito di Edipo, per esempio, come a una ricostruzione della logica
sensibile della crescita umana, capiamo in che senso la letteratura è metafora
vivente[69].
L’ironia tragica di Sofocle è un modello per la letteratura: la concezione
della materia storica diventa un tutt’uno con l’essenza della natura umana. La
necessità di sapere conduce il protagonista alla consapevolezza della sua colpa
e insieme svela al pubblico la sua innocenza. La metafora è in tal senso il
continuum della base regressiva della storia: in nessun caso il mito è al di
fuori dalla costituzione metaforica, ma la sussume e la rende fine della
propria apparenza, immagine trasfigurata dell’epos tragico.
1.2. Relazioni strutturate del linguaggio
All’interno
della visione di una realtà logica che sia precondizione del linguaggio
poetico, come è presentata da Hjelmslev, la natura legislativa della norma non
esclude la possibilità della creazione di forme divergenti. Una delle
caratteristiche comuni alle forme normative della lingua in uso tra i parlanti
e alla forma di pensiero complessa che è una logica, è la struttura vaga e
ambigua. Da tale struttura è possibile ricavare la norma. Nella dimensione
della sostanza dell’espressione, a livello di struttura astratta, ma non a
priori della materia formata, la similitudine tra rection o direzionalità del contenuto e rection della forma permette la riflessione sulle categorie,
come un insieme di regole e di tratti comuni ai diversi livelli attraverso i
quali il linguaggio diventa realtà semiotica. Un pensiero non si assorbe mai completamente
nella pura ripetizione di materiale idiosincronico, ma attraverso l’evoluzione
della gerarchia, da unità a complesso sistemico, diventa copartecipe della
funzione normativa della forma grammaticale.
«Nei due piani della lingua, nel piano del
contenuto come in quello dell’espressione, sono tuttavia presenti forme che
effettivamente si comportano, in linea di principio, in maniera del tutto
analoga rispetto alla materia da esse formata, cioè rispetto al contenuto e
all’espressione[70].»
Si
tratta di operare come se grammatica e lingua fossero due sistemi complessi ma
articolati in maniera tale da non ridursi l’uno all’altro. Ammettere la
deduzione come una forma di razionalità propria del metodo che muove la lingua
come sistema, rende la norma linguistica un correlato della natura autonoma del
significato. Quella che possiamo considerare una costruzione della dimensione
pluriprospettica che il linguaggio assegna alla forma in uso è nella visione
saussuriana il risultato di una sospensione di giudizio rispetto alla relazione
esistente tra il linguaggio e la materia cognitiva.
La
lexis o elocutio, propri dell’espressione, annoverano nel loro essere un piano
dinamico del senso, la corrispondenza complessa con il piano del contenuto, la
dianoia della poiesi[71].
Il lavoro della storia sulla lingua non ha quindi una rilevanza di tipo
grammaticale. La grammatica è una struttura in movimento, mai strutturata una
volta per tutte in ciascuna epoca. Le suddivisioni che sollecitano la duplicità
dei sensi, dal piano dell’espressione a quello del contenuto, non hanno una
forma definitiva, ma un’approssimazione ai livelli di percezione che il
parlante ha della forma in uso. Le nozioni di forma, concetto e espressione,
direzione e rection che condizionano la
definibilità della lingua e delle logiche che muovono i modi di formazione
delle diverse lingue saranno le linee guida principali della glossematica.
«D’altra parte, se l’espressione è priva
di importanza per la definizione dei fatti linguistici, i fatti differenziali
dell’espressione sono indispensabili allorché si tratti di riconoscere ciò che
appartiene alla lingua e ciò che non le appartiene[72].»
Saussure
rileva che la differenza sostanziale tra segnale e segno risiede
nell’impossibilità del secondo di agire come un ente a sé: per quanto il
progetto sistemico ci appaia lontano, la nostra comprensione della realtà è un
rapporto tra segni e significazioni[73].
La materia linguistica che presuppone la capacità dell’essere umano di agire
secondo schemi e funzioni continuamente accessibili, è indipendente dalle
epoche storiche. La conservazione delle tradizioni non è che una dipendenza
stretta con quello che è maggiormente in relazione tra i rapporti glossematici,
della lingua, come tratto di giunzione tra forma naturale e gerarchie
funzionali della significazione.
1.2.0.
La strutturabilità dei sensi e l’indeterminatezza
Come
evidenzia Garroni il principio di indeterminatezza è un rapporto semiotico di
tipo non biunivoco che abbiamo visto come una proprietà dei linguaggi matematici,
di quella matematica che si basa sulla geometria euclidea e che, in qualche
modo, influenzò gli studi hjelmsleviani[74].
Un principio basilare della linguistica saussuriana è quello dell’arbitrarietà
che si trova non soltanto nel linguaggio verbale ma in una certa porzione di
universo semiotico e, come afferma il linguista danese, non in un universale
semantico, ma in una forma limitata di significazione. Parlare di sensibilità
percettiva o di sensibilità estetica non significa quindi abbandonare la logica
del senso comune, di quella passività che l’uomo come segno gestisce come
individualità. Tuttavia la nozione di vaghezza deve ricoprire uno spazio
noumenico maggiormente esteso di quella sensibilità percettiva che si esplica
nella fenomenologia.
L’aprioricità
o l’essere a priori della forma segnica non ha quindi a che fare con quella
deduzione che si impone sia alla glossematica come scienza che alla forma come
modo di realizzazione in cenemi e pleremi, in morfemi e in sillabe, fino alle
parole e alla categoriazzazione dei casi. In effetti, l’esperienza non è uno
dei movimenti essenziali neanche se ci si pone dal punto di vista del primo
Hjelmslev, quello che nei Principi di grammatica generale parla di via induttiva come strada maestra
dell’indagine sulle logiche della lingua. L’indagine induttiva prende le mosse
da una discrepanza nella grammatica che segue la sincronia come metodo di
analisi, senza considerare i caratteri pancronici che fanno della diacronia la
giustificazione dei movimenti temporali della forma grammaticale: nella
sostanzialità della nozione di indeterminatezza entra in gioco il paramentro
dell’ambiguità. Considerare l’indeterminatezza come una specie particolare del
genere ambiguità permette di dare anche alla vaghezza non più un valore di
universale reperibile in qualsiasi luogo semiotico, ma di considerare un’altra
specificazione dell’ambiguità generale e determinata. Si tratta
dell’indeterminatezza delle lingue e non del linguaggio che, essendo un
universale, si formula come un meccanismo ambiguo di determinazione della
significazione.
Se
pensiamo di poter realizzare una sorta di definibilità dell’operazione che la
struttura linguistica nel suo rinnovarsi compie sulla figurabilità della logica
della scrittura, come forma di semiotizzazione del senso, la teoria della
gerarchia assimila alcune determinazioni dal funzionalismo. Si ha
indeterminatezza non soltanto nella lingua poetica come simbolo di una
sostanziale plurivocità dei piani del linguaggio, ma anche superando la duplicità
della forma segnica saussuriana di una doppia faccia del segno. In effetti, si
può parlare, soltanto in questi termini, di un’operazione artistica che fa
della lingua una figura simbolica particolare, l’unica capace di rendere la sua
azione onniformativa. Soltanto un punto di vista che sia pancronico può rendere
alla nozione di schema un valore formale che sia rapportabile alla simbologia
della logica.
1.2.1.
La struttura della logica poetica
La tendenza
simbolica di una standardizzazione delle funzioni vede con Jakobson il
perdurare delle categorie generativiste: come se la lingua avesse in sé,
naturalmente, la capacità di selezione e di completezza dei significati[75]. La peculiarità della funzione poetica
consiste in un radicale ribaltamento della forma linguistica nelle sue funzioni
di apertura del canale comunicativo e di informatizzazione, proiettando il
principio di equivalenza semantica dall’asse della selezione all’asse della
combinazione. La rection,
affondando le funzioni nella ricomposizione delle strutture logiche, è la
funzione omogeneizzante della lingua.
«In un senso nuovo pare dunque utile e necessario
stabilire un punto di vista comune per molte discipline diverse, dallo studio
della letteratura, dell’arte, della musica e della storia in generale, fino
alla logistica e alla matematica […][76].»
Possiamo
domandarci come si delineano nelle forme poetiche la ripetizione e
l’iterabilità nei caratteri e negli schemi dei rapporti sintagmatici e
associativi. Insieme a tale questione si mette in gioco la selezione e la
combinazione che si rendono manifesti nelle realizzazioni della lingua. In cosa
caratterizzano la sostanza e la forma della materia segnica della poesia? Per
arrivare a una delineazione dei materiali utili alla formazione sistematica di logiche
poetiche attraverso la diacronia e a favore della visione pancronica della
linguisticità, il lavoro della poesia è di formare ambiti che
decontestualizzino la gerarchia ordinaria del senso comune. Contemporaneamente,
la funzione sociale della forma linguistica inespressa e taciuta dalla
versificazione compatta e diagrammatica delle forme poetiche deve trovare una
via d’uscita dalla logica formale ordinaria per arrivare a realizzare forme
associative nuove e insite nella fonematicità degli scambi comunicativi
istintivi dei parlanti. Si tratta di una necessità non solo a priori, come
evidenzia Hjelmslev, ma anche durevole nelle logiche formali. A tal riguardo
pensiamo a quanto di inespresso esiste nella forma adattiva delle immagini
figurali che nella poesia agiscono come personaggi storici azionati dalla
macchina del linguaggio. Per analizzare il modo di delineazione delle forme del
linguaggio ordinario gli schemi formali diventano modificabili dall’individuo,
anche se non si tratta di una poesia di per sé e della sua struttura.
Possiamo
pensare all’azione del personaggio come a un insieme di simboli considerati
come schemi. Nella terminologia hjelmsleviana lo schema semiotico è l’insieme
delle funzioni intrinseche nella forma di ciascun piano, ovvero come una forma
pura, definita indipendentemente dalla sua realizzazione sociale. Esso può
essere di due tipi: uno è quello manifestato e l’altro è quello latente. Per il
fatto che la forma stessa sarebbe inattingibile senza la manifestazione dello
schema, l’uso e la norma presuppongono il funzionamento.
«Un dato schema linguistico ha la sua esistenza
teoretica nella sua posizione, definita funzionalmente, all’interno della
catena dei tipi di lingue come possibilità realizzabile sempre presente. Il
fatto che una lingua veda la luce significa perciò che uno schema linguistico
comincia a essere manifestato; il fatto che una lingua muoia significa che uno
schema linguistico cessa di essere manifestato, cioè diviene latente[77].»
Si tratta di uno
stato di eternità che lo schema non condivide con la lingua: lo schema in
generale e anche lo schema linguistico non è soggetto alle leggi biologiche
della nascita e della morte. Il tipo di critica che Saussure compie
all’organicismo può essere spiegato proprio nei termini di un’azione degli
schemi logico-matematici alla lingua. Dal versante opposto le forme di
esplicitazione degli schemi linguistici sono il fulcro della visibilità del
significato[78].
Quella logica poetica che Hjelmslev denomina stile, come se fosse una forma del
contenuto specificamente simbolica, è una denominazione che potrebbe permettere
di teorizzare una noologia del senso legata alla struttura della forma. Alcuni
esempi di questo tipo sono dati nelle suddivisioni in forma del contenuto e
forma dell’espressione, malgrado la ricerca sulla determinazione del ritmo e
del metro non sia direttamente affrontata nella esemplificazione della nozione
di schema come parametro di differenziazione delle categorie. Una assenza dei
tipi di funzionalità linguistica è indice di alcune caratteristiche
dell’espressione che la forma non esprime e che attribuiscono alla rection la generazione della funzione nella frase. Aristotele
attraverso l’analisi e la spiegazione della tragedia mostra come lo schema è
una figurabilità. Per il fatto che il destinatario dell’opera è parte
dell’azione mimetica, il piano della metafora non è racchiuso in uno scrigno
puramente intessuto di logica. La forma del discorso è una forma di vita:
l’essere un ente nel mondo corrisponde alla simbolicità della tendenza
all’eudaimonia, alla fine della regressione all’infanzia, alla dimensione della
rappresentazione.
1.2.2.
Poesia e funzionalità delle lingue
Per una
trattazione delle lingue che facciano della poesia una forma universale di
significatività, a prescindere dalla formazione delle lingua letterarie, il
potenziale delle relazioni è illimitato. Pensiamo alla virtualità grammaticale
delle forme come “sperare” che introducono la funzione del futuro senza
coordinare necessariamente la forma che regge il futuro. Questo tipo di rection che va dalla forma alla funzione è uno degli assiomi
che regge la glossematica. La virtualità che regge la forma grammaticale, dove
per grammatica intediamo compreso il sentimento linguistico che il parlante
inscrive nella grammatica, non sempre è completamente cristallizzato in radici,
desinenze, prefissi e suffissi. Tuttavia, come afferma Hjelmslev, la nozione di
grammatica deve ricoprire anche le nozioni in negativo, non mostrate della
forma dell’espressione, ma radicate nell’esperienza del soggetto parlante. Come
sostiene Saussure, il divorzio metaforico attuato tra la temporalità priva di
soggettività e il dominio del sincronico giunge a un ponte di connettività con
la materia formata della lingua soltanto attraverso le forme meno progettate,
ancora simboliche, in particolare nel caso delle Leggende germaniche.
«La chronique en elle même est
aussi une forme di folk-lore et peut-être la premier à considerer avec la
légende. La légende n’est crée que par les adaptations poétiques[79].»
L’idea di una
cronistoria che sia un valore della lingua permette di ripensare alle nozioni
benjaminiane di poesia privata e poesia politica, nell’idea che la semplice
descrizione degli eventi che la storia come cronaca mostra sia in realtà un
modello letterario[80].
La nozione che ricorre come anticipazione del senso delle leggende è quella di
astratto, di astrazione che, come vedremo, rivaluta la tensione dell’apriori,
della natura trascendentale del senso logico. Lavorare alla diffusione della
lingua è la missione della poesia e la logica che la realizza non è una logica
privata, ma che si avvale della privatezza dell’individuo semiologico, nella
sua prospettiva agnostica e per così dire, innata. Quello che evidenziano gli
studi sulla filosofia della logica poetica è quindi non tanto l’innovazione che
la lingua poetica compie, quanto la negazione del nuovo, la privazione della
linguisticizzazione spontanea che invece si radica, per ossimoro, nella
periodizzazione delle cronache e dei commenti letterari epici.
1.2.3.
Livelli di sistematicità tra struttura, schemi e funzioni
La tripartizione
in forma, materia e espressione che Hjelmslev compie per spiegare come si
sviluppa la struttura linguistica permette di selezionare le caratteristiche di
ciascun linguaggio o di ciascuna lingua usata. Per introdurre la correlazione
con il corpo del linguaggio il linguista utilizza una periodizzazione della
razionalità linguistica, nel senso in cui guarda alla materia segnata come a
una sostanza che il soggetto parlante può collaborare a gerarchizzare. Abbiamo
visto come la forma stessa sia una funzione e i motivi che spingono alla
schematizzazione dell’azione attraverso i diagrammi. Fin dai Principi di
grammatica generale c’è una radicale
entelechia del senso lingustico: il tentativo di formulare negli assi
cartesiani il movimento di un mutamento linguistico prende in considerazione la
spesso conclamata avversione alla matematica e riforma il piano linguistico
come un piano di idee non definite, ma al contrario sostitutive di una
semplicistica formula da mantenere come eterna nei principi della lingua. Il
rapporto quindi non è semplicemente di avversione o di rinuncia alla
matematizzazione del senso linguistico, ma è ben più complesso e raffinato.
«Pur mostrando infatti una tendenza netta a liberarsi
di nozioni che, per certi aspetti, hanno reso il suo lavoro non immune da
contraddizioni, Hjelmslev riuscirà ad andare oltre tali barriere teoriche solo
qualche anno più tardi[81].»
Come una sorta di
resistenza che l’uomo-segno fa al senso poetico, una resistenza naturale alla
nuova generazione della lingua, per poter essere in grado di parlare una lingua
la città della metarappresentazione diventa una città di circoli semiotici, di
circonferenze segniche che non hanno bisogno del limite. Non solo in virtù
della sintagmaticità della funzione emotiva della lingua, quella che connette
le estensioni della significazione, ma soprattutto in relazione alla
straordinaria contiguità dei cambiamenti che i campi semiotici attuano sempre
come lingue speciali, con il cosiddetto linguaggio scientifico. Possiamo
affermare che la logica della poesia rimuove i malanni linguistici, le
formazioni in potenza che non hanno ancora una motivazione nel campo del
simbolo.
«Si può dire che l’opera poetica sia un possente
condensatore delle valutazioni sociali non espresse: ciascuna sua parola ne è impregnata[82].»
Per
il fatto che non si tratta di un’indicalità del segno, ma di una funzione
iconica o metaforica, la modularità dell’azione libera e arbitraria delle
logiche poetiche diventa una nozione tecnica nel lavoro del linguista. Il focus
dell’esperienza della forma grammaticale della poesia o ancora meglio
dell’opera poetica è l’implicito, il non esperito. Le due variabili, ossia
quella di un’implicita intensione delle forme linguistiche e la forma
esperienziale, trovano ambivalenze, nei termini saussuriani, nell’essenza
doppia del linguaggio.
1.3.
L’autonomia e la storicità della poesia
Mentre Whitney con il
convenzionalismo si oppone vivamente all’idea di una connessione tra parola e
idea, Jespersen parla di una vera e propria costante mentale dell’abitudine
alla parola. Si tratta di una simbolicità che non ricalca altre forme di
normatività. La comprensione della lingua è in realtà una caratteristica
naturale: ciascun parlante è condizionato dalla cultura di appartenenza che
diventa il suo abito normativo. Quelli che Hjelmslev chiama semantemi sono una
riformulazione della teoria jesperseniana di stampo linguistico; non soltanto
il rapporto uno a uno, binario, tra idea e parola, che non avrebbe possibilità
di realizzazione nell’uso, ma un’approssimazione o, in altre parole, una
vaghezza che permane nell’attribuzione della semantica alle forme comunicative
verbali.
L’idea di arbitrarietà che di
fatto viene alla luce nella pratica linguistica non è il risultato di una
sospensione di giudizio rispetto alla logica che permea il linguaggio e la
lingua poetica. Le categorie sono, in tal senso, il luogo privilegiato di
azione dell’arbitrarietà. Quelle che sono state studiate come forme
preesistenti di regolarità della lingua sono anche intrise di mutamenti e di
possibilità di decifrazione che nelle lingue classiche sono spesso
contrastanti. La mutabilità permette di scoprire il funzionamento delle dimensioni
del sistema casuale delle lingue. Il valore dell’orientamento esistente tra il
sistema sublogico, il sistema prelogico e il sistema logico è quello di una
proiezione delle regole nelle configurazioni estensionali che si trovano nella
lingua. Il significato dei casi è la relazione tra il sistema di opposizioni
logico-matematiche che è un fatto del linguaggio e il sistema di opposizioni
partecipative che è l’insieme delle relazioni immediate del linguaggio, primo
canale di approdo allo studio dei principi che lo governano. La relazione
intima che permette la coerenza tra l’avvicinamento, il riposo e
l’allontanamento dei casi mostra, secondo Hjelmslev, il sistema che opera a
livello temporale. Tale evidenza si configura nella pratica articolatoria, nella
lingua parlata, essendo in realtà una formazione del sistema sublogico.
La caratteristica principale
del sistema sublogico è il fatto che è mosso dalla spazialità e si fonda sui
dati astratti della sostanza della significazione. Quella che sembrerebbe una
disciplina legata alla singolarità della lingua è invece nella visione
hjelmsleviana una capacità duratura e stabile della significazione. L’idea che
quello che si compie sulla sostanza sia una forma di calcolo richiama la
possibilità di ricondurre a schemi ricostruibili attraverso lo studio delle
lingue. La differenza che ricalca una visione idealistica della significazione,
basata sulla relazione esistente tra il contenuto della parola e l’estensione
riporta a poter approfondire attraverso le categorie, riconosciute fin dalle
lingue classiche, le nozioni che si appigliano alla lingua come a strumento del
pensiero. Hjelmslev, non potendosi richiamare a una sostanza specificamente
psicologica della parola, si richiama alla configurazione estensionale, delle
forme in atto della lingua.
Nella terminologia
hjelmsleviana la parola è l’esecuzione della lingua da parte dell’individuo[83].
Il legame con la collettività non è quindi determinante nella capacità
individuale, mentre è tale nella concezione saussuriana. Questo scarto relativo
alla possibilità di riconoscere una capacità sostanzialmente funzionale alla
necessità dell’individuo è tale, anche nella visione hjelmsleviana, soltanto se
legato all’uso: la socialità non è un corollario della sostanzialità della
lingua come sistema.
Come è stato concepito da
Saussure il vero oggetto della linguistica è il sistema che è normativo. Un
esempio che apporta Hjelmslev, sulla stessa linea, è il sistema dei casi del
latino. La diminuizione della capacità di mettere in pratica attraverso la
forma linguistica caratteristiche comuni ai sistemi di segni con i segni
strettamente legati a categorie linguistiche delle lingue antiche, rispetto a
quelle in uso, è concepibile solo osservandone la sostanzialità a distanza di
tempo. Dire che una lingua è antica non impedisce di riscontrare in essa
caratteristiche non ancora esplorate.
«Il
latino è un sistema di regole fisse e rigide, che lasciano ben poco spazio alle
improvvisazioni individuali. Ma il sistema del latino non è né semplice né
chiaramente fissato. Esso presenta una complessità quasi inaudita[84].»
La localizzazione della lingua
non è altro che una relazione che può essere rilevata nei termini della
citazione di una struttura categoriale. Mentre la grammatica, in senso classico,
determinava il funzionamento della lingua e delle diverse lingue, nella
proposta hjelmsleviana non ci sono dati estrinsecabili senza il comune accordo
dell’arbitrarietà. Saussure evidenzia che le leggi del linguaggio non sono
legate alla natura in sé ma al modo di vedere l’oggetto nel presente. Come
accade in musica, esiste un arrangiamento, un ordine delle cose esistenti. Tale
ordine non è che il sintomo di una coesistenza che non può essere separata dal
fenomeno della parola. In tal senso le determinazioni nette nella parola non
riguardano la lingua poetica, almeno dal punto di vista della capacità umana di
creare campi d’azione della prassi comunicativa.
1.3.0. L’istintualità
del linguaggio come imprinting della logica poetica
Il presente come fonte
inesauribile di nozioni del passato e della formazione della lingua è in
qualche modo astratto. Una forma di astrazione è quella che si delinea con il
versante psichico della lingua. Nella visione di Hjelmslev la psiche è una
strutturazione semiologica. Un esempio è l’intersezione con le strutture
semiotiche che nelle varianti individuali, come in quella che è chiamata
pronuncia di una parola, permette di evidenziare caratteristiche nuove che si
condensino in norme.
La fenomenologia possibile che
trattiene la sistematicità nella formazione delle costanti linguistiche non è
quindi soltanto una dimensione alternativa alla chiave di lettura del dominio
linguistico. L’elemento costante è il contenuto: nella determinazione delle
variabili i morfemi diventano, all’aumentare della determinazione, semantemi.
Recuperando i dati che avevano le premesse in quelle che si definiscono
sintagmi e paradigmi, Hjelmslev introduce, sul versante del contenuto, il
concetto di grammatema. Esso indica una classe: l’unità minima di contenuto che
in base al suo livello di determinazione è da considerare variabile o visto
come costante. Si tratta di un progetto auspicato da Saussure e sintomatico di
una spiegazione, possibile anche al di là di una psicologia della lingua.
«Così
c’è da una parte una parola (entità fisica), dall’altra la sua significazione
(entità psichica). C’è nella lingua un lato fisico e un lato psichico. Questa
verità di senso comune ha un senso che deve essere del tutto precisato per chi
vuole studiare la lingua: si tratta di sapere quali sono le cose da raccogliere
nel dominio fisico e quali sono le cose da raccogliere nel dominio psichico[85].»
Si tratta di ripercorrere le
tassonomie hjelmsleviane nel ruolo che spetta a una direzione del senso e non a
strutture vuote da riempire con elementi di una fattezza diversa. La grammatica
è quindi mirata a rendere conto delle relazioni particolari, anche senza
considerare soltanto la semantica come chiave di volta della composizione
linguistica. Un esempio è la determinazione dei glossemi: entità costituite da
elementi che formano contenuti e elementi che formano espressioni,
rispettivamente plerematemi e cenematemi. I glossemi che si definiscono sulla
base della sintagmaticità e della paradigmicità sono determinati dalle loro
funzioni. Le definizioni cambiano in base al piano preponderante, ovvero se
sono interne allo stesso piano dell’espressione oppure al piano del contenuto.
L’insieme funzionale è una sorta di unicità relazionale, data la forma
istintuale nel dominio e nella selezione che avviene nella frase.
«Il
rapporto riscontrabile tra la forma e la sostanza è anch’esso una funzione
(detta manifestazione) che
presenta a sua volta un’analogia tra i due piani. Alle funzioni omoplane è necessario aggiungere la funzione eteroplana che intercorre tra le unità dei due piani e serve a
costituire il segno linguistico in quanto tale[86].»
Cercando di annullare
l’opposizione tra fonologia e morfologia, la presenza dei piani del discorso
permette di capire come, dal punto di vista di Hjelmslev, significato e
significante possono essere intervalli di significazione dello stesso tipo. Per
il fatto che non può esserci assoluta indipendenza tra il piano
dell’espressione e il piano del contenuto, in realtà non c’è alcuna divergenza
tra i due. Si tratta di una omogeneità che si ripercuote sull’intera
considerazione data alla materia linguistica e tocca la funzione dei termini.
1.3.1. Distanza e prospettive figurali nella
logica della poesia
La possibilità di una logica
della poesia che sia descritta dalle regole della logica grammaticale non è
quindi lontana dalla visione hjelmsleviana della lingua in generale. Fino a che
punto le ormai conosciute costanti della lingua parlata sono legate alla
fissità della grammatica è il punto essenziale della ricerca che prende piede
fin dai Principi di grammatica generale.
La connessione necessaria tra il pensiero linguistico e l’azione connotativa è
quindi sintomo di una piena coscienza, da parte del parlante, della forma
strutturabile. Nella dialettica che riaccorda la dimensione creativa a quella
funzionale, il pensiero linguistico riannoda le forme di conoscenza alla
componente sensibile, associativa, della grammatica.
«L’ordine
degli elementi, però, non è l’unico tratto formale che ci possa fornire il
criterio secondo cui una data serie costituisce un insieme dal punto di vista
della subordinazione; ve ne sono degli altri. Bisogna cercare i tratti
morfologici che sono generalmente usati per indicare un rapporto
particolarmente stretto tra certi termini di un’unica e medesima serie.
L’esistenza di tali tratti è ben nota. Sono questi i tratti che ordinariamente
si designano con il termine rection[87].»
Pensare a come abbia luogo la
composizione dei tratti è il compito della glossematica. Il modo di formazione
del fenomeno linguistico lascia all’immagine vocale, uditiva un posto
specifico. In tal senso, alcuni momenti di recupero dei fonemi dalla catena
linguistica, al fine di accellerare la funzione di ricomposizione delle
morfologie potenzialmente in uso nella crescita del linguaggio sono
affrontabili come contenuti categoriali. La complessità dell’immagine verbale
non è indipendente dalla convenzionalità linguistica. I due elementi primari di
tale complessità sono riassunti nei termini di forma e di funzione
grammaticale.
«Per
funzione grammaticale intendiamo:
1°
la facoltà di combinarsi esclusivamente con certi morfemi dati, e
2°
la facoltà di combinarsi con altri semantemi esclusivamente per mezzo di certi
morfemi dati[88].»
Circondando le categorie con
elementi tangibili, Hjelmslev presuppone la necessità di un’idiosincronia
indipendente dalla tradizione linguistica. L’elemento del dato è inizialmente
un rapporto inscindibile tra il campo psicologico e quello logico, tra stati
costituiti dalla materialità linguistica proiettata sulla sistematicità
categoriale. Affrontare concretamente la natura doppia del linguaggio significa
pensare all’evoluzione come a un riconoscimento modulare della formula
grammaticale. In realtà il sistema della lingua agisce come un meccanismo che
non ha un esterno da rapportare a un interno. La motivazione che tiene testa
alla convenzionalità è quella di valore. Unico dato concreto, il valore, è un
assoluto linguistico, tale da essere riconosciuto dal linguista nella stessa realtà
logica del parlante.
1.3.2. Categorie e
complessità dell’immagine verbale
La possibilità di parlare di
resti fluttuanti tra le macerie della storia della lingua mostra come, dal
punto di vista diacronico, sono consolidate alcune forme distruttive della
catena linguistica. Non è possibile intensificare le distinzioni tra gli
elementi grammaticali e il linguaggio che si sviluppa in forme occasionali.
L’affezione linguistica che permette al parlante di sentire le regole che si
sviluppano anche nei momenti di creazione di neologismi, per esempio, o di
figure retoriche poco usuali, ricade nella psicologia comportamentista, in cui
l’ideale è parte del sistema reale.
Quando si pensa a una realtà
cognitiva della lingua dal punto di vista della misura normativa, le
particolarità individuali non sono esterne alla parole, bensì alla lingua come sistema. Tuttavia, la norma
non è opposta al contenuto. Nella manifestazione delle irregolarità
sintomatiche di stati normativi di lingue, le deviazioni diventano proiezioni
di un contratto sociale potenziale. Gli allievi di Saussure e in particolare
Sechehaye sono stati spesso sostenitori di una specificazione delle regole
linguistiche extragrammaticali, mentre la grammatica dei Greci era una teoria
aprioristica, definendo le categorie in base ai significati[89].
L’intento di definire le funzioni è invece legato alla determinazione delle
parti del discorso, non soltanto dal punto di vista semantico, spesso fugace.
«Il
punto di vista sincronico è una realtà psicologica, mentre la diacronia è solo
un’astrazione che, quando considera fatti preistorici, risulta anche di ordine
ipotetico[90].»
La possibilità di costruire
ipotesi sulla lingua nella storia del suo sviluppo appartiene all’ordine dei
dati che possono essere utili al confronto tra le epoche linguistiche diverse.
Tuttavia, la relatività del metodo comparativo per la costituzione delle
caratteristiche comuni a forma e contenuto nei segni linguistici è tale da
poter essere abbandonata nell’effettivo uso delle regole e nello stabilire la
natura di tali rapporti. Quando nella parola affiora l’istante della
significazione, data la possibilità di essere una fonte di costruzione dei
significati, l’unità di immagine materiale e di fenomeno naturale trova la
dimensione normativa nella differenza tra i termini a essa vicini.
«Così
non solamente non ci saranno termini positivi ma delle differenze ma, in secondo luogo, queste differenze risultano da
una combinazione della forma e del senso percepito[91].»
Oltre alla composizione delle
forme della lingua Saussure riconosce la necessità di richiamare alla presenza
del parlante la percezione sensibile, anche se non approda alla similitudine
tra percezione diretta del mondo esperito e percezione del senso delle parole.
Il segno come fatto di coscienza è un’entità semplice che tuttavia attiene a
domini differenti. Poter agire con una forma che abbia sia caratteri naturali
sia caratteri psicologici è il vantaggio di un’oggettività che è specifica del
punto di vista linguistico.
Un fenomeno che percepiamo come
parte del mondo materiale non è mai separato da un senso. Tale realtà che la
sostanza linguistica condivide con le realtà del mondo fisico non è, tuttavia,
quella che fa di un segno una realtà legata a un’idea. Il tentativo di
Hjelmslev è quello di ricondurre le realtà della lingua a rapporti simili a
quelli che relazionano le entità naturali a categorie semiologiche. Generi e
specie, per esempio, sono due livelli funzionali che possono distribuire le
stesse sostanze in domini diversi.
1.3.3. Il corpo del
linguaggio come figura
Nella linguistica hjelmsleviana
la tipologia di relazione esistente tra le forme del pensiero e l’azione
linguistica è legata all’accessibilità oggettiva. La realtà è sempre
collettiva, tale da poter essere ricondotta a casi tipici. Pensare alla lingua
come a un fenomeno di natura vocale, dal punto di vista saussuriano, porterebbe
a una riduzione della lingua a realtà non valutabili oggettivamente. D’altro
canto, l’analisi di uno stato di lingua in sé non assicurerebbe alle categorie
la realtà simbolica che le caratterizza.
«Si
è visto che la forma e le categorie sono indipendenti da ciò che in uno stato
di lingua è convenzionale. Non sono i fonemi dunque a costituire le categorie
grammaticali ma, al contrario, la costruzione stessa[92].»
Pensare alle categorie come a
figure del linguaggio permette di riconsiderare le nozioni di grammatica e di
contenuto. Hjelmslev fin dai Principi di grammatica generale delimita la lingua come modello di figurabilità
della grammatica, senza escludere la costruzione matematica come una realtà
prospettica. Nella connessione tra i livelli del linguaggio che permettono di
sostituire alla divisione tra contenuto e forma una gerarchia strutturata, la
funzione linguistica perde la semplicità propria della referenzialità e assume
una complessità riconducibile a schemi figurali, parte rilevante della
significazione.
Nella nozione di rection come direzione del senso linguistico si formula una
possibilità della distinzione tra funzione e forma che non abolisce la
possibilità del rimodellamento di una distinzione tra segno linguistico e segno
logico. L’idea di una formazione legata al corpo della lingua e non a una pura
astrazione, benché lontana da una definizione assoluta, genera una
riformulazione della possibilità di approdare alla fonte del materiale della
lingua come organismo. La struttura diventa una funzione costituita da nuclei
approssimativi da ritagliare attraverso le funzioni e le categorie specificate
nella glossematica. Diventa possibile realizzare una vera e propria scienza del
linguaggio caratterizzata da una serie di schemi da sviluppare per approdare
alle linee di confine essenziali dei lavori precedenti al linguista danese. In
tale prospettiva sarebbe possibile definire una zona di azione specifica in cui
la lingua non è soltanto un sistema astratto di regole ma una categoria
funzionale riconoscibile rispetto alle altre forme del pensiero.
2.
Poesia e verità storica
La
deduttività caratteristica dell’analisi linguistico-funzionale non esclude la
determinazione di semiotiche che possono essere arginate e quindi distinte
dalla forma linguistica. Il fine della glossematica è quello di riconoscere e
ritagliare semiotiche e di farlo attraverso operazioni che non sono tassonomie
preesistenti, benché siano schemi che riconducono classi a relazioni.
L’esistenza di una differenza tra il piano dell’espressione e il piano del
contenuto, tale che non vi sia una corrispondenza biunivoca tra gli elementi
dell’uno e gli elementi dell’altro, non esclude la determinazione delle unità.
In tal senso è descrivibile non soltanto l’unità linguistica che si dà
diacronicamente, nel sistema, ma è possibile ricostruire il tempo delle lingue
come storicità data dall’uso tra i parlanti. Nel Résumé è esplicitata l’interazione tra le relazioni alla
base della teoria del linguaggio e i principi che permettono di ricondurre uno
stile, una parte del discorso, alle categorie logiche della glossematica. In
particolare, a essere considerati rilevanti sono i tre principi: il primo è
quello empirico, il secondo è di semplicità e di economia, di riduzione e il
terzo è il principio di generalizzazione. Il punto importante da notare è che
la possibilità di una definizione vera e propria, quasi assiomatica, nella
glossematica prevede la presenza del fattore di indefinibilità. A essere
considerata indefinibile è la procedura attraverso la quale si compie la
descrizione delle unità discorsive. Il criterio che assume il valore maggiore,
dopo aver soddisfatto la descrizione esauriente, è quello della semplicità.
Quello
che emerge dalle analisi delle componenti, universali e generali, è il fattore
di dipendenza tra le parti del discorso che sono oggetti esaminati. Gli
oggetti, nei termini hjelmsleviani, sono distinguibili in due gruppi:
semiotiche e non-semiotiche. Tutto ciò che è classificabile come una semiotica
può essere suddiviso in semiotiche denotative e non denotative. Sono semiotiche
denotative le lingue e i testi ma, attraverso l’analisi, possono emergere
alcune semiotiche che non sono lingue e testi. A essere ulteriormente assorbite
dal sistema delle semiotiche non denotative sono le semiotiche connotative e le
metasemiotiche. Quest’ultimo gruppo di oggetti è suddivisibile in semiotiche
metascientifiche e in semiologie: sono parte della semiotica metascientifica le
metasemiologie interne e esterne e alcune semiotiche metascientifiche che non
sono metasemiologie. Come preannunciato nei Fondamenti di una teoria del
linguaggio, anche le semiologie sono
suddivisibili in interne e esterne[93].
Le operazioni sono quindi applicazioni di schemi non strettamente matematici,
bensì di strutture in grado di funzionare come disambiguazioni.
In
questo processo di individuazione delle categorie si possono costituire
rapporti sintagmatici e associativi di dipendenze e di relazioni capaci di
essere distribuite e ridistribuite al fine di definire le unità nuove
all’interno delle diverse varietà del discorso. Il fine ultimo di tali
operazioni è quello di arrivare a una mappa delle categorie in modo da
individuare le specie che possono essere ulteriormente combinate fino a
giungere alle semplici, ossia costitutive e flessive. Come in una tassonomia
relativa alla realtà naturale, Hjelmslev sostituisce ai termini grammaticali
classici la sua nozione di morfologia. La storicità delle unità linguistiche è
costituita da specie, specie semplici e sottospecie, sulla base delle
variazioni. Un esempio è quello delle variazioni di direzione e di flessione
che costituiscono le specie flessive semplici. Con un’organizzazione molto
vicina alla terminologia delle scienze empiriche, quasi a riproporre il
positivismo carnapiano nelle regole e nelle norme linguistiche, la
sistematicità dei diversi tipi è racchiusa in categorie tassematiche. A essere
prese in considerazione, come nel caso delle composizioni chimiche, sono le
variazioni nella composizione delle parti del discorso. Un esempio
hjelmsleviano è quello dei diversi modi di dire “non so” in cinque lingue
diverse, tali da andare a coprire non solo significati eterolinguistici, ma
semiotiche diverse che possono andare a colpire la variazione flessiva e quella
degli accenti, anche nello stesso sintagma presente in lingue diverse.
Le
caratteristiche principali della tassonomia riguardano le definizioni, riunite
in un complesso tale da riunire il piano del contenuto con il piano
dell’espressione[94].
Rispetto alle grammatiche classiche nella glossematica è possibile distinguere
nella sostanza fonetica dell’espressione non le vocali ma gli accenti, anche se
a essere analizzati sono quelli che nella tradizione sono chiamati vocoidi
delle lingue. Una volta attuata la ridistribuzione nella semiotica considerata,
si costituiscono gli ordini, ovvero le categorie tassemiche più piccole,
definibili sulla base di coesioni cellulari. Il lavoro compiuto è attuato sulla
base di matrici che si compongono nell’analisi in dimensioni o glossemi
primari. Le unità alle quali si arriva attraverso la glossematica, di identità
e di differenza, permettono di mettere in atto i processi semiotici descritti
attraverso le definizioni. Emerge una netta riluttanza nei confronti di una
nozione essenzialistica della sostanza linguistica. Il concetto stesso di
logica è rimesso in discussione e affrontato non più come una forma di datità,
di essenza, quanto piuttosto nei termini di funzione, di operatività che
permetta di giungere alle regole e ai principi per poter ripartire da questi
nell’affrontare le definizioni.
Nella
visione hjelmsleviana la natura linguistica riconduce alla forma come funzione
e non come riferimento puro. Per il fatto che a essere abbandonato è lo schema
causale che reggeva la visione aristotelica di una lingua in generale e una
lingua poetica, frutto della natura e quindi potenzialmente riconducibile alla
pura essenza dell’animale umano, la logica stessa che sottende alla natura
linguistica è un complesso di schemi, sempre in divenire.
«La descrizione si compie attraverso una
procedura. La procedura deve essere ordinata in modo tale che il risultato sia
il più semplice possibile e deve essere interrotta se non porta a ulteriore
semplificazione[95].»
Nella
descrizione propria della glossematica ci sono raffigurazioni che permettono di
specificare le dimensioni delle unità e i loro tratti relazionali con le altre
parti del discorso. Come un’empiria radicata nell’uso linguistico la nozione di
direzione che era rection nelle categorie dei casi delle lingue classiche,
diventa una funzione che agisce sull’intero apparato sistemico. Ciascun
rapporto tra espressione e contenuto in tal senso ricopre un punto nella
mappatura della semiotica che si sta considerando. Giunti a tale grado di
specificazione le funzioni linguistiche diventano performative, assumibili come
azioni creative, riassemblabili come specie semplici. Le modalità attraverso le
quali agisce il movimento di assemblaggio, tale da essere ripetibile nella
catena linguistica, sono strutturate nel sistema di regole rilevate nella
glossematica.
2.1.0. Veridicità e
verisimiglianza del riferimento nella lingua poetica
Diversamente dalle attività
performative, dalla praxi, la poiesi è un rapporto verisimile della realtà, lo
è nella sua stessa sostanza, sia dell’espressione che del contenuto. La
copresenza su entrambi i piani, quello dell’espressione e quello del contenuto,
di una funzione formativa, risulta funzionale e addirittura onniformativa,
permettendo di gerarchizzare le specie, dalle semplici alle complesse. Come una
composizione musicale richiede che il testo sia al servizio delle norme del
suono, come se il suono stesso fosse lo strumento della natura propria dei
modelli musicali, la logica che fa delle lingue naturali un virtuosismo della
socialità è di natura poliformica. Un esempio è quello dei suoni primordiali
della natura: ci sono suoni che non siamo in grado di percepire ma ne siamo
influenzati indirettamente. Pensare alle componenti universali del suono
rispetto alle classi che ne costituiscono il procedimento di riorganizzazione
delle forme permette di concepire l’oggetto e la natura della descrizioni delle
singole parti.
Affermare che la forma naturale
delle lingue sia pluriprospettica permette di riaccordare la filosofia del
segno di stampo saussuriano alla logica del funzionalismo di Hjelmslev. Come
per la forma linguistica del concetto, anche per la forma linguistica del suono
è possibile riformulare le definzioni. Esse sono ontologicamente legate al
problema della realtà della sinossi esistente tra natura e forma.
«Non
potrebbe la forma dell’espressione linguistica dare la propria impronta anche a
una materia diversa da quella fonetica? La risposta è ovvia: deve essere
possibile calare nella stessa forma una materia diversa da quella fonetica. Non
è vero che i suoni articolati siano l’unica materia possibile dell’espressione
linguistica[96].»
Il linguaggio poetico è un
linguaggio che ha a che fare con la storia ma che interpreta la disambiguazione
del contenuto attraverso il discorso indiretto. Ci sono, nella visione
hjelmsleviana, due modi di analizzare il sistema linguistico: uno riguarda la
capacità della parola di essere il mezzo espressivo e l’altro induce alla
veridicità della sostanza del contenuto, anche rispetto alla fonetica,
distinguendo quest’ultima dalla fonologia. Tale rivoluzione nella grammatica
che assolve la forma dalla pura superficie espressiva, è un richiamo alla
natura non essenziale del suono, affondando le radici della logica nella
funzione definitoria delle regole della glossematica.
«L’analisi
è la descrizione di un oggetto in base alla dipendenza uniforme di altri
oggetti da esso e l’uno dall’altro[97].»
Il legame tra la grammatica e
la glossematica è un legame logico. Il rapporto tra gli elementi grammaticali e
gli elementi propri del discorso o glossemi è reale e vive nelle relazioni tra
la forma e il contenuto, nelle modalità definite dal Resumé. A partire dalle categorie, ossia dalle regole di
articolazione obbligata, attraverso la mappa di definizioni compiuta nella
glossematica, è possibile riconoscere nuove categorie, fino a ridistribuirle
nelle definibilità di altre specie. Tali specie sono quattro: costitutive,
temative, direttive e flessive. Le prime due sono capaci di far nascere le
specie semplici, definite costitutive; la seconda coppia di specie può far ridistribuire sui piani del
discorso le specie flessive
semplici. Nel comporre tali ridistribuzioni le dimensioni logiche diventano
piani del discorso.
A riallacciare alla forma il
contenuto sono quindi gerarchie funzionali, tali da non poter essere
riconoscibili se non sono ricondotti ai due piani del discorso, sia dal punto
di vista sintagmatico che da quello paradigmatico. Rimarcando la logica della
funzione, la glossematica permette di sugellare il matrimonio tra l’ordine del
discorso e il piano dell’articolazione. La discussione che emerge
aristotelicamente come abbandono della contrapposizione tra praxi e poiesi, tra
atto fonico e logica del contenuto, riconduce alla struttura unitaria della
funzione linguistica. A permettere la ridistribuzione delle singole specie è
l’appartenenza a categorie essenziali della lingua. La glossematica compie il
lavoro di risoluzione delle logiche in formulazioni di categorie inespresse ma
esperibili, riconducibili a forme dell’espressione e assimilabili alle funzioni
del linguaggio.
2.1.1.
Immaginazione come forma di conoscenza
Le componenti che permettono di
definire le costanti della stratificazione del linguaggio sono di fatto modelli
della differenziazione del senso logico. L’oggetto preso in esame è costituito
da forme possibilmente immaginabili che costituiscono gli elementi
paradigmatici: l’analisi stessa non è unica nel suo mostrarsi, poiché sono
sottintense due o più analisi. Le definizioni che descrivono il linguaggio e
gli stili sono esse stesse componenti logiche visuali o realizzate nella catena
del discorso. In tal senso i derivati delle classi sono funzioni che mettono in
atto le condizioni per una analisi.
Le stesse relazioni tra le
parti sono schemi che appaiono come impliciti nella forma in uso. Come nei
suoni della musica, il linguaggio racchiude elementi primitivi di associazione
che non precludono la metamorfosi delle funzionalità. Un esempio pratico per
comprendere le forme del discorso nella prospettiva di una logica della lingua
che abbia un raccordo con la natura del linguaggio è quello delle musiche
primordiali: anche la fattezza degli strumenti è parte di un universo che in
principio derivava dalla natura, come nel caso delle pelli usate nei tamburi
che producono un suono derivato da una sostanza dell’espressione. L’autonomia
del significato che viene sostenuta dagli studi saussuriani non è che una
determinazione delle relazioni esistenti tra i sistemi derivati dalle sostanze
sul piano dell’espressione e dalla forma che ne deriva come contenuto
funzionale, creati dai parlanti come se fossero presenti alla coscienza
costellazioni di senso.
«Def
24. Una semiotica (simbolo γ°g°) è una Gerarchia di cui ciascuno dei Componenti
è passibile di un’ulteriore Analisi in Classi definite da Relazione reciproca,
in modo che ciascuna di queste classi è passibile di un’analisi in Derivati
definiti da Mutazione reciproca[98].»
La natura logica della
sintatticità è tale da essere ricondotta alla grammatica. Effettivamente la
grammatica non porta a una definizione astratta dei generi del discorso, bensì
alla riformulazione della composizionalità delle logiche che filtrano il
discorso. La posizione strutturalista assume, in tal senso, una prospettiva
capace di ricomporre le dinamiche che dalla referenzialità della lingua
arrivano a descrivere le differenze esistenti tra i generi linguistici. Nella
visione hjelmsleviana il concetto di semiotica esclude le non semiotiche, dal
momento che è non semiotico il versante inanalizzato delle forme che regolano
il significato.
Il dominio della lingua poetica
non esclude il formarsi delle variabili di senso della progettualità. I
derivati che si escludono vicendevolmente nella riformulazione delle classi
semiotiche permettono agli elementi degli insiemi che hanno in comune alcune
proprietà di essere funzioni reciproche delle lingue. La questione della
denotazione e della connotazione diventa una conseguenza delle dinamiche
funzionali che regolano le lingue. Malgrado la dimensione dell’analisi sia
incompleta, nella prospettiva di una sintatticità come fonte di significazione,
la glossematica assume una dimensione che oltrepassa la struttura singola di
ciascun elemento del discorso e arriva a sintetizzare aspetti relazionali delle
lingue come segni capaci di conciliare la funzione in uso nel presente delle
enunciazioni, con le paradigmaticità proprie della storia della comunità.
Al fine di garantire
l’applicabilità della teoria è necessaria la sua applicazione, senza confondere
la teoria con un metodo pratico definito. La questione escatologica assume
quindi un ruolo di tematizzazione delle parti del discorso che sono capaci di
indirizzare la significazione a un sistema di procedure capaci di essere
riconosciute dai parlanti, tali da essere strumento di valutazione degli
strumenti descrittivi.
«La
concezione di L. Hjelmslev dunque si distingue già da quella “tradizionale” per
una maggiore astrazione della manifestazione materiale delle entità
linguistiche appartenenti al piano dell’espressione[99].»
Astrarre diventa, anche sul
piano fonematico, malgrado la forte materialità che è senza dubbio oggettiva
nella catena dell’espressione, un modo di gestire accenti, intonazioni e
sillabazione attraverso le strutture definite dalla glossematica. In tal senso
la centralità della struttura richiama la definizione di Bloomfield dello structural
set, il nucleo di combinazioni di fonemi
isolati e di relazioni riconoscibili tra essi. Gli esponenti e i costituenti in
cui sono suddivisi i cenematemi fanno in modo che attraverso la sillabazione si
possano costituire metalinguaggi. Un esempio è quello dello slavo che permette
di riconsiderare la nozione di sillaba rispetto alle caratteristiche prosodiche
e di accentuazione, mirate alla disambiguazione.
2.1.2. Modularità nelle
logiche dell’azione poetica
La possibilità, messa in atto
dall’astrazione, di suddividere in funzioni che diventino parti necessarie dei
set strutturali, formando elementi semplici, va a avvalorare il valore delle
logiche intese come categorie, classi che si consolidino in norme. Nella
possibilità di circoscrivere un campo d’azione della mimesi radicata nella
dimensione sintagmatica del discorso, la lingua è poiesi delle logiche che
governano il linguaggio. A essere solidali nella dimensione della logica del
senso poetico sono i rapporti tra sostanza dell’espressione e del contenuto. È
a tale piano che appartiene la riflessione hjelmsleviana sulla capacità della materia
di essere forma che dall’immotivato arriva alla dimensione della lingua. Le
non-semiotiche sono quindi l’insieme di tutte quelle possibilità di
realizzazione della struttura morfologica: la procedura irreversibile dei
cambiamenti implica che l’affinità arbitraria tra forma e sostanza è
evoluzione.
«La
categoria è un paradigma dotato di una funzione definita, individuata il più
delle volte grazie a un fatto di rection[100].»
Alla base delle dimensioni
logiche che riallacciano la lingua alla natura delle funzioni vi è il discorso
che è passibile di un’analisi intesa primariamente come oggettivazione. Il
funzionalismo non esclude che i livelli di formazione della materia sul piano
dell’espressione siano fatti di rection
tali da avallare le relazioni tra funzioni di altri piani. Il dominio della
materia linguistica non è evolutivo nello stesso senso in cui si pensa
all’evoluzione nella visione organicista. Tale riconfigurazione del percorso di
attivazione dei nuovi significati è sintomatica di una serie di ipotesi
compiute dal soggetto parlante. Affrontando il problema della scrittura, per
esempio, Hjelmslev pone i due piani, dell’espressione e del contenuto, come
afferenti ciascuno a forme della sostanza che sono diverse nel presentarsi al
soggetto, malgrado siano occorrenze di fonetica e di scrittura, visti
usualmente come equivalenti dal punto di vista grammaticale.
«Se
fossimo convinti che la forma dell’espressione linguistica non possa essere
pensata senza la sostanza sonora, né calata in nessun’altra sostanza diversa da
questa, sarebbe impossibile comprendere in che modo l’umanità abbia potuto
inventare la scrittura alfabetica. È errato affermare che la scrittura si fonda
su un’analisi fonetica[101].»
La separazione netta tra il
fonico e il grafico è legata alla necessità di far seguire al modo di
formazione dei segni l’analisi sulla funzione del sonoro e della forma scritta.
Nella fattispecie di un raffronto tra sostanza dell’espressione e del contenuto
risulta semplice pensare che il significato non risieda in esse completamente,
a discapito della concezione concettuale del senso. La glossa ricopre un
insieme di funzioni che si realizzano in base alle relazioni tra i piani che
hanno una struttura capace di riassemblarsi. Anche se non si può parlare di un’invenzione
pura, priva di radici della funzionalità che fa, in termini hjelmsleviani, di
una semiotica una lingua, la scrittura non è il risultato di un’analisi
studiata dal parlante, bensì la conclusione di un processo che è principalmente
sociale. Le logiche che muovono la complessità del senso hanno un gradiente di
formatività che eccede il mondo del non semiotico per comprimersi solo nel
divergere delle differenze tra i potenziali funzionalmente ripercorribili con
una grammatica. Attraverso la suddivisione in fasi è possibile ricondurre il
corso del pensiero a glosse, nella specificità che riguarda le nomologie del
senso, come è stato affrontato dal funzionalismo.
2.1.3.
Costanti e finalità della scrittura
Per comprendere che la funzione
referenziale non corrisponde a quella linguistica l’esempio hjelmsleviano della
scrittura mette in campo la nozione di simbolo apportata alla teoria fin dai Principi
di grammatica generale. L’atto linguistico
non ha a che fare con la struttura ma con una forma specifica di percezione
della realtà.
«Grimm
afferma: “poiché nessun tipo di poesia prese piede in maniera da fiorire
rigogliosamente, non fu possibile seguire sedimentazioni della lingua com’è
necessario per l’individuazione di periodi storici con caratteristiche proprie…
Gli scrittori di questi periodi intermedi… si lasciano andare con trascuratezza
alla mescolanza di comuni dialetti regionali… Rappresentazioni adeguate di
simili peculiarità costituirebbero una vera e propria affiliazione per
istituzioni e indagini scientifiche”. Per quanto riguarda gli stati attuali, di
cui dobbiamo qui trattare, la situazione è la medesima: in alcuni di questi
stati si è fissata una correzione, in altri no[102].»
A porre un piano di concordanza
tra gli aspetti grammaticali e gli aspetti simbolici della forma che si
trasforma vi è la possibilità di ricomporre i periodi storici attraverso
caratteristiche che, anche se sono proprie di ciascuna epoca, sono
riconducibili a piani di alternanza tra forma e sostanza. Tale espansione che
in questa prima fase della ricerca Hjelmslev individua come una correzione
sulle forme logiche, non esclude le mutazioni che non sono comprese nelle
rappresentazioni, formulabili in contesti dialogici di lingue poco diffuse in
un territorio. A motivare le forme di analisi linguistica, come quelle proposte
nel Resumé, sono i limiti della
criticità di ciascuna epoca o di uno stato linguistico, tali da porsi nei
termini di un’indifferenza referenziale.
Il modello di indeterminatezza
induce alla creatività: un progetto di una differenziazione nella glossematica,
dovuta alla normatività esercitata dalla percezione, permea la ricerca nelle
zone critiche, zone di senso delle figurazioni interne al pensiero. L’elezione
a norma delle forme del discorso permette la canalizzazione attraverso la
sensorialità che porta a creare quella discontinuità, incrementata dalla
poiesi, tra non semiotiche e semiotiche. Per il fatto che nella temporalità
della mediazione che è sistema funzionale dello sviluppo linguistico, l’esempio
della scrittura è tale da essere una logica dello sviluppo interno alla
dialogicità, la nozione di glossa non richiama soltanto una riformulazione
della grammatica ma assimila la lingua a una categoria complessa.
«La
realtà del simbolismo, almeno in una certa misura, ci sembra sia stata
stabilita; ma è una realtà sincronica, non una realtà diacronica. F. de
Saussure, in qualche punto della sua opera, discute della pretesa espressività
dei termini francesi fouet e glas, ma aggiunge: “è sufficiente risalire alle loro forme
latine per accorgersi che all’origine non hanno alcun carattere onomatopeico…
la qualità dei loro suoni attuali, o piuttosto la qualità che a tali suoni si
attribuisce, è un risultato accidentale dell’evoluzione fonetica[103].»
Nella suddivisione esistente
tra la superficie sincronica e quella pancronia della storia il lavoro della
storicità è quello di evidenziare risultati discreti. Essendo una forma della
cultura, la realtà simbolica è espressione di un’evoluzione: il corredo
onomatopeico di assimilazione dei suoni al raggio d’azione della qualità
articolatoria è sede di una sostituzione della forma sonora in operazioni
comprensibili attraverso il simbolo. La comprensione della funzione composta
della sincronia avviene nella ricognizione di suono e delle tipologie di classi
nei morfemi. La rappresentazione delle gerarchie funzionali attraverso il
simbolismo radicato nelle logiche della scrittura, come uno dei piani della
sostanza articolatoria, è compiuta per mezzo di diagrammi logico-funzionali.
A dare senso alla
raffigurazione che Hjelmslev compie nella trattazione delle logiche che servono
per la realizzazione delle definizioni è una forma che da statica, fotografia
di uno stato di lingua, diventa dinamica, nelle corrispondenze funzionali tra le
parti considerate rilevanti per una classe di semantemi.
2.2. Interpretazione e stratificazione dei sensi
La lessicologia che si propone
di riconsiderare il complesso dei vocaboli in una semantica, riconduce
all’autonomia della struttura nella quale è possibile riconoscere le entità. Il
linguaggio è l’insieme delle dipendenze interne che regolano il lessico. La
commutazione è la funzione decisiva per distinguere e demarcare i fatti
linguistici e semiotici. L’olismo che porta alla significazione, ossia al
coordinamento tra forma e sostanza sul piano del contenuto, è fondamentale per
discernere gli stadi di analisi, altrimenti impossibili da individuare. Per
arrivare dalla frase (nexus) ai grammatemi è necessario il lavoro sulla
morfologia.
«In
opposizione sia ai fonemi (in senso lato; e ai grafemi, ecc.) sia ai morfemi,
gli elementi del vocabolario, vocaboli o parole (mots), hanno di
particolare il fatto di essere numerosi; un numero addirittura illimitato e
incalcolabile per principio[104].»
Dal punto di vista del piano
del contenuto si rilevano due proprietà: quella dell’asimmetria distributiva
che permette di individuare le unità e quella dell’omogeneità semantica,
ciascuna legata a effettive forme linguistiche. Il cammino a ritroso che si
serve della commutazione per dividere le radici dalle basi lessicali è
l’analisi che governa i Fondamenti a una teoria del linguaggio e arriva a dare corpo al Resumé. Per ciò che riguarda la proprietà dell’omogeneità
semantica, non esiste una differenza esplicita tra morfemi e semantemi. Lo
strato della sostanza, ossia la significazione, è incanalato nel Resumé attraverso i tre principi accennati di semplicità,
economia e riduzione. La proprietà asimmetrica distributiva permette invece la
suddivisione in morfemi e semantemi o basi lessicali, risultando quindi
maggiormente dettagliata rispetto all’altra, laddove è possibile differenziare
le funzioni[105].
L’apprezzamento collettivo che si oppone al referenzialismo è il sinonimo
dell’arbitrarietà. Le metafore, per esempio, sono qualità di preferenza
attribuite dai parlanti.
L’uso dipende in un certo senso
da un livello immediato di percezione e di significazione che non riguarda il
riferimento a un oggetto del discorso[106].
L’idea di stile o di percezione di un’individualità in un testo permette di
guardare alle invarianti come a varietà: anche le costanti sono da considerare
come occorrenze del testo.
«L’essor
de la logique des prédicats de Frege, tout en représentent un immense progrès
par rapport à la logique d’Aristote, a contribué a créer un malentendu dont les
épistémologies modern ses ont du mal a se libérer. Il comporte, en effet, le
risque de considérer la forme logique comme une “abstraction” de la matière
linguistique[107].»
L’inventario composto da
grandezze, entità con rapporti tra di esse, è costituito da presenza e assenza
delle forme semiotiche. Come nella teoria saussuriana, la lingua è una
semiotica, e i rapporti sintagmatici e paradigmatici sono contemporaneamente
oggetti teorici. Per il fatto che la forma è un percorso e non uno stato, le
metasemiotiche sono identiche alle proprie semiotiche-oggetto. In tal senso i
simboli sono forme particolari di unità nella catena della significazione. La
prima ipotesi in tal senso si trova nel Corso di linguistica generale.
«Let us look first at the
symbol of legend. This is considered, mutatis mutandis, very largely in
the same way as the linguistic sign of the CGL, i.e. in terms of its capacity
for change in time which is the paradoxical and yet inevitable counterpart of
its invariability: “the sign is exposed to alteration because it perpretuates
itself[108].»
Nelle
leggende dei Nibelunghi le unità che si condensano diventano parti del sistema
simbolico per quelle strutture che sono interpretabili ma non assimilabili al
rapporto esistente tra significante e significato. Un esempio è dato dalla
perdita della funzione poetica e dall’incipienza della funzione di
intenzionalità. La perdita della connessione tra le parti di un racconto e
l’assunzione a figura del discorso rende la testualità un luogo di arresto dei
principi di semplicità e di economia.
«It is proposed to
use the name symbolic systems for such structures as are interpretable (i.e. to
which a content-purport may be ordered) but not biplanar (i.e. into which the
simplicity principle does not permit us to encatalyze a content-form)[109].»
Nella
dimensione logica della differenziazione esistente tra il piano del contenuto e
il piano della forma emerge la capacità di relazionare gli elementi di ciascun
piano attraverso un personaggio considerato come simbolo. A suffragare la
sintesi esistente tra la materia e la forma è una sostanziale interpretabilità
infinita delle relazioni che fanno delle funzioni il nucleo distintivo della
logica simbolica.
2.2.0. La sostanza come
schematismo retorico
Come è evidenziato nella Retorica di
Aristotele gli schemi logici sono essenzialmente meccanismi concettuali del
radicamento delle categorie nel discorso. Tale dimensione della formulazione
dei limiti che creano differenza è la colonna portante della funzione retorica.
Come emerge nella Poetica il lavoro di formulazione degli schemi è finalizzato
a conciliare le logiche del discorso alle semiotiche che creano campi
concettuali. Pensare che la norma corrisponda al prodotto della parole, ovvero agli
atti del discorso, riporta alla questione della sostanza logica come a
un’interazione possibile tra il mondo dei giochi sociali e la realtà
sistematica della lingua.
«È
un’illusione pensare che i fatti linguistici siano di ordine differente
rispetto agli altri fatti del mondo, e che i fatti linguistici siano inferiori
agli altri fatti dell’esperienza o che ne siano solo il risultato[110].»
Nella Categoria dei casi è messo in
campo il desiderio di espressione del parlante: esso è un fatto di grammatica e
corrisponde alla parte categoriale che riguarda la scelta del caso[111]. Nella relazione tra il cambiamento della
sostanza e il piano dell’espressione e del contenuto il funzionalismo esterna
una dimensione di pura potenzialità. Uno dei modi di comprendere le lingue è
quello di partire dagli schemi concettuali maggiormente riconoscibili,
abbandonando lo strutturalismo. Per il fatto che il timone, la guida della
suddivisione funzionale è una conseguenza delle categorie, anch’esse mai date
una volta per tutte, il rischio maggiore che ha corso la grammatica
tradizionale è quello di cadere nel circolo vizioso espresso dall’indifferenza
all’interazione tra i piani. Il valore elimina tale problema fin dai primi
momenti di riflessione su uso, schema e forma.
«Il
valore, di cui abbiamo discusso in precedenza, non è che la manifestazione di
una forma nella sostanza, la manifestazione usuale di una forma (cioè,
ripetiamo: di un fatto funzionale)[112].»
A differenziare la teoria
hjelmsleviana da quella saussuriana è l’introduzione del significato
particolare. Tale significato è correlato alle varianti, punti di partenza
della definizione delle nuove costanti, create nel riassemblamento dei
semantemi e con la costituzione dei valori. Nella suddivisione di Starobinski
le unità simboliche sono trattate come distinzioni compiute su attori del
racconto, visti come segni inquadrabili in categorie linguistiche[113]. Alla base della conoscenza simbolica
esistono quindi categorie funzionali che permettono la simbiosi tra fattori
funzionali e varianti, sempre possibili in un campo di valori. Omettendo le
strategie che il soggetto parlante compie per evitare le ambiguità proprie
della dimensione emozionale, le definizioni permettono di creare un lessico che
possa essere di trasposizione della forma generale in costanti di senso.
Il singolo parlante è sempre un
soggetto funzionale alla comunicazione linguistica: l’antecedente e il
conseguente sono dinamiche sinestetiche. Avvicinandosi alla localizzazione
delle tassonomie che regolano le teorie delle catastrofi, il lavoro di
ricostruzione funzionale della forma prende le mosse dalla volontà di non
costruire celle isolate viste come concetti. Senza precludere alla creatività
individuale un ruolo di ridefinizione della relazione tra i fatti linguistici visti
come eventi, la teoria hjelmsleviana induce a ripercorrere i momenti di sintesi
effettuati attraverso i simboli letterari.
«La
forma è costituita dal fatto che queste idee-simbolo sono classificate nella
nostra mente entro certe categorie[114].»
Nelle leggende dei Nibelunghi
analizzate da Saussure, per esempio, il rapporto esistente tra simbolo e
letterarietà della natura simbolica, nella trasposizione di storia in leggenda,
è caratterizzato dai valori e dalle caratteristiche verosimili nella narrazione.
Tale configurazione della ricerca sulla logica del senso letterario, come
funzionale al senso storico, permette di formulare il processo di attribuzione
dei significati attraverso la modalità del simbolo. Negando la sintomaticità
delle idee diventa auspicabile una dimensione del sensibile che non sia
ancorata all’imitazione delle forme storiche viste come semplici azioni
ricorrenti.
2.2.1. La funzione
psicologica delle metafore
Come in un allontanamento della
configurazione logica dalla pura comprensione di un dato storico, il fattore di
destrutturazione del pensiero logico sul prelogico si ricostituisce nel
compiersi del gioco della soggettività. Orlando (1982) sottolinea che la
letteratura fa della metafora una relazione con il meccanismo di riconoscimento
poetico attraverso il confronto con il regresso del pesniero all’infanzia. Il
letterario non è altro che una forma di consapevolezza dell’essere parte di un
continuum logico esperito attraverso l’espressione artistica, come nel
ricondurre a un piano sublogico il processo di coscienza. Alla dimensione
dell’inconscio sostituisce il piano del represso, giocando con il rapporto tra
regresso e represso per arrivare a comprendere il lavoro delle letterature sui
meccanismi linguistici figurali. L’analisi delle metafore pone in rilievo il
percorso di ciascun poeta, scrittore, filosofo attraverso il grado zero del
sillogismo e l’abbandono di esso attraverso l’uso poetico. Anche la scienza ha
ricorso all’uso metaforico per soppiantare l’ignoranza: la massima, l’estraniamento,
l’ironia che dall’uso comune diventa uso scientifico sono tutti mezzi di
avvicinamento della retorica alla figuralità. Il meccanismo che lavora nel
mito, per esempio, è un lavoro mimetico che agisce nell’opera come contenuto e
sullo spettatore, come sintesi che permette di porre la soggettività al centro
del testo messo in atto sulla scena. In tal senso, lo spettatore è parte del
testo come lo è il protagonista, non solo per la mimesis legata alla scrittura
del pathos, che afferra il contenuto del testo per arrivare a che lo fruisce,
ma anche come sintesi passiva della vita dell’uomo che è il lettore di tutte le
vite possibili messe in scena.
«Sappiamo
che parricidio e incesto non esistono, nella tragedia, in forma di desiderio
represso; sono, viceversa, forme efficaci d’una repressione – se per tale
s’intende una forza estranea, ostile, costrittiva quanto all’epoca può esserlo,
rispetto alla volontà umana, l’incomprensibile e inesorabile malignità del
mondo divino[115].»
La maschera tragica dei personaggi
è tale in quanto i fatti che accadono sono privi della forza che invece
possiede il fato, il divino. Nella riformulazione del gioco tragico l’apparenza
è soppiantata dall’energeia che muove ciascuna azione. Il mito è mosso dai
concetti astratti che soltanto la divinità conosce e, nel caso dell’opera di
Sofocle, anche lo spettatore che giudica mimeticamente. L’hamartia, il
fallibilismo, è inevitabile: l’errore è insito nella progressione dell’azione,
in virtù dell’ignavia, dell’ignoranza. A essere costituito in tale successione
dei fatti è il piano simbolico che unisce le tre dimensioni, quella storica
dell’azione, quella letteraria e quella metaforica. La metafora a sua volta
ricostituisce il rapporto tra il passato non conosciuto e il regresso che
caratterizza il pensiero. La maschera non ha valore simbolico, bensì quello di
ricordare i piani diversi che lavorano nell’opera e ne costituiscono il valore.
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[1] Aristotele, Metafisica, 1065 a 22-29. Il problema del nome al pari di uno
stato di realtà è stato affrontato da Harris e Hutton (2007) e permette di
capire che il nominalismo è legato alla definizione dell’oggetto considerato:
la definizione può essere anche il nome stesso, laddove esiste una realtà
definibile che può essere conosciuta e può essere posizionata rispetto a un
orizzonte di senso, stabilendone le proprietà primarie, anche se possiamo
esserne momentaneamente all’oscuro. Un esempio è quello dell’eliocentrismo e
del modo in cui è stato considerato il sole prima e dopo la rivoluzione
eliocentrica: un nome non è privo di relazioni con le condizioni di possibilità
dell’oggetto (cfr. Harris & Hutton, 2007, pp. 40-43).
[4] Come parafrasa Gallavotti: «sono i patimenti che, in
quanto rappresentati dai personaggi, e non sofferti individualmente e nella
realtà dallo spettatore, comportano la catarsi delle emozioni suscitate dalla
tragedia (Gallavotti, Poetica, p.
137)».
[5] Come riassume Gallavotti: «Dopo aver detto che Omero
è autore sia del Margite sia di
poemi seri, Aristotele deve ora aggiungere che compose in maniera drammatica;
infatti vuole poi dimostrare che l’epica omerica offrì gli schemi per tutte le
opere teatrali per quanto riguarda le “forme” dell’arte poetica, cioè non solo
“l’oggetto”, serio oppure ridicolo, ma anche il “modo”, drammatico»
(Gallavotti, Poetica, p. 131).
[7] Guastini, 2003, p. 80.
[8] Guastini, 2003, p. 97.
[10] Una forma interpretativa di Aristotele è contenuta in
poeti come Orazio nell’idea di mimesi come zelosis o emulatio,
ovvero emulazione dei modelli letterari antichi. Con l’avvento di tale
concezione inizia a essere tematizzata l’autorialità poetica.
Con Agostino attraverso l’allegoria si concepisce il
realismo che nelle Sacre Scritture si mostra attraverso il senso figurato. Nel De
Trinitate l’allegoria è definita come
“aliud ex alio significantia”, ossia qualcosa che trae significato da
qualcos’altro.
Un altro esempio è il senso di realtà che si trova in
Dante, agendo secondo il principio della catarsi, ossia della trasformazione
delle passioni in disposizioni virtuose. La Divina Commedia è un esempio di
polisemia del senso che è sia letterale che allegorico, come è evidenziato
nell’Epistola a Cangrande della Scala. La mimesi moderna è quindi
principalmente una imitatio auctoris e
naturae, diventando parte di un
patrimonio letterario oltre che una forma di significazione messa in atto
attraverso l’opera d’arte. L’uomo spirituale non può essere legato
all’idolatria, bensì al realismo simbolico (cfr. Lessing, 1956, p. 347. La sua
definizione di catarsi tragica è ripresa in Halliwell, 2002, pp. 312-315).
[11] La fantasia e l’intelletto sono mossi entrambi dal
desiderio: l’oggetto che è il focus attentivo dell’arte poetica è il punto
iniziale del percorso che permette il ragionamento pragmatico (cfr. Barnouw,
2002, pp. 77-79).
[12] All’interno di questo lavoro terremo presente che la nozione di
schema di Aristotele è molto più vicina a quella di figura, di forma
relazionale; contemporaneamente, nella critica aristotelica, lo schema assume
spesso caratteri legati maggiormente al pensiero che alle strutture naturali.
In alcuni studi recenti la struttura spazio-temporale aristotelica è stata
condensata con quella del pensiero (cfr. Sorabji, 2007, pp. 563-574; id., 1972, pp. 2-17).
[15] Cfr.
Halliwell, op. cit. , p. 172.
[16] La questione del desiderio come rapporto circoscritto
all’opera d’arte permette di pensare alla fruibilità dell’opera come a una
terapia delle emozioni: la filosofia in sé non è in grado di forgiare le anime,
mentre l’arte è il mezzo per eccellenza della catarsi (cfr. Nussbaum, 1996, pp.
87-111).
[17] L’azione come appiglio dell’etica permea la
possibilità di leggere la Poetica
come la forma migliore di realizzazione del bene e della felicità (cfr.
Nussbaum, 1986, pp. 495-538). Per quanto la riproduzione nelle forme di
tragedia e epica sia il modo di riproporre emozioni negative tali da edificare
dopo aver sottratto allo spettatore le azioni sedimentate nella prassi e,
diremmo oggi, inconsciamente subite, l’azione dell’opera d’arte è quella di uno
schema di pulsione esterna.
[24] La differenza sostanziale tra la conoscenza
scientifica e quella del senso comune è la relazione con l’oggetto artistico e
con le forme di tecnica: la pratica artistica allontana dall’ignoranza e
avvicina all’individuazione del bene. Il problema dell’interpretazione
soggettiva non si pone: la visione aristotelica parte del presupposto che il
mondo è lo stesso per tutti gli osservatori (cfr. Aristotele, De
Interpretatione, 16 a; cfr. Harris
& Hutton, 2007, pp. 26-27).
[25] Cfr. Belardi : 1975, Auroux : 1996.
[26] Il problema emerso nel dialogo di Platone, il Cratilo, centra la questione della designazione: la
conclusione secondo la quale il referente è indipendente dal linguaggio dà alla
realtà un’indipendenza sia ontologica sia gnoseologica. Aristotele avvicina il
problema del nome alla questione dell’essenza della realtà: nella Metafisica la sostanza è la cosa stessa e quindi una cosa è in
virtù del suo essere, della sua esistenza. L’essere è considerato da Aristotele
in due sensi: il primo senso è quello accidentale e per sé. Nella sua
spiegazione va dall’attributo all’essere, quindi inizia a spiegare il senso
accidentale in tre casi: il primo caso è quello di due attributi che
appartengono a una stessa cosa (per esempio “il bianco è musico” e “il musico è
bianco” che implicano anche che “l’uomo è musico” e “l’uomo è bianco”); il
secondo caso è quello di un attributo che appartiene alla cosa (per esempio “il
musico è uomo, quindi il musico è accidente dell’uomo”); il terzo è ciò che
appartiene come accidente e di cui è esso stesso predicato, come per esempio
“il non bianco è”. Il secondo senso, ossia l’essere per sé è definito secondo
le figure delle categorie: i significati sono tanti quante sono le figure. Le
categorie sono sette, ovvero la categoria di essenza, di qualità, di quantità,
di relazione, dell’agire o patire, del dove e del quando; l’essere ha
significati corrispondenti a ciascuna. La verità è data dall’esistenza, mentre
la negazione indica la falsità; l’essere o ente significa in potenza o in atto,
per ogni significato corrispondente alle categorie (cfr. Aristotele, Metafisica, V, 7, 1017 a 6- b 14).
[27] Aristotele, Poetica, 21, 8. Anche quando espone le caratteristiche
dell’arte narrativa e della poesia in versi il paragone con l’organismo vivente
è palese: «Quanto all’arte narrativa e poesia in versi, anzitutto è chiaro che
deve comporre i racconti come sono nelle tragedie, drammatici e di un’unica
azione, che sia intera e completa, ed abbia inizio e mezzo e fine, di modo che
procuri il piacere che le è proprio come un essere vivente intero (Aristotele, ivi, 23, 1)».
[28] Cfr. Gallavotti, 1974, 20, 44-48, n. 48.
[30] Ibidem.
[32] Aristotele nella Fisica afferma che la natura e Dio sono due spiegazioni
della causalità: la natura è una fonte interna e una causa del moto e della
stasi (cfr. Aristotele, Fisica, 2.1, 192 b 13-23 e cfr. Zanatta, op. cit., p.
277). Sorabji
(1988) evidenzia che la divergenza esistente tra la causa del moto dei corpi
inanimati e la causa del moto degli animali mette in gioco il problema
dell’infinito, ossia il pensiero in sé (cfr. Sorabji, 1988, pp. 221-226). In
tal senso le spiegazioni causali della materia fisica e quelle delle cause
efficienti degli animali umani diventano entrambe parte della costituzione
naturale del funzionamento dell’attività di attualizzazione dell’energia.
Nel De Caelo Aristotele afferma che il
luogo occupato da ogni essere nella gerarchia cosmica spiega il suo movimento.
L’essere migliore è il motore immobile che è il bene senz’alcuna attività
(Aristotele, De Caelo, II, 12). Quello che viene nominato Dio quindi non è altro che
ciò che è eticamente vero in ogni caso, anche sul piano del pensiero che è in
ultima analisi il mezzo di estrinsecazione dell’infinito e quindi dell’azione
del movimento nelle forme proprie alla natura dell’attività (cfr. Nussbaum,
1996, pp. 57-86).
Per comprendere l’idea di
causa prima in Aristotele è necessario introdurre il concetto di potenza. Nella
Metafisica la
potenza è il principio del movimento o del mutamento che si trova in altra cosa
o in una stessa cosa in quanto altra. Un esempio di Aristotele è quello
dell’arte del costruire che non si trova nella cosa che viene costruita. Il
principio è il primo termine a partire dal quale una cosa è generata oppure è
conosciuta. Sono principi la natura, l’elemento, il pensiero, il volere, la
sostanza e il fine; essi possono essere interni o esterni alla cosa (cfr.
Aristotele, Metafisica, V, 1, 1013 a 1 – 23).
[33] Cfr.
Halliwell, op. cit., pp. 157-164.
[42] A sottolineare la corrispondenza della causa prima
con la causa naturale è per Aristotele la definizione stessa di natura: essa è
il principio del movimento primo che è in ogni essere naturale; è il principio
materiale originario di cui è fatto o da cui deriva qualche oggetto naturale.
La natura di un oggetto di bronzo, per esempio, è il bronzo. L’oggetto naturale
è ciò che è composto di materia e di forma: anche la forma è una natura. Nel
suo senso originario la natura è la sostanza delle cose che posseggono il
principio del movimento che è in potenza o in atto (cfr. Aristotele, Metafisica, V, 4, 1014 b 16-1015 a 3-21).
[44] Cfr. Harris, 2007, p. 52.
[45] Quello che potrebbe far pensare a una referenzialità,
come quella sostenuta da Frege, in realtà non corrisponde a una nozione di
segno o simbolo dello stesso tipo: il presupposto è, al contrario,
logocentrico, poiché non possiamo conoscere gli oggetti del mondo se non
appigliandoci al linguaggio (cfr. Frege, 1879; Id.,
1892, p. 45). Il riferimento e il senso sono le due proprietà del segno. La
questione messa in campo è quella del processo di astrazione che permette la
formazione dei concetti a partire dalla natura. Il linguaggio diventa
integrazione della percezione, e possibilità di connessione tra le funzioni del
pensiero.
[46] La natura propria della definizione rispetto al logos
permea anche il sillogismo: l’intera necessità logica della conclusione
definitoria è un sostrato della sostanza stessa dell’oggetto definito. La
natura astratta delle dimostrazioni non è intesa come separata dalla natura
sostanziale della realtà funzionale del linguaggio: cultura e procedimenti di
attuazione della realtà logica sono intesi come prodotti dell’umanità e quindi
non è possibile tracciare una linea di demarcazione definitiva e netta che sia
relativa alle forme della dimostrazione, al ragionamento e alla logica. La
posizione anti-positivistica di Cassirer e la sua considerazione metafisica
della relatività einsteineana permette di formulare un’ipotesi sulla
concettualità della logica e dei rapporti matematici. A essere messe in gioco
sono alcune variabili fondamentali tra le quali l’assiomaticità dei principi
primi, delle proposizioni (da complesse a molecolari) e della funzione
simbolica dei concetti.
Anche se non sostenuto dalle scienze positive, lo
studio di Cassirer permette di allargare la nozione di giudizio alle scienze
matematiche a sostegno di una logica aristotelica che è specchio della
metafisica attraverso una nozione di concetto che non sia una negazione
completa della realtà naturale (cfr. Cassirer, 1910, pp. 14-26; per
un’inquadratura della filosofia del simbolo di Cassirer cfr. Skidelsky : 2008).
Il taglio sostanzialmente tendente alla descrittività scientifica, rispetto al
periodo storico di Aristotele, potrebbe essere considerato oggi come molto più
filosofico e non legato alle scienze dure.
[48] Esplicitare il modo di funzionamento della mimesi
permette di capire che la natura dell’opera crea l’effetto di catarsi e non è
una sensibilità estranea a essa che determina la realizzazione del fine. La
tendenza al bene è un processo che comprende lo spettatore, come nel caso della
rappresentazione tragica: non può essere spiegata escludendo la ricezione e il
destinatario (cfr. Aristotele, Poetica, 9-12).
[49] Platone, nel Timeo, parla dei poeti come imitatori (come nel Fedro) e di ciò che non è testimoniato dalla scrittura,
come le storie paragonabili alle favole per bambini. Ciò che sfugge ai poeti è
ciò che non è stato testimoniato dalla scrittura ed è anche il fattore che
rende favolosa e quindi non vera (ma verisimile) la storia dei popoli. Ciò che
è scrittura indica la presenza di leggi e di un’organizzazione dello stato
“buona” perché ordinata. Emilio Garroni riprende in considerazione Galvano
della Volpe sul tema del nesso tra significato e suono nella poesia: il suono è
legato al metro e al ritmo, nelle corrispondenze fonico-acustiche con una
predominanza del significato. La questione è affrontata in Salvatore Tedesco
(cfr. Tedesco, 2003, pp. 52-53). In opposizione a questa idea si pone Roman
Jakobson che nelle Tesi del 29 del
Circolo linguistico di Praga evidenzia come a essere in gioco sia la questione
dell’indeterminatezza semantica: “Il predominio della funzione poetica rispetto
a quella referenziale non annulla il riferimento, ma lo rende ambiguo”
(Jakobson, 1992, pp. 208-209). Della Volpe scrive “Polemica su Jakobson” nel
1966: una sovradeterminazione della differenza tra significato e ambiguità
porta a far contrapporre il campo dei sensi con la significazione in generale.
In ogni caso al di là della problematicità del rapporto tra referenzialità e
descrittività del segno linguistico la poesia come altro linguaggio si
costituisce come una lingua di base che non realizza soltanto l’ordine
linguistico.
[50] È la lingua poetica a interporsi e a privare il
sistema complesso di una separazione netta attraverso due costanti che sono il
mito e l’archetipo. La coesistenza dei due sistemi è da rapportare alla
dimensione sintagmatica nei livelli occupati dalle formazioni poetiche (cfr.
Starobinski : 1971). Nel definire tali tipi di formazioni è possibile costruire
una sintesi della realtà del lavoro che compie la logica poetica.
[51] Hjelmslev, 1935, trad. it., p. 190.
[52] Il problema dell’ampiezza del sistema è affrontato
come problema del rapporto nelle categorie dei casi con le altre categorie
linguistiche. La nozione di rection
eleva il valore dei casi alla relazione tra i fatti sintagmatici e i fatti
paradigmatici, opponendosi esplicitamente alla teoria sintattica.
[53] Simile e non identico all’idea di organismo
linguistico sostenuto da Secheahye, allievo di Saussure, consistente nell’idea
di una lingua come un corpo strutturato, senso in realtà contestato da Saussure
nel Corso di linguistica generale.
La sintonia di Hjelmslev con Secheahye si ritrova anche nella definizione di
forma dei Principi di grammatica generale come tutto ciò che, nel segno, è direttamente tangibile, a esclusione
di tutto ciò che è convenzionale (Hjelmslev, 1928, trad. it., p. 92).
[54] La tendenza simbolista che Saussure trova nelle
Leggende germaniche e rovescia nella linguistica generale è rivelata e
accettata dalla scuola di Praga nella complementarità tra diacronia e
sistematicità. Tuttavia l’atto grammaticale è complesso e richiama a sé gli
aspetti sincronici nel significato, nella forma e nel fonema (cfr. Hjelmslev,
1935, trad. it., p. 222).
[55] Hjelmslev, 1928, trad. it., p. 100.
[56] La nozione di rection non si limita alle funzioni possibili di
determinazione, interdipendenza e costellazione. Essa stessa è tuttavia una
nozione insufficiente se si considera la dipendenza tra le parti del discorso
così come sono state presentate nella suddivisione classica tra fonologia e
grammatica. Hjelmslev spiega questo fenomeno nei termini di una comprensione
nella nozione soltanto delle relazioni eterosintagmatiche (cfr. Hjelmslev,
1939, trad. it., p. 146).
[57] Hjelmslev, 1928,
trad. it., p. 146.
[58] Hjelmslev, 1928,
trad. it., pp. 136-137.
[59] Si tratta di quello che Hjelmslev definirebbe semantema
espressivo, almeno nel senso in cui è
l’uso che realizza lo stile.
[60] Secondo Jakobson, per esempio, la metonimia è un
sintagma cristallizzato e assorbito in un sistema.
[61] Hjelmslev, 1928, trad. it., p. 36.
[62] Le cellule sintattiche segmentate come materiale
grammaticale riportano la nozione di significato a quella di forma come stile,
legame rilevato anche da Bally (cfr. Puech e Chiss : 1995).
[63] La cenematica è la teoria della norma
dell’espressione (cfr. Hjelmslev, 1991 [1939]). Vorrei considerare la nozione
di intenzione nel senso generale di una interrelazione tra i segni che appare
al soggetto parlante. Come il senso che Wittgenstein considera in Zettel: Qui con “intenzione” intendo ciò che impiega il
segno nel pensiero. L’intenzione sembra interpretare, sembra dare
l’interpretazione definitiva; non però un segno o un’immagine ulteriore, ma
qualcos’altro: qualcosa che non si può interpretare ulteriormente. Ma si
raggiunge un termine psicologico, non un termine logico” (Wittgenstein, 1967,
p. 51).
[64] Quell’andare verso una determinazione del senso può
essere rapportata alla tendenza simbolista della quale parla Hjelmslev nei Principi
di grammatica generale che
approfondiremo nel prossimo paragrafo. Una tendenza simile, come vedremo, è
quella che rileva Saussure nelle Leggende germaniche, snodando tutta la semiologia della narrazione in una
riuscita, per così dire, della mitologia del senso che non ha a che fare
soltanto con il singolo personaggio ma con l’interno del flusso d’azione, e con
la sintassi della storia che si snoda.
[65] Nella LIS la presenza di forme diverse di
rappresentazione logica ha come conseguenza la manifestazione di una gradualità
di fenomeni oppositivi, ossimoricamente. Per esempio nei segni vino/bere o
ospedale/pericoloso in cui il contesto e gli strumenti linguistico-cotestuali
necessitano entrambi il richiamo alla particolare forma segnica dell’ipoicona
per essere raccolti dalla meta-linguisticità espressiva della scrittura.
[66] La letteratura è intrisa di una diagrammaticità senza
la quale non sarebbe possibile la comprensione e l’elaborazione di uno spazio
di significazione privato della forma linguistica della parole, a difesa l’autonomia della significazione nei testi
poetici (cfr. Stjernfelt : 2007).
[67] Cfr. Lepschy, 2007, p. 67.
[68] Guastini, 2010, p. 372.
[69] Aristotele considera la visione dell’Edipo come parte
della composizione e insieme a essa scopre il fine dell’opera poetica: «Oppure
è possibile anche agire non avendo cognizione di agire in direzione del
terribile e riconoscere solo in seguito la philia, come l’Edipo di Sofocle (Ivi, p. 77).»
[70] Hjelmslev, 1991,
p. 221.
[71] Cfr. Dupont-Roc, Lallot: 1980.
[72] Hjelmslev, 1999,
p. 102.
[73] Cfr. Saussure,
2005, p. 23.
[74] Cfr. Garroni : 1998.
[75] In un recente lavoro su Jakobson si rileva la
relazione tra la funzione poetica e la funzione estetica: «Alla funzione
estetica, già formalizzata dagli studiosi della Scuola di Praga, corrisponde,
infine, nello schema di Jakobson alla funzione poetica da lui identificata nel
“rilievo del messaggio in sé”. Per analizzarla egli prende le mosse, sulla scia
di Saussure, dai due processi fondamentali della selezione e della
combinazione. Mentre normalmente la selezione “è operata sulla base
dell’equivalenza, della similarità e della dissimilarità, della sinonimia e
dell’antinomia”, la combinazione, ossia la costruzione della sequenza, “si basa
sulla contiguità» (Milani, 2007, p. 11).
[76] Hjelmslev, 1968, p. 116.
[77] Hjelmslev, 1988 [1941], p. 139.
[78] Come emerge da Tesauro, nella metafora vi è la
possibilità di far “trasparire il vero come per un velo” per intendere quello
che si tace in quel discorso veloce, un vero e proprio sillogismo sintetizzato
dalla figura del dialogo (cfr. Morpurgo Tagliabue, 1955, p. 180).
[79] Saussure, 1986, p. 453.
[80] Individuare due tipi di poesia, politica e privata, e
di un altro tipo, ossia didascalica permette a Benjamin di affidare al passato
la misura stessa della vita. Nei due tipi letterari, quello visionario e quello
riflessivo, l’indagine sulla letteralità diventa un modo di formare funzioni
sociali della lingua poetica (cfr. Benjamin, 1982, p. 1043).
[81] Picciarelli, 1998, p. LXXI.
[82] Bachtin, 1926, p. 51.
[83] Cfr. Hjelmslev,
1935, p. 134.
[84] Id., p. 95.
[85] Saussure, 2005, pp. 70-71. L’effetto connotativo non
è soltanto un fenomeno semiotico aggiunto a un altro logicamente anteriore
(cfr. Prieto, 1991, p. 55).
[86] Hjelmslev, 1991,
p. 150.
[87] Hjelmslev, 1998,
pp. 108-109.
[88] Id., p. 97.
[89] Cfr. Sechehaye,
1908a, p. 129.
[90] Hjelmslev, 1998,
p. 177.
[91] Saussure, 2005, p.
72.
[92] Hjelmslev, 1998,
p. 97.
[93] Cfr. Whitfield, in
Hjelmslev, 2009, p. 34.
[94] Un esempio è dato dalla presenza, in entrambi i
piani, quello dell’espressione e quello del contenuto, delle sottospecie
semplici (temati e caratteri) e dei sottotipi semplici (centrifughi e
centripeti). A essere messi in gioco sono dal lato dei temati, la suddivisione
in derivativi e consonanti (sottotipi centrifughi), radicali e vocali
(sottotipi centripeti); invece, dal lato dei caratteri, anche in questo caso
sia sul piano plerematico che su quello cenematico, ossia dell’espressione e
del contenuto, sono considerati pertinenti i caratteri nominali, gli accenti,
il carattere verbale e la modulazione (cfr. Whitfield, op. cit., p. 39).
[95] Hjelmslev, 2009,
p. 45.
[96] Hjelmslev, 1991,
p. 222.
[97] Hjelmslev, 2009,
p. 47.
[98] Hjelmslev, 2009,
p. 53.
[99] Meli, M., in
Hjelmslev, 1991, p. 199.
[100] Hjelmslev, 1991,
p. 140.
[102] Hjelmslev, 1998,
p. 193.
[103] Hjelmslev, 1998,
p. 153. Cfr. Saussure, 1922, p. 102.
[104] Hjelmslev, 1957, p. 128. Per un approfondimento sulla
morfologia rispetto alle unità del lessico cfr. Hjelmslev 1933, 1937, 1938,
1939.
[105] Cfr. Antinucci : 1969, Garroni : 1972, Jakobson :
1959, Meli : 1988, Zinna : 1990.
[106] Cfr. Hjelmslev, 1954, pp. 53-60.
[107] Almeida, 1997, p. 3.
[108] Arrivé, 1992, p.
25.
[109] Hjelmslev, 1963,
p. 113.
[110] Hjelmslev, 1935,
p. 170.
[111] Cfr. Hjelmslev,
1935, p. 191.
[112] Hjelmslev, 1935,
p. 129.
[113] Starobinski, 1979, p. 5.
[114] Hjelmslev, 1998, p. 90.
[115] Orlando, 1982, p. 250.
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