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lunedì 26 marzo 2012

Oltre l’indifferenza


Nella sua casa, lontano dalle musiche che ossessionano, Paul andava su e giù dall’amaca, cercando un riposo che fosse meno ovvio di quello portato dalla notte. Dopo alcuni giorni trascorsi nella solitudine del suo letto si era limitato a riaffacciarsi alla finestra, controllando se i fiori fossero appassiti, se il mercato avesse levato via le tende e se mai Simon fosse ancora in giro per una sigaretta sul balcone. Il suo cuore era meno gonfio di lacrime, i suoi pensieri meno torbidi del giorno in cui era caduto dal pontile. Nessuno lo aveva chiamato, la sua anima era soppiantata dall’aria fresca e primaverile che non portava nella sua casa altro che nostalgia. Il passato era ritornato senza nessuna presenza umana, era solitario e visionario. Anche il suono del campanello nella stanza appena arredata era un eco della vita altrui. Seduti come commensali, i suoi pensieri erano meno ovvi di quelli della televisione ma meno nitidi: apparivano come prigionieri di un vento anarchico, privi di una dimora fissa. Quella cena era già accaduta, quel posto a sedere dietro la barriera del dolore della perdita era intoccabile.
Ripensando alla sua vita Paul aveva perso il senso del tempo. Ora, come sempre dopo una visita, aleggiava quel senso di inatteso, quello del non fatto, del soppiantato, allontanato dalla sua immagine della realtà. Riaffioravano emozioni, nalle valanghe dei ricordi come a riemergere nella pioggia della speranza, volontà di vedere senza mezze misure, vedere il giorno fiorire come un vestito fresco e liscio, acqua che dai pensieri arriva alla germinazione. Accadeva sempre, quando si immergeva nella ricerca dei ricordi, a quegli ologrammi che nominava con nomi di donna che assorbivano solo fatti spiacevoli del suo trascorso. Altre immagini erano come apparizioni e come un tappeto volante distruggevano il senso del cammino lento e della riflessione. Poche persone avevano sorvolato il frastuono del suo silenzio, quando stava seduto per non girare l’angolo della notte e pensare all’alba. Appariva come una mossa decentrata, uno scarto da fare proprio, come a non poter essere assunto a pilastro del futuro. Ancora un’azione solitaria, un feticcio da estirpare dal giardino. Si guardava allo specchio e vedeva un riaggomitolarsi di mosse sbagliate, di percorsi storpiati dall’intangibile. Sperava di rivederne il compitare nel futuro di una famiglia, ma sapeva bene che niente è sostituibile all’affidabilità del suo viso. Quale persona lo avrebbe ancora avvicinato senza emettere un sibilo di sgomento, inatteso? Un abbandono del primo desiderio di riconcialirsi con il mondo fu l’unico spettro di emozione che riuscì a interagire con la sua indifferenza. Come a essere sempre seduto nel suo corridoio dimesso, risaliva sull’albero della coscienza come per riammettere il suo animo alla corte della vita. 
Proclamava al suo impalpabile sentimento, convinto di essere come molti altri seguaci di un senso nascosto, reale e finito. Simon era ancora nella caduta di quel giorno, forse lo cercava come fosse lui stesso un puntino sullo sfondo, sulle strade, incendiate dai girovaghi. Il suo sorriso riaffiorava nella coltre dei passanti. Gli occhi senza tempo, come un segreto riposto nel tesoro unico delle speranze della giovinezza, a voler riaccordare la terra alla luna. Lei non era un desiderio, non era un’apparizione, non era una certezza per il futuro. Granelli di sabbia nelle pareti della solitudine, un album fotografico di luoghi mai visti dal vero. Eppure le immagini erano prodotte da pellicole toccate anche da altri, sentite da un estraneo, prima di riaffondare nel suo cassetto. Come poteva averle dimenticate? Ora riaffondava in un particolare di quelle immagini, ma ne percepiva la dimensione onirica. Avrebbe dovuto essere da un’altra parte del mondo, per ricominciare a essere strumento di un domani.
Scese dalla sua pianta magica, dalle favole raccontate nella sua infinzia da strani contrabbandieri del sogno. Accolto dalle vecchie scarpe e ritornato alla scrivania proprose alle sue orecchie un tintinnio come fosse uno scioglilingua, propose di non essere un vecchio vegliardo e si lasciò andare alla filosofia di un’ora senza guazzabugli di immagini. Risaltò un sogno, in una spiaggia assolata, di qualcuno che lo cercò e gli disse di non temere troppo i suoi mostri del passato. Lo prese per mano, vestito di bianco com’era sempre quando appariva. Aprì una porta e lo lasciò andare, sentendo che quell’uomo-angelo era sempre lui, senza nostalgia, senza rimorso, senza altri inganni. Chiuse la porta e si svegliò: la notte allineava i pensieri ai desideri, nel calore di un passato mai arenato, nella certezza di una fioritura, nella sicurezza di poter essere, ancora. Quando lui ritornò sotto le spoglie della sua prima esistenza, cercò nella consapevolezza della complicità una dimensione onirica, indisponente per il giorno. 

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