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mercoledì 14 maggio 2014

Silvia Redente Emozionalità e causalità della scrittura Dai racconti alle forme gestuali


Silvia Redente
Emozionalità e causalità della scrittura
Dai racconti alle forme gestuali


“Leggiamo una poesia, e questa ci fa una certa impressione. «Mentre leggi, senti la medesima cosa che senti mentre leggi qualcosa che ti è indifferente?» - Come ho imparato a rispondere a questa domanda? Forse dirò: «No, naturalmente!» - e questo vuol dire né più né meno che: questo mi afferra, il resto no” (Wittgenstein, 1967, p. 37).


0. Premessa

Frequentemente le posizioni che guardano alle realtà mediatiche della parola considerata naturale in opposizione elettiva alle imminenze di forme vicine alla spontaneità non verbale sono ritenute antitetiche alla psicologia del soggetto parlante. Secondo Wittgenstein l’individualità non va ad inficiare totalmente la consapevolezza collettiva: l’introspezione coniugata alla ragione riassorbe necessariamente la psicologia generale del gioco linguistico. “Voglio dire, propriamente, che gli scrupoli che si provano quando si pensa una certa cosa, cominciano (hanno le loro radici) nell’istinto. O anche così: Il giuoco linguistico non ha la sua origine nella riflessione. La riflessione è una parte del gioco linguistico” (Wittgenstein, 1967, p. 85). Molti autori contemporanei hanno evidenziato i caratteri morfemici del comportamento simbolico. Cimatti (2007) mette in evidenza un carattere importante delle formazioni del linguaggio: esse sono sistematiche così come lo è il mobile stormo nel cielo. Un paragone che permette di vedere in pochi attimi l’intangibilità della significazione, e anche l’inafferrabilità di essa. Harris (2007) analizza una serie di possibili definizioni che si riferiscono non soltanto ai linguaggi formalizzati, ma che si trovano in uso nella prassi quotidiana, chiamando in causa la gestualità, come nel caso delle definizioni ostensive. La forma di emozionalità del linguaggio è manifestata dalla reciprocità dei codici, in senso prietiano, di codici specifici e tendenzialmente complementari, atti ad essere tradotti l’uno nell’altro. Diventa insensato, quindi, chiedere ancora alla lingua di fare delle unità che la rappresentano veicolarizzazioni di altri sensi? E fino a che punto è lecito parlare di veicolarizzazione dell’articolazione linguistica nelle forme poetiche?


1.      Dai segni gestuali alle abitudini verbali

Delsaut (1975) mostra come l’organizzazione spaziale condizioni quella sociale della prassi comunicativa di un gruppo di persone. In particolare presenta le fotografie di un’abitazione di operai attraverso le quali “si è voluto suggerire la corrispondenza […] tra il modo di appropriazione dello spazio abitato e l’organizzazione del discorso popolare” (Delsaut, 1975, p. 21). Ciò su cui dobbiamo puntare l’attenzione è l’evidente rapporto esistente tra la lingua e un tipo di cultura principalmente orale. Si tratta di una comunità in cui la vita è scandita dalla lotta per la sopravvivenza in un’organizzazione spaziale in cui non esiste “nessuno spazio assegnato alle persone e agli oggetti: il contatto tra i membri della famiglia è raramente interrotto. Qualsiasi cosa facciano, tutti gli abitanti della casa si trovano praticamente raggruppati nello spazio comune” (Ivi, p. 23). Non c’è un criterio che stabilisce le regole di convivenza, se non quello dettato dalla contingenza. Le persone usano gli oggetti così come usano le parole, senza fare progetti a lungo termine, non potendo che vivere in base alle necessità di ciascun momento. La forma di vita è quella di un’attività comunicativa verbale orale spontanea e istintiva. È ciò che è naturale della lingua: un evento irripetibile e originale. Il mondo della comunicazione verbale orale di questa comunità è un buon esempio di quelli che Vygotskij (1934) chiama “concetti quotidiani” della lingua materna, appresi senza bisogno di intermediari come la scuola, propri dell’ambiente naturale in cui il bambino viene a trovarsi. Possiamo chiederci, tuttavia, in che senso si muove il rapporto tra lo spazio e la lingua. Ossia, è la lingua che influenza l’organizzazione spaziale o è lo spazio che la condiziona? L’esempio appena presentato della casa di un operaio dimostra come sia dal lato della lingua che dal versante dello spazio ci si scontra con una necessità e irrimediabilità. Non c’è un’esplicita possibilità di scelta autocosciente da parte del parlante, né per ciò che riguarda l’organizzazione dello spazio né per la lingua, nel senso in cui non esiste alcuna problematica rispetto a una nomologia della prassi sociale. Ciò che accade è ciò che è accettabile. Si possono inventare nomi nuovi e diversi per le stanze, un idioletto privato, poiché non c’è un punto di riferimento a cui adeguarsi, come potrebbe esserci invece in un’istituzione quale la scuola o un ufficio. Il lavoro compiuto in fabbrica è ripetitivo e meccanico, la lingua che si parla è una catena automatica e spontanea. Quanto influisce, in questo contesto, ciò che si vede su ciò che si dice e viceversa? A questa domanda possiamo rispondere pensando alle forme visivo-gestuali che accompagnano la prassi verbale quotidiana fino a diventarne parte integrante. L’incisività del rapporto tra lingua parlata, lingua scritta e segni gestuali è rilevata dall’analisi della sintassi dei gesti che accompagnano il discorso, poiché ne mettono in evidenza la sostanziale sintatticità.


1.1. Teorie sulla scrittura dei tratti gestuali

In diversi lavori Kendon sottolinea la possibilità di analizzare i gesti attraverso semiotiche scritte. In un certo senso ci sono grafemi gestuali, unità minime di articolazione delle forme segniche che differenziano un gesto emblematico da uno o più tratti distintivi di altri tipi di gestualità. Almeno in due sistemi troviamo modi di formazione dei segni gestuali, ossia nelle situazioni che Kendon (2004) denomina “face-to-face”, faccia a faccia e nelle dimensioni sociali più comuni ed estese in cui si è organizzati per occasioni specifiche, come una partita di baseball. In un certo senso la copresenza, il fatto che deve esserci un corpo e un insieme di altri corpi è un fondamento che fa dell’interlocuzione un modo per annientare l’illimitatezza infinita del regresso esistenziale: l’argomento della finitezza, del limite dello stimolo è un paradosso che la semiologia spesso deve affrontare per capire cosa si intende per significazione, nel campo specifico di una delineazione del senso del discorso. L’analisi linguistica rimette in gioco la transizione specifica della forma testimoniata dalla scrittura, e in ciò si trova la natura duplice del linguaggio, l’esistenza epistemica della quale è in continua formazione. A partire dai dati sperimentali fino ad ora raccolti sulla possibilità di trascrivere le forme gestuali delle lingue segnate, insieme ai segni delle lingue che i sordi e i sordomuti utilizzano possiamo ipotizzare che ci sia una possibilità aperta di formalizzazione delle capacità espressive della gestualità: un insieme di tratti semantici precisi sono individuabili e possono trovare una dimensione semiotica, una sorta di residenza astratta sia della comunicazione verbale, sia di quella non ancora linguisticizzata.


2. Storie e racconti

Come condizione di esistenza delle storie, cosa dobbiamo considerare fondativo? In altre parole, da un certo punto di vista, cosa contraddistingue la funzione linguistica della scrittura dall’esperienza che facciamo del linguaggio? Da molti anni di ricerche nel campo semiologico è stata rilevata l’importanza della distinzione tra struttura semiotica e struttura linguistica: questa differenziazione si trova alla base della questione più volte ripresa a partire da Saussure sull’identità linguistica. In questo caso vorrei prendere in considerazione la nozione di forma linguistica nella sua specifica attribuzione ai generi di scrittura come verbalità progressiva e non cristallizzata. In questo senso le leggende germaniche che sono state analizzate sulla scia del pensiero saussuriano, come in Prosdocimi (1983) permettono di dare una consistenza ai termini “personaggio”, “simbolo”, e in senso più ampio a quelli di “narrazione”, “storia”, nella loro opposizione o complementarità dinamica con la realtà linguistica e semiotica del senso comune, nelle quali sono sedimentate le logiche di formazione. L’ipotesi di partenza è che l’intento interpretativo delle forme scritte rispetto alla realtà contingente è quello di fermare alcune sincronie e stati di lingua attraverso costanti più o meno complesse che si ritrovano in ogni forma logica. L’intento è trovare e differenziare le forme emblematiche nei termini di variazioni dei generi nelle temporalità del discorso. Parliamo qui della già abusata nozione di genere linguistico e semiologico. In effetti, la scrittura ha almeno due proprietà: è la forma specifica di analisi delle unità semiologiche ed è argine della relazionalità dei segni; si parla di scrivibilità proprio per indicare lo slittamento continuo che va dalle pratiche del senso comune alla pertinentizzazione dei sensi non ancora cristallizzati e, infine, alla tradizione[1]. Cosa significa, in questi termini, destrutturare il linguaggio? Ha senso pensare di poterlo analizzare come se fossimo capaci di comprenderlo? Wittgenstein ci dà la possibilità di riflettere sull’immagine linguistica rispetto alla rappresentazione. Sarebbe possibile scolpire la progettualità delle logiche esistenziali o di primo approccio di analisi dell’intuizione logica. “L’avere l’esperienza vissuta di un significato e l’avere l’esperienza vissuta di un’immagine mentale. «In entrambi i casi si ha l’esperienza vissuta di qualcosa», si vorrebbe dire, «soltanto si esperiscono cose diverse. Alla coscienza Ë presentato un contenuto diverso – un contenuto diverso le sta di fronte». – Qual è il contenuto dell’esperienza vissuta di una rappresentazione? Si risponde con un’immagine o con una descrizione” (Wittgenstein, 1953, p. 232). Se attraverso l’analisi dell’esperienza è possibile ritagliare il fenomeno e circoscrivere il tipo di narratività che è in gioco la differenza tra linguaggio e lingua che Saussure introduce nei tre corsi di Linguistica generale può sottendere soluzioni ulteriori. Per ipotesi, riprendendo il pensiero prietiano, è possibile incanalare le “pratiche teoriche” radicate nell’evoluzione linguistica dell’essere umano nel “genere” scientifico. In gioco ci sono non soltanto chiavi di lettura differenti, ma vere e proprie costanti emotive che non possono non essere presenti nelle possibili forme di emozionalità poetiche mostrate da ciascuna forma linguistica.


2.1. “Esteriorità” e causalità del personaggio-segno

A partire dalle prime ricerche saussuriane sulla pregnanza della letteratura nella linguistica della parole il personaggio letterario diventa simbolo o risoluzione di insiemi di caratteristiche che un segno linguistico ha in una storia intesa come narrazione. In una sorta di repertorio che il simbolo narrativo espone alla storia (per esempio nella microstoria del racconto leggendario) la poetica del personaggio diventa maggiormente marcata in ogni passaggio da una scena alla successiva, definendo i contorni di una caducità dell’espressione rispetto al contenuto. In altre parole l’espressione perde il contatto con un’esteriorità a-linguistica e diventa essa stessa luogo simbolico. Cosa significa circoscrivere una proprietà rispetto ad un’altra? A volte Saussure sembra sottintendere che la differenza tra due segni deve essere considerata come diversificazione di singole proprietà. Sebbene un segno in sé non sia definibile, è necessario pensare ad esso come a un modello del pensiero che può essere frainteso, condiviso e quindi differenziato dagli altri in un segmento della parole a formare il segno linguistico complesso della scrittura o grafema. Nelle ipotesi della naturalizzazione della mente la forma linguistica assume una caratteristica particolare che è quella di una distanza anche quantitativa dalle semiotiche radicate nei sensi. A partire dalla prospettiva evoluzionista non possiamo ricavare una serie di proprietà dirompenti della lingua se non incastoniamo nella stessa corona altre gemme che sono proprietà fondative dell’uomo come essere biologico anche se non ancora del tutto integrato nella semiosi linguistica. Nel suo movimento di ascensione la lingua non ha determinato, in sé, altre logiche che retrospettivamente hanno agito nella semiosi della biologia umana. C’è un prima e c’è un dopo, più o meno riconoscibili, che fanno di una lingua una lingua; tuttavia non si determina in questi termini che un universo positivo in qualche modo già dato, in cui l’umano ha da lavorare a lungo per ambientarsi. Sappiamo che per l’uomo non c’è un habitat naturale, mentre c’è per una lepre e per un coleottero, o almeno c’è stato. Dire che la determinazione ambientale non ha a che fare con i processi di apprendimento di una lingua sarebbe quindi insensato, ma il processo stesso potrebbe invece essere dimenticato, messo da parte, se ci poniamo sul piano dell’espressione linguistica in atto tra i parlanti. Da questo punto di vista la crescita del linguaggio non è rilevante, o, ancora meglio, non c’è una crescita del linguaggio: esso raccoglie i fatti di lingua, da un punto di vista sincronico, e anche nel dominio delle azioni verbali che i parlanti compiono non c’è un tempo da cronometrare, al di là della successione data dalla consistenza stessa delle parole, dalla sintatticità che dà la forma al senso. Quale deve essere, allora, la determinazione formale della complessità linguistica? Da questa prospettiva il termine indeterminatezza sembra voler annullare la domanda sulla selezione generale del significato: ciò che è determinato non ha a che fare con la formazione ma con il cristallizzato, ereditato da forme che hanno mutato valore e da piccoli segmenti di senso che muovono altre forme. Per Saussure dare una distanza da un segno all’altro devierebbe l’idea stessa di lingua, di segmento funzionale al linguaggio. Non c’è nessuna forma più rilevante di un’altra forma, non c’è segno più importante di un altro nella catena della significazione. Purtroppo però questo non sempre è valido nella storia delle lingue, quando il potere della lettera, per così dire, prende il sopravvento. La stessa scrittura è, per Saussure, pericolosa, per la sua forza ordinatrice. Cosa è da ordinare nella lingua che non sia già, in qualche modo, stato adottato dalla forma linguistica stessa?


2.2. Funzionalismo e categorie come strutture emozionali

Nelle lingue gestuali è evidente il rapporto tra forma e senso nei termini di categorie stabili. Dire categorie è diverso dal dire tempi verbali, o modi, o tutto ciò che ha a che fare con la grammatica e la sintassi. Il tipo di algebra del segno linguistico è in relazione con le coordinate spazio-temporali delle lingue prima ancora delle formazioni in gerarchie d’analisi testuale. Ed è proprio su queste categorie che la relazione tra il particolare e il generale ha una esplicitazione attraverso la lingua. Pensiamo a cosa contraddistingue una poesia da un fraseggiare comune, tra due persone, nella lavorazione che esse danno alla letteralità. Non si tratta di fare a meno di una logica ma, al contrario, di formare attraverso pezzi della stessa stoffa, nella metafora saussuriana, altri vestiti, nuovi, che hanno fattezza simile tra di essi ma mai identica. Se chiariamo in che senso questo avviene riusciamo a capire meglio che non ha senso parlare di identità linguistica, perché, da un lato, è come qualcosa di già dato, e, dall’altro, per il fatto che nel flusso del linguaggio niente rimane uguale: ci sono somiglianze ma non equivalenze, a meno che non ci muoviamo nei mari di altri linguaggi, come quelli della matematica algebrica, per esempio. Attraverso la costituzione di una diagrammaticità che percorre i segni senza forare le ruote della significazione, senza fermare l’auriga linguistica, si realizza il percorso lineare del senso. In effetti, la sensazione linguistica non ha bisogno di una gerarchia: consolidata nell’apparizione delle espressioni, essa non si radica in una logica specifica. Una postura non ha una sensibilità linguistica, malgrado sia un comportamento complesso; non è la complessità che dà la sensazione e l’emozionalità linguistica. In effetti, la funzione emotiva sembra ricoprire ciascun enunciato, anche se dobbiamo ammettere che in una formula matematica, ad esempio, è impossibile ritrovare una emozione linguistica. Al contrario, nelle forme di discorso elaborato avviene una sorta di sutura con la pura logica della sintassi, si apre al gioco anche la verità stessa e diventa logicamente accettabile anche il più lontano giocatore: diventa una funzione del senso o del gioco linguistico.

3. Reversibilità o irreversibilità?

Se si cerca di circoscrivere i luoghi della significazione attraverso i diagrammi, come nel caso dei grafi esistenziali peirceani, o anche nelle semplici legende di una mappa geografica, si potrebbe dimenticare il fatto che una indicizzazione non è una lingua, né della lingua mostra le proprietà. Guardiamo invece dove si mostra la specificità della narrazione, nei luoghi circoscritti dalle visioni dei poeti, in cui spesso si simbolizza qualcosa, spesso le donne dei poeti o le terre da loro auspicate allegoricamente come sogni irraggiungibili. Come Saussure difende sono irrisorie, rispetto alla comprensione in atto, le differenze tra senso proprio e senso figurato, in virtù della fondamentale negatività della lingua. “Non c’è differenza tra il senso proprio e il senso figurato delle parole (oppure: le parole non hanno senso figurato più di quanto abbiano senso proprio) perché il loro senso è eminentemente negativo” (Saussure, 2005, p. 80). È sorprendente come le parole, se portate alla luce come oggetti, diventano immagine di altro tipo, anche non verbale, e lo diventano nello stesso senso in cui in un dipinto dei macchiaioli vediamo paesaggi, oggetti materiali e lo vediamo non come esperienza privata, ma condivisa. Anche le parole sono gesti del pensiero, lo sono come espressività divergente. Quello che comunemente si chiama senso figurato è allora un altro senso che tuttavia non è, in qualche modo, paragonabile ad una “normalità” della stessa parola che ha un valore determinato soltanto nel contesto d’uso. Ma è anche vero che non tutto è poesia. Come pensare, in realtà, che la limitazione che in alcuni contesti viene data al significato sia consolidata nell’uso del senso comune? Il cambiamento introdotto dalla scrittura poetica influenza anche il modo di usare le stesse parole nella prassi quotidiana: fino a che punto è un’immagine di qualcos’altro, di altre categorie mentali?


3.1. Per una destrutturabilità progressiva

Wittgenstein suggerisce la somiglianza delle parole alle immagini come forme o rappresentazioni. Si mette in campo una questione più volte affrontata di recente nelle scienze cognitive e nelle filosofie del linguaggio moderne. “Il concetto di “immagine interna” è ingannevole, perché a modello di questo concetto si prende “l’immagine esterna”; e tuttavia gli impieghi delle parole che denotano questi concetti non sono tra loro più simili di quanto non lo siano quelli di «segno numerico» e di «numero»” (Wittgenstein, 1953, p. 259). Tuttavia Wittgenstein non sembra avere dubbi sull’esteriorità, o meglio sull’aspetto pubblico del senso: è come se ci volesse dire di non complicare ulteriormente il mondo delle parole, di non farne feticci assurdi, come nel caso del “segno numerico ideale”. Il segno “2” non è che un numero, e la parola numero ha già la sua complessità. Non c’è un esterno da contrapporre a un interno, nessun “2” è al di fuori di qualcosa o all’interno di qualcos’altro, così come nella poesia nessuna immagine-oggetto è nella testa di chi legge, ma non è neanche al di fuori della portata esistenziale del discorso poetico. La sua esistenza è indubitabile, è l’identità iniziale che per Saussure è la prima cosa semplice che ci viene data di fronte agli occhi. L’idea di una decostruzione delle forme linguistiche che lo strutturalismo ha cercato di sostenere non è uno “scavare a fondo” per trovare in un luogo prestabilito un suo tesoro, le verità sulla lingua o sul significato di una parola della lingua. Proprio perché non c’è alcun pozzo dei desideri alla base dell’arcobaleno del linguaggio, l’esistenza semiologica non ha molto a che vedere con la verità in sé, ma è mezzo e modo di approdo ad essa. Questo sarebbe possibile se mai avessimo quell’occhio mentale utile ad arrivare ad uno sfondo condiviso di forme linguistiche accettate da ogni soggetto parlante in uno stesso percorso linguistico. Se partiamo dalla premessa che il gioco linguistico ha una sua verità, possiamo pensare di condividere un luogo di sensi che circoscrive quella città invisibile che fa parte del nostro sogno semiotico, il “dove” che si trasforma nel “come”: si costituiscono in breve i modi semiologici e semantici.


3.2. Molteplicità delle figure linguistiche: dimenticare i sensi

In alcuni luoghi comuni delle forme linguistiche troviamo esperienze di “dimenticanza” o di smarrimento che l’espressione linguistica accompagna. Penso alle situazioni di imbarazzo che vengono chiamate di “asocialità”, per un uso assoluto di emblematicità del senso comune. In altre parole è come se la figura dello smarrimento portasse non forme nuove o giochi di segni da riformulare e riadattare al contesto d’uso, ma come se la parola pronunciata fosse deformata o, come spesso si dice, appartenente a un’altra lingua. È proprio di questo che si tratta. Quando si dicono espressioni come “ma che lingua parli?” o, come ho avuto modo di sentire di frequente, “parli arabo?” si fa riferimento a una figura del significato che non è rintracciabile al di fuori di una tradizione ben determinata e basata su principi a priori che possono essere considerati ormai superati, alinguistici. È come pensare a due generazioni di lingue che si differenziano o pretendano di differenziarsi sulla base di etichette contenute in classificazioni ristagnanti senza alcuna reciprocità. Si tratta appunto di un’immagine interna che ci si illude di non poter comunicare, come se non si trattasse di parole ma di oggetti ognuno comprendente una funzione che è straniera all’altro. Il punto è che non ci sono funzioni che una parola qualsiasi, potenzialmente, non può svolgere. Il tutto si risolve nel capire perché essa non diventa condivisibile per il parlante, per quale motivo non è sentita come comunicabile. Non si tratta di alcun problema patologico, ma di una sorta di coscienza linguistica personale che non “ha la volontà” di voler cambiare l’ordine dei suoi calcoli e le progettualità che fanno di una figura un vero e proprio abito, nei termini peirceani. Si pensi a quale idea ha questo particolare parlante del mondo: egli pensa che la sua lingua sia intraducibile, pensa di poter essere solo. La sua illusione è lecita, perché il suo linguaggio ha molte più ancore di quelle che egli stesso è capace di manovrare, di gestire. Il primo uomo pensava probabilmente di dover trovare qualcosa di diverso da sé e non a qualcosa o qualcuno che fosse esattamente come lui. Ma s’illudeva: come il suo riflesso nello stagno era facilmente cancellabile dalle onde lo era anche quello delle altre cose materiali e delle altre facce. Il segno-uomo è modificato inevitabilmente, e la sua volontà non ha a che vedere con la sua coscienza o, come si spesso detto, con la sua autocoscienza. Non è chiaro in alcun caso cosa significa aver consapevolezza di un fatto che riguarda se stessi: ciò che accade a un uomo è qualcosa che l’uomo vive, e che in qualche modo può soltanto subire. Tutto ciò che pensiamo di racchiudere nella parola fatti, con un verismo spropositato, in realtà non ha a che fare con la vita umana, ma con altre forme di percezione semiotica che, come già Darwin affermò, sono comuni a molte forme di vita animale, non soltanto dell’uomo. Una conchiglia trovata per terra e risalente a migliaia di anni or sono non ha altro che una sua identità, che l’individuo può intimamante sentire parte della sua stessa storia, giacché è lui stesso a vederne la forma, i contorni e a riconoscerne anche la provenienza e l’età. Avere coscienza di quanto ho appena descritto non cambia nulla: l’uomo che trova la conchiglia vive qualcosa, un impatto silenzioso con il mondo. Non gli serve qualcosa che lo provi o lo misuri rispetto a qualche altro avvenimento. In questo si snoda il fatto che non c’è alcuna superiorità dell’uomo sulle altre specie viventi. Qualunque siano le abilità non ci possono essere forze speciali che irrompono nella quotidianità per mettere sull’attenti la vita esperienziale. “Qui con “intenzione” intendo ciò che impiega il segno nel pensiero. L’intenzione sembra interpretare, sembra dare l’interpretazione definitiva; non però un segno o un’immagine ulteriori, ma qualcos’altro: qualcosa che non si può interpretare ulteriormente. Ma si raggiunge un termine psicologico, non un termine logico” (Wittgenstein, 1967, p. 51). É come pensare, in condizioni normali, di poter prevedere la propria morte. Si può pensare di stare così male da perdere completamente l’uso dei propri pensieri, una morte psicologica, diremmo, o avere un grave incidente o, viceversa, possiamo morire pensando di essere vivi. In mano abbiamo soltanto costanti emotive, modi già visti di presentarsi della realtà. È una forma di intuitività che comporta l’affermarsi di legami del passato e relaziona al prelogico, all’istinto del presente.


4. Presente e costanti emotive

Se pensiamo che è possibile raccogliere ogni esperienza in descrizioni linguistiche dobbiamo chiederci come il ricordo o l’immagine di esse si presenta in relazione alla sintatticità emotiva che ciascun soggetto parlante manipola. Accettando l’idea che non c’è niente che non sia già stato presente alla coscienza, che non c’è mai un nuovo pensiero, nel senso più totale (penso a quanti scienziati hanno avuto idee rivoluzionarie il merito delle quali è stato attribuito ad altri, successivamente premiati per la loro impetuosità: nella storia delle scienze matematiche ci sono molti episodi di questo tipo e di tale portata). O i casi di uso implicito di principi che il parlante non ha bisogno di rinvigorire attraverso la forma esplicita, ma che sono spesso oscuri all’interlocutore, cause dei numerosi fraintendimenti che caratterizzano la verbalità dialogica dell’emozione umana. Ciò che appare come privo di elasticità, o duttilità, come un sentimento non esperibile, perché legato per esempio a un ricordo di un fatto già accaduto, o legato a una persona immaginaria, si lega a effettività, a cause, che nella terminologia peirceana sono interpretanti emozionali, laddove il desiderio si attua in significati propri, specifici. “The first proper significate effect of a sign is a feeling produced by it. There is almost always a feeling which we come to interpret as evidence that we comprehend the proper effect of the sign, although the foundation of truth in this is frequently very slight. This "emotional interpretant," as I call it, may amount to much more than that feeling of recognition; and in some cases, it is the only proper significate effect that the sign produces. Thus, the performance of a piece of concerted music is a sign” (C.S. Peirce: CP 5.475). Qui Peirce parla di un interpretante emozionale che è il primo effetto proprio di un segno specifico, facilmente riconoscibile nelle sue verità o, potremmo dire, in quello che dice, che mette in evidenza. A volte un segno è soltanto questo, un interpretante emozionale, come nel caso di una colonna sonora. Può ammontare a qualcosa in più del sentimento di riconoscimento, può avere un senso (meaning) più forte della familiarità, della percezione con la quale ci muoviamo nel mondo, per il fatto che siamo già nel processo di semiosi. Si tratta allora di pensare ad una semiosi che sia il risultato di interpretanti che hanno agito al di là dell’introspezione, che hanno già dissociato e quindi anche associato le parti psicologiche, che sono divenuti logici. Potremmo concludere che rafforziamo l’idea del presente nella traduzione di uno stato emotivo in uno antipsicologico, non più interno alla privatezza del proprio sentire, ma con una proiezione di questo sulla soggettività estesa delle semiosi in cui ci si trova a operare. Quando si supera la fase di rispecchiamento del bambino nell’adulto, per esempio, attraverso il riconoscimento degli stessi movimenti e in forme più complesse degli stessi atteggiamenti, avviene lo spostamento dalla soggettività alla semioticità, seguendo Peirce, attraverso la significazione primaria dell’interpretante emozionale. È il presente del significato. Tra potenzialità e atto pragmatico, ossia diagrammaticamente programmabile) c’è una zona intermedia, ed è il presente logico, ma anche psicologico, malgrado Peirce tende a differenziare i due anche sul piano ontologico, esistenziale.


4.1. Abduzione: la finitezza del pensiero e il sogno

Come la psicoanalisi ha sottolineato, il sogno può dare un forte significato alle gravi psicosi. Esso però prima ancora dello scolio della malattia può dare senso alla capacità universale dell’infinitezza del pensiero, e in cosa è possibile trovare il carattere d’infinitezza. “Il pensiero può, per dir così, volare; di camminare non ha bisogno. Tu non comprendi, cioè, tu non hai una visione complessiva delle tue transazioni, e per così dire proietti la tua incomprensione nell’idea di un mezzo in cui sono possibili le cose più sorprendenti” (Wittgenstein, 1967, p. 61). Si può determinare e riconoscere una qualsiasi nuova forma di pensiero: essa è una transazione, una verità nascosta ma già conservata nella caverna del pensiero. Come nel caso dei sogni, quando ad essere rinnovate sono idee e progetti attraverso una apertura all’inconscio. Se ci pensiamo bene l’inconscio è un insieme criptato di pensieri, che ci sono, vivono già nel dinamismo preannunciato dalle immagini mentali. Il punto da affrontare sarebbe quello della stanziazione dell’infinito. La domanda “dov’è l’infinito?” resta tale, suggerisce Wittgenstein. Esso è quello che cerchiamo, che evidenziamo in ogni minuto della nostra esistenza. Al contrario, però, di ciò che sostiene Wittgenstein, ovvero che il calcolo è infinito, sarebbe da riconoscere che è infinito proprio ciò che non è possibile calcolare[2]. Come incalcolabile è un sogno. Esso è tale proprio in virtù del fatto che è un’immagine non circoscritta, non delimitata. È un pensiero, un’idea inconscia: è la realtà del sogno che nella sua vaghezza ci rende partecipi della finitezza incalcolabile della veglia. Il gesto del ricordare un sogno è una riabilitazione all’immagine, una ricerca della finitezza intangibile di altre forme di pensiero, tra le quali quello matematico è il meno vago, certamente. Al di là dei casi eccezionali, come Einstein sognatore delle dimostrazioni matematiche, ma di cui pare non ci sia più alcuna traccia nei grandi scienziati viventi, è improbabile che qualcuno abbia la capacità di sognare la ri-soluzione di una seria dimostrazione algebrica. In breve, come riporta Wittgenstein, il finito racchiude l’infinito, se è l’infinito del pensiero[3]. Entrano in campo almeno due questioni. La prima è quella che riguarda l’astrazione come un processo, quindi riconoscibile o, come direbbero i cognitivisti, modulare, divisibile in parti, nella querelle insoluta dell’idea di unità di spazi e tempi finiti e continui. La seconda è: il non detto dell’inconscio, è calcolabile? Ha lo stesso tipo di progettualità dei ragionamenti vivi, condivisibili verbalmente? Di fatto, non si ha a che fare con estremità di una parete, per esempio, ma con relazioni semiotiche o semplicemente con semiotiche misurabili in qualche modo attraverso strategie che sono in grado di formare significati.


4.2. La rete linguistica della dimostratività

A questo punto insorge chiaramente la domanda sul confine che separa la logica in sé, con il suo infinito, dalla logica della psiche: esiste realmente questa differenza? Wittgenstein sembra suggerire di avversare la scissione tra la due scienze, tranne nel caso in cui si dà alla parola “psicologia” una riformulazione in chiave strettamente introspezionista – di stati di cose individuali e inattingibili, ma questo ormai è più che negato dalle ricerche moderne e contemporanee. Negli Zettel Wittgenstein pone in rilievo questo paradosso che intrattiene i diversi modi di intendere l’intenzione, quella che il filosofo vuole separare totalmente dall’idea di processo: “Se voglio descrivere il processo dell’intenzione sento, innanzi tutto, che ciò che essa deve fare può farlo se, prima di tutto, contiene un’immagine estremamente fedele di ciò che essa intende. […] Quasi quasi si potrebbe dire: «L’intenzione va, mentre ogni processo sta fermo»” (Wittgenstein, 1967, p. 53). Il muoversi delle realtà fenomeniche come sillogismi definiti dalle forme storiche presenta nelle forme intentive alcune peculiarità che autori come Wittgenstein ricordano sprovviste di una volontà esterna all’atto in sé. Come pensare che ciascuna nostra azione è effettivamente intrisa di infiniti modelli ai quali restituire le vestigia prima di mostrarne gli errori. Nella operazionabilità del senso comune il fatto che ci sono immagini talmente radicate nella logica usuale da agire come veicoli porta alla ripetizione di schemi nei quali non c’è alcuna aspirazione, alcuna aspettativa. Essi si mostrano in sé e per sé, denudando in presente e rendendolo progressivo, inusuale nella scioltezza finita delle singole azioni. È l’idea peirceana di diagramma che diventa una sorta di metro per la definizione di logica della scrittura, un po’ come nell’idea complessa di grafematicità.


5. Conclusioni

Se ci fosse davvero un criterio di insensatezza - come Wittgenstein propone - tale da restituire all’immaginazione il suo primo compito di autodeterminazione potremmo dividere la concezione del modo di realizzazione dei sensi dalle esperienze che abbiamo di essi come istintivi o prelogici fino a dissodare il terreno del linguaggio oggetto, di ciò che manipoliamo con fiducia. Non è un uso di esperienze che dalla eversività porta all’autoregolazione: è insensato dire “tutto serve a qualcosa”, il tutto non è comprensibile, in primis, e inoltre non c’è soltanto l’esperire, ma purtroppo anche il subire. Il controllo delle emozionalità non dovrebbe dunque avere a che fare con l’esperienza, la dovrebbe al contrario allontanare e farne una negatività, una negazione alla realtà: attribuirne il senso di pura rammemorazione, indicando ad ogni fatto la strada che porta all’uscita dalle costanti emotive che possono attribuirsi ai significati. Parlare di tradizione può significare parlare di forme linguistiche sorrette non soltanto da sintassi grammaticali ma anche da sintassi emozionali. È il senso del diagramma peirceano e dell’interpretante emozionale come primo indice della formazione di ipotesi sul mondo e non di semplice percezione degli universali. In ciascun atto emotivo che si riferisce al simbolo di un personaggio, per esempio, c’è una costante emotiva della linguisticità, non una semplice posizione istintiva, ma una connettività che si manifesta nelle forme generali di apprendimento. Infine, l’individualità dell’atto fonatorio contrasta la collettività della parole per il fatto che è nel primo che il linguaggio è un simbolo proprio, strettamente legato al singolo soggetto parlante. Se è vero che l’immaginazione non è un senso debilitato ma, al contrario, il fulcro della scoperta scientifica e, in certa misura, nelle esperienze quotidiane di adattamento, il discorso verbale che fa delle emozioni regole può diventare segno puro ossia unico, distinguibile dagli altri.
























Bibliografia

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Id. (1953) Philosophische Untersuchungen, Oxford: Basil Blackwell (tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Ricerche filosofiche, Torino: Einaudi, 1967).



[1] Lo Piparo ne parla nel senso di terza dimensione della lingua per accertare la pluridimensionalità del linguaggio (cfr. Lo Piparo, 2003, pp. 98-102).
[2] È da riconoscere la preminenza di una posizione matematica della questione. Essa si è presentata come il problema del continuo, fin dalla posizione aristotelica della Physica (cfr. Sergio, 2006, pp. 229-242).
[3] Wittgenstein riporta: “Hardy: «That “the finite cannot understand the infinite” should surely be a theological and not a mathematical war-cry» (Wittgenstein, 1967, p. 61). Sentire le regole delle normatività che vivono nei generi linguistici non ha a che fare che con logiche sequenziali che il senso comune condivide con ciascuna scienza (e sarebbe maggiormente corretto il contrario).

Poesie di Silvia Redente


Sguardi

La notte
subbuglio
di firmamento
nella dimensione speciale
di improvvisi sguazzi
fili di seta
che fanno del pensiero
nuovi appigli
corsi d’acqua cifrati
cascate d’argento
nebbie salite per nascondere
le note di una canzone
frammentaria
nella sincerità
di un assolo
come a fuggire
dalla sapienza senza tempo
a dipingere
lo sguardo di un sasso

Che sia senza fine
Un pensiero che non abneghi mai
Una sensazione di finitudine e di coraggio
Nella dignità di ciascuno
Allora è così che vive




















Dancing

Girando l’angolo
finisce il pensiero
inizia il vibrare
della natura
racchiude
il giro di ballo
della speranza
nella negazione del finito
nel desiderio di essere
ancora altro
di volerne sentire
il profumo iridescente
radicato insonne
privo di carattere
forse immaturo
raffinato dalla quiete
assassino del proprio presente































Tempo

Cercare un marchio
di sé una missione
arrivare alla rinascita
del proprio essere
nel mondo
senza diciture
pubblicità del passato
mai finito
ricordi inespressi
lontani non vissuti
nella certezza
della riuscita avvinghiata
al sordo fischiare del tempo



































Perimetro

La realtà che mi
si forma con i granelli
del tuo foglio verde di
quello che hai legato
fine sottile e la tua cadenza
fermata a posta epigona
esile ma di certezza condivisa
la ragiono annaspando tra i
precorrimenti di generazione
che farai con addomesticamenti
e diffrazioni
La ricezione è favorevole alla
porcellana che il tuo volto mi
obbliga come granellame
frutto del settantasette che nessun
circo detiene nessuna belva
feroce ma parole e ovvie
associazioni d’impatti all’angolo
del tuo rosso addizionare favole
che uniscono ai tuoi rimandare le epoché
ma i feeling si inaspriscono e il mio
albero rilascia poche dichiarazioni
le allinea a te
anche se è un giorno
da palindrome
che importa se il sorriso
è il mio e senza sforzarsi
si aggancia alla direzione
deviante dall’uncino alla porta
due arnesi da far ragionare
se continuamente rafforzati in
bicipiti che speri ti difendano dal tuo candore.
















Città


Non c’era che uno
e adesso che ha promesso
di non provare a fare
musica deve invece
farla a domenicali incontri
in tarda festività se me
lo avesse detto prima
avrei riavuto un’incudine
amalgamata
di fiori mentre
già entrambi di nuovo
si riallacciano ai loro
passati delusa da entrambi
i geniali intenti non fa
a meno di temporali
e carbonio all’accadere
del tempo


Scritture e Lingue dei Segni


Scritture e Lingue dei Segni


  1. Introduzione

La corrispondenza tra le forme codificabili e quelle altre non ancora rese tali dalla sistematicità del linguaggio è evidente nella relazione tra le scritture e le lingue dei segni. Il quesito del luogo comune presente tra i diversi sistemi è quello del riconoscimento di un nucleo al quale riferirsi per la realtà delle forme linguistiche. Poiché è nel gioco dei segni che la prassi è determinante, il passaggio dall’immotivato all’arbitrario diventa gioco linguistico se ancorato alla ricognizione di questo. Pensiamo, a questo proposito, a cosa si intende per lingua naturale e a cosa, invece, per lingua artificiale. Nel primo caso esiste una conformità tra mondo e parole, anche se questo non è un modo diretto e semplice di correlazione; nel secondo, invece, c’è un elemento esterno al sistema in gioco che interviene come una sorta di interferenza a disturbare la realtà segnica. Per vedere più da vicino quest’ultimo aspetto pensiamo alla standardizzazione come modo di omologazione delle variabili linguistiche: il carattere forte delle forme logiche passa attraverso la trascrizione dei rapporti spazio-temporali che vivono nelle lingue impiegate dai soggetti parlanti. Si tratta di considerare il peculiare rapporto che un mezzo esterno alla forma linguistica naturale ha nella più generale realtà logica di appartenenza: dal punto di vista del gioco dei segni non è rilevante il punto di arrivo inteso come forma cristallizzata ma è piuttosto la tendenza ad esso, fino ad assumere caratteri formali. Questi caratteri di per sé non hanno alcuna definizione. Essi sono infatti determinabili ma non determinati, proprio perché vivono nella realtà pratica dei giochi linguistici. Nelle forme di scrittura che vediamo oggi ci sono nette separazioni, in molti casi, tra il modo di produzione delle testimonianze linguistiche che assumono caratteri letterari e le forme in uso. Anche nelle lingue dei segni troviamo questa complessità; non è definibile, infatti, una lingua madre dalla quale discendono le altre lingue “minori”. Non c’è alcuna gerarchia che rimandi ad una conformità iniziale, originale, alla quale aggiungere o sommare la lingua ufficiale: quello che si pensa come standard non è la vera corrispondenza tra i segni scritti nei dizionari e le grammatiche utilizzate effettivamente. Da un lato, nelle lingue dei segni i diversi tratti morfofonologici ovvero più strettamente grammaticali hanno caratteristiche afferenti a diversi livelli del discorso: anche qui la materia dell’espressione non è unica, poiché intervengono tratti sovrasegmentali specifici che hanno a che fare anche con la fisiognomica, la gestualità naturale, i caratteri simbolici complessi non soltanto linguistici. Dall’altro, la nozione di scrittura, considerata come lingua, permette di affacciarsi alla questione della corrispondenza tra pratiche linguistiche e realtà epilinguistica e metalinguistica. Si pone tra i due livelli di discorso il problema del come avvicinarsi alla rielaborazione formale senza perdere i caratteri naturali che danno alla lingua il valore di cui si nutre nelle realtà sociali. È in un certo senso ricollocare tra le forme linguistiche visivo-gestuali e quelle vocali e scritte la questione dell passaggio da segni iconici e ipoiconici a quelli simbolici e arbitrari. Ma qui vorrei riallacciarmi alla definizione di scrittura e di lingue che si realizza nell’analisi delle forme naturali e nella distanza che da queste, in gradualità differenti, si costituisce un’arbitrarietà non più sensibile all’incompiutezza della memoria linguistica, laddove il senso comune viene abbandonato per un grado di analogicità in eccesso, quello delle lingue standardizzate. Esse si nascondono nei livelli di espressione impliciti ed espliciti, nelle lingue vocali come nelle lingue de segni dalle quali la scrittura emerge come oblio differenziale. In questo modo di guardare alla scrittura i rapporti specifici di essa con le lingue si manifestano nelle forme di poesia delle lingue segnate. Già Diderot evidenzia come l’energia del linguaggio non è riducibile all’espressione della lingua, riferendosi alle lingue vocali: è l’energia del gesto a manifesta, invece, il sublime[1]. Esattamente al contrario dei registri artificiosi e standardizzati, il linguaggio poetico asserve la scrittura facendone emergere le forme libere, come quella del processo abduttivo che si esprime nelle forma analogiche e nelle assonanze, ma che vediamo presentarsi anche nel meccanismo che regola le anafore ed in parte le metafore e le metonimie. Ciò che regge il movimento della differenzialità sistemica e della variabilità non è dunque una convenzionalità pura e semplice, come quella dell’accordo tra due individui che per ellissi sono sempre al di là della sistematicità produttiva, se considerati come la rappresentazione di uno stato linguistico. Poiché ogni sistema presenta una autodeterminazione mai definitiva ma sempre mutevole nel dominio linguistico, la realtà che si sottopone alla trasmissione delle forme specificatamente letterarie, come quella poetica, è naturale. La funzione dello scritto non riduce tuttavia la questione della distanza tra la forma scritta e quella visivo-gestuale. Nell’analisi di una poesia in Lingua dei Segni Italiana Russo evidenzia come si manifesta nella poesia segnata quella capacità metalinguistica riflessiva[2] tipica della coscienza linguistica. È da questo primo punto che emerge la necessità di una divisione specifica tra la scrittura in senso tecnico e la trascrizione attraverso il sistema Sign Writing (SW)[3] delle lingue dei segni. Il rapporto tra la metalinguisticità manifesta nelle lingue verbali il riconoscimento della possibilità di rielaborazione testuale. In effetti, nella lingua dei segni c’è un rapporto iconico forte tra la rappresentazione visiva e il documento scritto: la dimensione iconica è naturale, perché configurata rispetto alla reale forma di cui i segni sono portatori. Se pensiamo al legame tra la scrittura e la gestualità possiamo vedere meglio il rapporto tra la forma visivo-gestuale e realtà morfofonologica, tra la realtà formale perché relazionalità emergente nei rapporti sociali e ciò che perdura come documento storico al di là della cognizione del presente.








1. La nascita delle scritture nella Lingua dei Segni


  1. Lingue dei segni, LIS e scrittura

Vico evidenzia[4] che esiste una stretta relazione tra le “lingue mutole” e i caratteri ideografici scritti. Esiste, in effetti, una simmetria tra i due piani dell’espressione in gioco ossia quella gestuale-visiva delle lingue dei segni e quella spazio-visiva delle lingue scritte. Cosa intediamo per complementarità tra due lingue lo spiega bene Prieto e credo possa valere anche per il tipo di complementarità tra la LIS (Lingua Italiana dei Segni) e le lingue italiane, scritta e vocale. In tal senso possiamo ricercare i nessi tra i caratteri rilevanti che definiscono i tratti specifici di ciascuna lingua. Come Russo ha rilevato insieme al suo gruppo di ricerca ci sono diverse tipologie di approccio ai caratteri relativi alle proprietà sintagmatiche e paradigmatiche decisive per la corrispondenza dei segni gestuali con i segni delle lingue vocali. Quello che si evince è, tuttavia, un’insufficienza spesso presente del rapporto tra linguisticità orale (dei segnanti in LIS come nelle lingue vocali) e linguisticità scritta. In effetti, data la sostanzialità relazionale tra i tipi di segni in gioco la temporalità relativa a ciascun tipo di sistema linguistico ridetermina la portata significativa[5] che si posiziona tra i simboli propri di ciascuna lingua. Possiamo così riaccostarci all’analisi in strutture che dalla lingua scritta si riaggancia alla sintesi del sistema vocale. Prendendo in considerazione i lavori di Kendon notiamo come sia possibile diagrammatizzare in simboli diacritici le gestualità spontanee che accompagnano i modi di realizzazione vocale delle lingue e che vanno dalla prossemica alle sequenzialità simultanee della lingua verbale. Esiste, dunque, un codice morfosintattico visivo che associa tra di loro il tipo di disegni utilizzati nei dizionari per la diffusione della LIS e delle lingue dei segni sviluppate nel mondo fino ad oggi. C’è una tradizione determinata poiché già riconosciuta dagli studi socioantropologici[6], per esempio, sui modelli sviluppati nei monasteri di diversi ordini religiosi; ci sono, in effetti, diversi modi di esprimere in segni visivo-gestuali lo stesso senso o lo stesso oggetto d’uso comune. La verbalità delle lingue dei segni è tale poiché queste presentano i caratteri di prima e seconda articolazione, ed i cheremi come unità specifiche di tali lingue sostengono tra di essi una relazione linguistica complessa.

  1. Giochi e Segni Simbolici: la naturalità della scrittura

Poiché per analizzare un gesto bisogna scandire in unità quella che potremmo chiamare la cadenza che la totalità del gesto verbale rappresenta nella sua complessità nel ritmo specifico che si costituisce come forma, si installa la necessità di una separazione tra struttura e processo formativo che possiamo ritrovare sia nella Lingua Italiana dei Segni che in ogni altro sistema linguistico, anche se in gradi o gradualità differenti in ciascun idioma. Si tratta, in effetti, di un modello semiotico generale che astrae dalla forma linguistica la necessaria reciprocità del gioco tra segni e tra tipi di segni diversi nell’esplicitazione dell’iconicità arbitraria della significazione.[7] È in tal senso necessario riconsiderare alcune nozioni di base come quella di contesto, in relazione di inclusione ma anche antinomica, per certi aspetti, con quella di cotesto che sembra escludere la relazionalità semiotica generale delle regolarità non-linguistiche. Se è possibile far corrispondere le unità di ciascuna lingua, almeno fino a un certo punto è anche possibile distinguere ciò che è mero strumento di veicolarizzazione delle forme significative da ciò che invece appartiene al senso comune proprio della lingua in questione. Pensiamo alla definizione di senso proprio che Saussure rifiuta[8] e a come può essere tradotta all’interno delle lingue segnate per mezzo della relazionalità afonica con la forma visivo- gestuale. C’è una classificazione che permette già di vedere negli schemi corporei l’effettiva modificazione tra i paramentri di analisi e la reale iconicità linguistica che nelle lingue dei segni è esplicita anche perché fortemente legata ai contesti. Ne troviamo un esempio nelle forme onomatopeiche come il segno “telefono” in LIS, in cui il gesto rappresenta esattamente il mezzo “telefono” che è anche l’oggetto del discorso e che è identico nel gesto naturale dei bambini piccoli non udenti e udenti, fino al punto in cui nei secondi interviene l’articolazione vocale e abbandonata in parte quella gestuale. Nel Corso di Linguistica Generale Saussure evidenzia che ci può essere una identità linguistica, in virtù del fatto che ciò che è psicologico nella lingua è sociale[9], poiché radicato non tanto al carattere fonico della lingua ma a quella dualità incessante che muove il dominio del linguaggio. I segni della lingua devono avere non soltanto costanti formative, come la materia di cui un segno è costituito, ma sottoporsi all’aspetto dell’arbitrarietà. Ciò significa che non c’è una sottomissione definitiva dell’oggetto al segno e viceversa, nel rapporto tra oggetto e segno: si tratta di una relazione complessa (ad esempio, la parola scritta cane è isomorfica alla parola vocale “cane” e alla parola segnata “cane”), e non relativa ad una mera entità materiale, quale quella della voce o dell’inchiostro, o, anche, delle parole visibili su uno schermo come quello che sto usando adesso. Il punto di vista dell’oggetto linguistico è la forma identitaria della forma stessa, che eccede la semplice entità per sottoporre la significazione alla variazione spazio-temporale della socialità effettiva. Ma ci chiediamo qui cosa accade quando quella speciale corrispondenza biunivoca perde la referenzialità che viene in qualche modo sostenuta dalle unità di ciascuna lingua ricadendo in un’altra forma che passa attraverso un’ulteriore traduzione simbolica. La trascrizione delle lingue segnate in forme sempre più complesse e distanti dalla naturale forma di scrittura che usiamo diventerebbe una forma di artificio estremo, di mera standardizzazione, tale da ridurre il rapporto indicale e iconico di cui l’arbitrarietà linguistica si nutre.








2. Dalla storia alla semiosi


  1. Il tempo storico e la semiosi

La possibilità di iscrizione della variabilità linguistica con il suo potenziale di oblio nella contingenza dei monumenti letterari non è tanto nella storia, ma è il principio della storicità in quanto tale. In questo senso, possiamo considerare la nozione di identità come principio pratico che si istalla nella pertinentizzazione della significazione. Per meglio dire, è necessario considerare la consapevolezza linguistica di cui Russo parla a proposito della poesia: Per consapevolezza linguistica intendiamo, in questo caso [che è quello del linguaggio poetico], la capacità di cogliere il rapporto tra la forma espressiva di un segno (o di una parola) e il suo significato e la capacità conseguente di costruire sequenze ritmiche, assonanze, parallelismi adatti a veicolare proprio quel contenuto.[10] Ad esempio, se ci poniamo dal punto di vista della sequenzialità temporale diacronica ci accorgiamo di quello che nei generi letterari si denomina personaggio: esso racchiude una serie di proprietà e di caratteri mutabili che diventano un abito fittizio di cui il documento letterario è portatore. Questo ci serve per dire che la coscienza letteraria ingloba quel particolare tipo di riflessività di cui Prosdocimi ci parla a proposito delle analisi saussuriane sulle Leggende Germaniche. Egli evidenzia come esiste una realtà relativa alla forma simbolica delle lingue e delle lingue letterarie tale da formare una dimensione ulteriore di significazione che può essere denominata arbitrarietà metastorica[11]. È questo tipo di relazione simbolica che qui vorrei considerare come esempio di rapporto della letteratura con la capacità comunicativa attraverso la quale si parla. In effetti, è nella simbolicità che si racchiude la possibilità di pertinentizzazione della realtà logico-formale rispetto ai segni in uso nei nostri giochi linguistici. Questa premessa ci libera dalla ricerca di una storia di per sé, che sarebbe sterile e vuota se assunta come semplice variabile della significazione. Anche se consideriamo l’esistenza di gradi di significatività, non possiamo prescindere dalla possibilità di rapportare ciascun luogo o insieme di valori ad un contesto d’uso comune. Cosa si intenda, tuttavia, per contesto sembra non essere tuttora chiaro. A mio parere, esso è legato all’idea di sistema, nel senso più ampio che in Peirce è riconducibile alla riduzioni in tassonomiche in categorie, realtà fenomeniche che permettono di ricondurre ciascuna azione comunicativa, ad ogni livello, alla presenza materiale della lingua. In tal senso, il linguaggio diventa origine immutabile e sempre rinnovabile (pensiamo al paragone di Saussure con il ruscello, di parmenidiana memoria) e riporta alla luce la frammentarietà del gesto storico in cui il significato resta in oblio, in dimenticanza in quanto tradizione, tale da essere sempre riportabile ad un altro punto della linearità delle lingue. Se si assume l’avvenimento come vero (esso manca del proprio contrario, dunque è non-negabile) si può descrivere la portata del fenomeno come costrittiva: è in un reale stato linguistico che avviene, attraverso la risonanza con lo spettro d’azioni comuni, il riconoscimento del complesso. In che senso, allora, parlare di relazionalità tra mente e mondo esperibile? La possibilità della emergenza di forme nuove di tipo semiotico all’interno della logica del senso comune, per esempio, è un modo per avvicinare la funzionalità delle lingue considerate ciascuna strutturalmente speculare ad un'altra, come nel caso delle lingue complementari, nell’accezione di Prieto[12]. All’interno delle Lingue dei Segni, in base alle ricerche recenti, si ritrova una serie di caratteri sistematici che possono richiamare in campo le proprietà emergenti delle lingue orali e scritte, con particolare attenzione ai caratteri specifici di assorbimento iconico tra una lingua e un’altra che mi propongo di analizzare. Ad esempio, afferma Russo che nella dattilologia le singole configurazioni delle mani vengono utilizzate per riprodurre la sequenza di lettere di cui è composta una parola. In questo caso è possibile utlizzare le configurazioni per introdurre nella comunicazione parole che non hanno un equivalente esatto in segni o termini specifici del gergo tecnico. La dattilologia rappresenta, quindi, un modo per traslitterare in lingua dei segni elementi della lingua vocale scritta, ma non è un procedimento base della grammatica segnata, che è invece autonoma dalla lingua vocale e scritta.[13]
In questo senso la ricerca di una relazionalità determinata quale è quella di una definitorietà delle relazioni tra le variabili e le costanti presenti in un contesto linguistico diventa la problematica principale, alla quale si legano quelle di identità, di unità e di equivalenza nelle lingue, come già Harris[14] ha rilevato rispetto alla teorizzazione di stampo saussuriano.

  1. Segni e lingue vocali

Tutte quelle pratiche epi e metalinguistiche che di solito troviamo all’interno dei sistemi semiotici complessi delle lingue hanno una serie id implicazioni nell’organizzazione delle dimensioni della significazione. Come emerge dalle analisi delle lingue dei segni rispetto, ad esempio, alle lingue scritte, ci sono dei rapporti iconici particolari e specifici di ciascuna lingua e all’interno di micro-sistemi e delle unità significative. Il principio di storicità alla base dell’indagine tra la dialettica saussuriana di sincronia e diacronia rispetto alla possibilità di classificazione categoriale periceana ci permette di avvicinare la dimensione propriamente linguistica attraverso quelle che possiamo considerare gradazioni di significatività che vanno a delineare tipologie diverse di forme logiche. Assumendo la prospettiva del pragmatismo di Peirce, in particolare delle sue influenze in Italia[15], possiamo porci l’interrogativo sulla pecularità relazionale tra la continuità delle lingue letterarie e l’inesauribile operazionalità della significazione. I tratti determinanti specifici di ciascuna lingua permettono così di arginare le possibilità di una sorta di deficit che viene spesso attribuito alla realtà linguistica dei soggetti non udenti. Non soltanto, infatti, il soggetto parlante è in grado di elaborare elementari giochi linguistici legati già alle prime forme di relazionalità con i genitori, ma anche di sviluppare forme nuove e innovative attraverso l’uso contemporaneo di più sistemi. Prendiamo ad esempio i casi di bilinguismo, che possiamo ricondurre a proprietà specifiche della materialità linguistica, poiché si tratta di una duttilità della significazione che ha a che fare con la linearità del significante: l’ordine del discorso è quello della diagrammatizzazione formale che riveste ciascuna relazione logica.[16] Ci sono classificazioni che dal linguaggio muovono la semiosi e ne ritroviamo gli aspetti più evidenti nelle lingue storico naturali. Nella LIS, in particolare, ci sono 15 luoghi, 38 configurazioni, 6 orientamenti e 32 movimenti[17] che si appellano alle regole normative sottomesse a ciascuna relazionalità e a ciascun rapporto tra forma dell’espressione e contenuto. Non soltanto, infatti, dobbiamo ricordare che quelli che erano denominati sordi erano anche gli “stolti”, e quindi emarginati dalla partecipazione alle prassi sociali e ai diritti legislativi, ma essi erano anche privati della possibilità di esprimersi nelle stesse comunità attraverso i gesti, poiché tacciati di immoralità da parte della chiesa. Tuttavia, superata la divisione tra metodo oralista e manualista e con l’intervento dell’abate De l’Épée intorno al 1750 e l’istituzione del primo istituto per sordomuti, le possibilità di uno sviluppo sociale adeguato alle capacità delle persone sordomute sono aumentate notevolmente. Le diverse comunità che si sono venute a costituire sia all’interno che all’esterno dell’istituto hanno portato con sé la normatività propria della lingua segnata, permettendo una relazionalità equivalente, nel tempo, anche a quella di una lingua non segnata. I caretteri specifici, come i cheremi e i tipi di iconicità che caratterizzano le lingue dei segni sono stato convogliati nella LIS attraverso la quale si può oggi contare per uno sviluppo sociale adeguato e alternativo alla lingua italiana. I testi segnati permettono di rimettere in gioco i modi tradizionali di approccio alle lingue e alla funzionalità di esse. In particolare è stato evidenziato come esista una reale connessione tra aspetti individuali e realtà collettive; in particolare la struttura in relazione alla composizionalità simbolica è evidentemente una costante in tutte le lingue segnate. In effetti, il tipo di tradizione che emerge dagli studi sulla storia delle lingue dei segni mostrano che il grado di artificiosità o chiusura di ciascuna lingua è molto alto, anche negli stessi periodi storici e in luoghi molto vicini tra di essi. Anche all’interno di uno stesso istituto si creavano più idiomi, e gli studenti, come in una lingua naturale, avevano e hanno tuttora un proprio gergo, con i suoi idioletti e le sue forme specifiche, che con il passare del tempo destrutturano la lingua ufficiale, malgrado non sia ancora affermata, soprattutto in Italia, addirittura nelle stesse famiglie, accrescendo la complessità del problema come evidenzia Caselli: Ma qual è la lingua madre dei bambini sordi figli di genitori udenti? È quella che si realizza sul canale integro, ma che i genitori non conoscono – e dunque non usano – e che devono imparare insieme ai loro figli? O è quella della comunità di origine – la lingua parlata – che però richiede al bambino un lungo e faticoso processo di apprendimento?[18] In effetti, il criterio linguistico e socio-geografico è meno unitario nel caso dei sordi. Johnson e Erting[19] stabiliscono due criteri oggettivi per la differenziazione della comunità dei segnanti: il criterio di paternità, della vita biologica e le caratteristiche delle forme di vita costrette dalla sordità. Nel sistema da loro evidenziato il nucleo centrale è più denso ed è costituito dal fatto di essere figli di sordi e sordi fin dall’infanzia. Poi ci sono, nel secondo circolo “cellulare”, i sordi che segnano fin da piccoli ma non sono figli di sordi, al terzo gli udenti che segnano ed infine gli udenti che non segnano e i sordi che non segnano, che in realtà non si considerano del tutto appartenenti alla comunità sorda.



3. Artificiosità dei tentativi di trascrizione


  1. Universali linguistici e azioni pratiche

Le caratteristiche iconiche e ipoiconiche della LIS seguno alcune forme normative che nei diversi tipi di configurazioni rendono visibile l’ordine sintattico e grammaticale che nelle lingue dei segni è legato all’uso dei luoghi dello spazio fino ad instaurare un rapporto diretto tra luoghi ed oggetti nelle relazioni tra significati e significanti. La natura della lingua è dunque specificamente iconica, legata naturalmente all’ecologia ambientale. Ad esempio, si chiama morfologia affissativa la possibilità di certi movimenti di avere significato grammaticale, detto morfofonologico[20], poiché i luoghi dello spazio hanno le stesse caratteristiche dei morfemi con alcune determinazioni grammaticali. L’uso di anafore e di continui richiami testuali permette di costruire il rapporto tra l’oggetto, il soggetto e il luogo, quest’ultimo costruito prima dell’enunciazione e epifania di questa. Non ci sono quindi che rapporti sincronici che tengono insieme ciascuna forma di azione pratica, che in questo caso porta con sé la necessaria dimensione simultanea, insita nello sviluppo diacronico dell’azione in presenza. Nelle lingue dei segni ci sono sia registri fortemente iconici, come quelli poetici, che registri più standardizzati attraverso i termini specifici stabili. La forma stabile della significazione è una forma di artificiosità che provoca una chiusura associativa, poiché, come in molte lingue e per molti registri linguistici, l’analogia viene bloccata e inibita. È questo che accadde nelle forme di scrittura più elaborate ma che realizzano una significazione in cui non soltanto è diversa la materia dell’espressione, ma si modifica in larga parte la realtà di riferimento, perdendo le caratterittistiche specifiche della forma visivo-gestuale, come la spazialità e l’espressione facciale, sebbene i classificatori inseriscano in qualche modo il formato simultaneo dell’informazione. Tuttavia questo non è sufficiente anche a livello neurobiologico, in cui a decadere è il tipo di rapporto diretto tra la visione delle azioni e la capacità di riprodurle. Non è infatti scontanto che il comunicare di cose visive con segni visivi sia sullo stesso piano della classificazione restrittiva della semplice simbolizzazione di tipo convenzionale, come vediamo per esempio nell’uso di segni diacritici di alcune forme di trasposizione scritta. L’iconicità che si manifesta nelle immagini verbali dei segni visivo-spaziali è evidente nelle fotografie e nei disegni necessari alla riproduzione ed alla trasmissione delle lingue dei segni. La forma di iconismo presente nelle metafore ci permette di fare una distinzione tra le metafore vive e quelle morte: queste espressioni linguistiche sottolineano il collegamento tra due campi semantici che usualmente non sono legati. Mettono in evidenza, quindi, implicitamente, un aspetto dei due campi semantici che potrebbe sfuggire. Ci sono metafore che non ci accorgiamo di usare, come “ci aspettano giorni migliori”, che è una metafora cristallizzata, mentre altre sono morte, poiché talmente insite nelle parole da restare legate alla analisi in tratti semantici. Esse sono maggiormente legate al livello grammaticale. Mentre nelle lingue vocali sono affidate al piano della contestualizzazione diacronica, che si nutre di potenzialità forti, poiché ad essere messe in gioco sono proprietà formali fortemente stabili, nei gesti esse sono legate alla struttura del lessico, malgrado un legame metaforico si possa riscontrare in tutti i segni. Il legame metonimico svolge una funzione simile, poiché esso può essere considerato una forma specifica di metafora. In effetti, la metonimia si riferisce indirettamente ad un significato particolare per indicare e rimandare ad uno più generale, riferendosi ad una parte del segno in uso. Metafore e metonimie sono i due modi principali attraverso i quali nelle lingue dei segni si organizzano nuovi paradigmi lessicali. L’interazione tra metafore e ipoicone è uno dei luoghi significativi in cui avviene l’incontro tra iconicità e arbitrarietà ed è in questo senso che le metafore maggiormente caratteristiche dei segni sono metafore morte, poiché di uso comune, delle quali non ci accorgiamo dell’esistenza. Possiamo quindi affermare che le metafore morte fanno parte del lessico mentre le vive si riferiscono maggiormente alla sintassi e ai rapporti formali tra i segni. Un caso specifico è quello dell’apprendimento dei sordi della scrittura: le parole non possono essere analizzate dal bambino in movimenti articolatori e, dunque, gli si stampano globalmente nella mente come singole immagini: il bambino se le ricorda sotto forma di immagini mentali. Da qui la creazione di una comparazione non letterale basata sull’immagine della “parola che si stampa nella mente del segnante come fosse una fotografia”. La metafora innescata potrebbe essere descritta come “fare una fotografia mentale” oppure: memorizzare è fotografare con la mente, dal momento che il segno RICORDARE in LIS è eseguito nello stesso luogo (sulla testa).[21] In particolare, pensiamo alla poesia come luogo di convergenza delle forme significative diverse, vocali e scritte, con quella segnata. Il mutamento di registro non fa che ricoprire ancora due campi semantici, quello del fotografare mentalmente un luogo semiotico e quello del memorizzare. Questi due realia permettono di rendere viva la metafora iconica che rende realizzabile la comunicazione dei segnanti. Tuttavia non è chiara la distinzione tra la forma linguistica dell’azione visivo-gestuale e quella della realizzazione che occorre tra i segnanti una lingua dei segni. Fino a che punto, infatti, è possibile dare ai caratteri fisici della gestualità una corrispondenza con la rappresentazione scritta?

  1. La poesia segnata e il senso poetico

La premessa rilevante per una nomologia delle lingue scrivibili si basa sul fatto che le lingue dei segni sono al pari delle lingue non segnate lingue verbali: la relazione tra i cheremi è infatti di tipo linguistico. Kendon[22] evidenzia come ci sia un vero e proprio modello di trascrizione della gestualità che accompagna le lingue vocali. Tuttavia questo sistema è fortemente artificioso fino a perdere completamente i rapporti con la linguisticità manifesta nella presenza dei soggetti parlanti. Se è possibile ripensare i rapporti tra la forma linguistica della scrittura e la struttura delle lingue alla luce dei testi dei segnanti, la dimensione simbolica della trascrizione che passa attraverso la traduzione da una materialità ad un’altra, oltre che attraverso piani dell’espressione diversi, installa uno scarto tra processo formativo e forma. La teorizzazione più recente che riguarda la simbolicità manifesta delle forme si presenta alla luce della ricerca basata sulle analisi di posizioni diverse. In particolare, quando ci avviciniamo alla realtà della prassi comunicativa umana notiamo come ad essere introdotte sono norme e fatti linguistici, nei termini saussuriani, ma anche variabili non emergenti, come la storia dei cambiamenti e le interazioni tra di essi. La nozione di forma del messaggio o linguistica, da Saussure a Jakobson a De Mauro, prima, ma fino alle recenti applicazioni della pragmatica del linguaggio, come nel caso specifico delle lingue dei segni affrontato da Russo, permette di riaffrontare le questioni principali che riguardano i fondamenti della comunicazione. Se ci poniamo di fronte alla necessità di una interazione tra i registri differenti della parole, ad esempio, avremo un determinato modello di pensiero che dovremmo piegare alle regole che si insinuano laddove si porta a compimento un’altra forma di pensiero, attraverso forme simmetriche di simbolicità linguistica, fino a modelli artificiali dai quali neanche le lingue naturali sono esentate. Ma fino a che punto è lecito tradurre una forma naturale in una sequenza di regole puramente convenzionali? I tentativi degli studiosi contemporanei come Kendon ci avvicinano ad un modo di guardare alla memoria e all’impiego della scrittura in maniera meno semplicistica. La performance diventa un vero e proprio luogo indipendente dalla forma scritta, se intendiamo per scrittura e scrittura quel sistema semiologico di tipo linguistico in cui i segni grafici si piegano alla combinatorietà delle regole linguistiche basate sulla linearità del significante. Pensiamo a Peirce nel tentativo di realizzazione di forme linguistiche scritte circoscrivibili ad alterazioni della prassi quotidiana attraverso i grafi esistenziali: i nessi e le relazioni logiche che costituiscono un argomento, una o più proposizioni ed enunciati hanno una forma che realizza uno stato reale del discorso[23]. Probabilmente legati a fini simili lo sviluppo delle lingue dei segni è il frutto di una necessaria riattivazione dei giochi linguistici fini a se stessi nella comunità dei parlanti. Ma non è ancora statto chiarito se si tratti di una reale antinomia o di un rapporto complementare ed è a questo fine che propongo di considerare entrambi gli aspetti, quello empirico di manifestazione delle lingue segnate e quello teorico. L’applicazione teorica deve dunque tenere conto della rilevanza fattuale del fenomeno poetico vivente tra i segnanti.


Appendice

Propongo uno studio sperimentale che permetta di rilevare le performance specifiche delle poesie in Lingua Italiana dei Segni che si tengono periodicamente in Italia, attraverso il contatto con l’attività diretta dei poeti che segnano è un modo per avvicinare la realtà dei parlanti la LIS. Non è sufficiente, infatti, scorrere le pagine di un dizionario della lingua italiana dei segni per capire la natura del significato gestuale. Se la relazionalità tra scrittura e segno vivo è indiretta è allora necessario fare un passo indietro per guardare alle forme impiegate dai parlanti una lingua più o meno naturale. Il grado di artificiosità delle trascrizioni dovrà allora comprendere una codifica non puramente convenzionale, ma derivata dalla funzione che ha all’interno delle comunità e più o meno evidente a seconda dei nuclei do contatto con le comunità dei non sordomuti. Per non ricadere in semplici artifici della ragione puramente convenzionali è necessario uno sviluppo dell’interazione trai sistemi di segni che non si ancori soltanto alle forme antinomiche di confronta tra le diversità più evidenti, ma che si ancori alla posizione di ciascuna realtà vivente come modello di pensiero da prendere in considerazione.

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[1] Cfr. D. Diderot, 1751, pp. 8-12.
[2] T. Russo, 2007, pp. 103-116 (in T. Russo – V. Volterra : 2007), pp. 115-116.
[3] Cfr. A. Di Renzo, 2006, in A. Di Renzo, L. Lamano, T. Lucioli, B. Pennacchi, E. Pizzuto, L. Ponzo, P. Rossini, 2006.
[4] Cfr. G. Vico : 1744, L. II, sez. II, cap. 4, § 446, pp. 186-187.
[5] In senso tecnico (cfr. V. Welby : 1986).
[6] Cfr. J. U. Sebeok – T. A. Sebeok : 1987.
[7] Cfr. W. Sandler e D. Lillo-Martin, 2006, pp. 493-499.
[8] Cfr. F. de Saussure, 2005a, pp. 80-81.
[9] Cfr. F. de Saussure, 1916, pp. 13-23.
[10] T. Russo Cardona, 2007, p. 96.
[11] Cfr. A. Prosdocimi, 1983, p. 86.
[12] Cfr. L. Prieto : 1983.
[13] T. Russo, 2007, p. 141, n°2.1.
[14] Cfr. R. Harris : 2000a.
[15] Cfr. G. Papini : 1907.
[16] Saussure sostiene che una regola di sintassi e una regola morfologica «per un legame profondo e indistruttibile appartengono allo STESSO ORDINE DI FATTI, e cioè al gioco dei segni, per mezzo delle loro differenze in un momento dato» (F. de Saussure, 2005, p. 31).
[17] Cfr. V. Volterra : 1987 (ristampa 2004).
[18] M. C. Caselli, 2006, p. 204 (in M. C. Caselli – S. Maragna – L. Pagliari Rampelli – V. Volterra : 2006).
[19] Cfr. R. Johnson e C. Erting : 1992.
[20] Cfr. T. Russo, pp. 70-83.
[21] T. Russo, 2007, p. 90 (in T. Russo – V. Volterra : 2007).
[22] Cfr. Kendon : 2004, ma già Kendon : 2002.
[23] Cfr. C. S. Peirce, 2003 [1906], p. 140.