Silvia Redente
Emozionalità e causalità
della scrittura
Dai racconti alle forme
gestuali
“Leggiamo una poesia, e questa ci fa una certa
impressione. «Mentre leggi, senti la medesima cosa che senti mentre leggi
qualcosa che ti è indifferente?» - Come ho imparato a rispondere a questa domanda? Forse dirò: «No,
naturalmente!» - e questo vuol dire né più né meno che: questo mi afferra, il resto no”
(Wittgenstein, 1967, p. 37).
0. Premessa
Frequentemente
le posizioni che guardano alle realtà mediatiche della parola considerata
naturale in opposizione elettiva alle imminenze di forme vicine alla
spontaneità non verbale sono ritenute antitetiche alla psicologia del soggetto
parlante. Secondo Wittgenstein l’individualità non va ad inficiare totalmente
la consapevolezza collettiva: l’introspezione coniugata alla ragione riassorbe
necessariamente la psicologia generale del gioco linguistico. “Voglio dire,
propriamente, che gli scrupoli che si provano quando si pensa una certa cosa,
cominciano (hanno le loro radici) nell’istinto. O anche così: Il giuoco
linguistico non ha la sua origine nella riflessione. La riflessione è una parte
del gioco linguistico” (Wittgenstein, 1967, p. 85). Molti autori contemporanei
hanno evidenziato i caratteri morfemici del comportamento simbolico. Cimatti (2007) mette in evidenza un
carattere importante delle formazioni del linguaggio: esse sono sistematiche
così come lo è il mobile stormo nel cielo. Un paragone che permette di vedere
in pochi attimi l’intangibilità della significazione, e anche l’inafferrabilità
di essa. Harris (2007) analizza una serie di possibili definizioni che si
riferiscono non soltanto ai linguaggi formalizzati, ma che si trovano in uso
nella prassi quotidiana, chiamando in causa la gestualità, come nel caso delle
definizioni ostensive. La forma di emozionalità del linguaggio è manifestata
dalla reciprocità dei codici, in senso prietiano, di codici specifici e
tendenzialmente complementari, atti ad essere tradotti l’uno nell’altro.
Diventa insensato, quindi, chiedere ancora alla lingua di fare delle unità che
la rappresentano veicolarizzazioni di altri sensi? E fino a che punto è lecito
parlare di veicolarizzazione dell’articolazione linguistica nelle forme poetiche?
1. Dai
segni gestuali alle abitudini verbali
Delsaut (1975)
mostra come l’organizzazione spaziale condizioni quella sociale della prassi
comunicativa di un gruppo di persone. In particolare presenta le fotografie di
un’abitazione di operai attraverso le quali “si è voluto suggerire la
corrispondenza […] tra il modo di appropriazione dello spazio abitato e
l’organizzazione del discorso popolare” (Delsaut, 1975, p. 21). Ciò su cui
dobbiamo puntare l’attenzione è l’evidente rapporto esistente tra la lingua e
un tipo di cultura principalmente orale. Si tratta di una comunità in cui la
vita è scandita dalla lotta per la sopravvivenza in un’organizzazione spaziale
in cui non esiste “nessuno spazio assegnato alle persone e agli oggetti: il
contatto tra i membri della famiglia è raramente interrotto. Qualsiasi cosa
facciano, tutti gli abitanti della casa si trovano praticamente raggruppati
nello spazio comune” (Ivi, p. 23). Non c’è un criterio che stabilisce le regole
di convivenza, se non quello dettato dalla contingenza. Le persone usano gli
oggetti così come usano le parole, senza fare progetti a lungo termine, non
potendo che vivere in base alle necessità di ciascun momento. La forma di vita
è quella di un’attività comunicativa verbale orale spontanea e istintiva. È ciò
che è naturale della lingua: un evento irripetibile e originale. Il mondo della
comunicazione verbale orale di questa comunità è un buon esempio di quelli che
Vygotskij (1934) chiama “concetti quotidiani” della lingua materna, appresi
senza bisogno di intermediari come la scuola, propri dell’ambiente naturale in
cui il bambino viene a trovarsi. Possiamo chiederci, tuttavia, in che senso si
muove il rapporto tra lo spazio e la lingua. Ossia, è la lingua che influenza
l’organizzazione spaziale o è lo spazio che la condiziona? L’esempio appena
presentato della casa di un operaio dimostra come sia dal lato della lingua che
dal versante dello spazio ci si scontra con una necessità e irrimediabilità.
Non c’è un’esplicita possibilità di scelta autocosciente da parte del parlante,
né per ciò che riguarda l’organizzazione dello spazio né per la lingua, nel
senso in cui non esiste alcuna problematica rispetto a una nomologia della
prassi sociale. Ciò che accade è ciò che è accettabile. Si possono inventare
nomi nuovi e diversi per le stanze, un idioletto privato, poiché non c’è un
punto di riferimento a cui adeguarsi, come potrebbe esserci invece in
un’istituzione quale la scuola o un ufficio. Il lavoro compiuto in fabbrica è
ripetitivo e meccanico, la lingua che si parla è una catena automatica e
spontanea. Quanto influisce, in questo contesto, ciò che si vede su ciò che si
dice e viceversa? A questa domanda possiamo rispondere pensando alle forme
visivo-gestuali che accompagnano la prassi verbale quotidiana fino a diventarne
parte integrante. L’incisività del rapporto tra lingua parlata, lingua scritta
e segni gestuali è rilevata dall’analisi della sintassi dei gesti che
accompagnano il discorso, poiché ne mettono in evidenza la sostanziale
sintatticità.
1.1.
Teorie
sulla scrittura dei tratti gestuali
In diversi lavori Kendon sottolinea
la possibilità di analizzare i gesti attraverso semiotiche scritte. In un certo
senso ci sono grafemi gestuali, unità minime di articolazione delle forme
segniche che differenziano un gesto emblematico da uno o più tratti distintivi
di altri tipi di gestualità. Almeno in due sistemi troviamo modi di formazione
dei segni gestuali, ossia nelle situazioni che Kendon (2004) denomina
“face-to-face”, faccia a faccia e nelle dimensioni sociali più comuni ed estese
in cui si è organizzati per occasioni specifiche, come una partita di baseball.
In un certo senso la copresenza, il fatto che deve esserci un corpo e un
insieme di altri corpi è un fondamento che fa dell’interlocuzione un modo per
annientare l’illimitatezza infinita del regresso esistenziale: l’argomento
della finitezza, del limite dello stimolo è un paradosso che la semiologia
spesso deve affrontare per capire cosa si intende per significazione, nel campo
specifico di una delineazione del senso del discorso. L’analisi linguistica
rimette in gioco la transizione specifica della forma testimoniata dalla
scrittura, e in ciò si trova la natura duplice del linguaggio, l’esistenza
epistemica della quale è in continua formazione. A partire dai dati sperimentali
fino ad ora raccolti sulla possibilità di trascrivere le forme gestuali delle
lingue segnate, insieme ai segni delle lingue che i sordi e i sordomuti
utilizzano possiamo ipotizzare che ci sia una possibilità aperta di
formalizzazione delle capacità espressive della gestualità: un insieme di
tratti semantici precisi sono individuabili e possono trovare una dimensione
semiotica, una sorta di residenza astratta sia della comunicazione verbale, sia
di quella non ancora linguisticizzata.
2. Storie e
racconti
Come condizione
di esistenza delle storie, cosa dobbiamo considerare fondativo? In altre
parole, da un certo punto di vista, cosa contraddistingue la funzione
linguistica della scrittura dall’esperienza che facciamo del linguaggio? Da
molti anni di ricerche nel campo semiologico è stata rilevata l’importanza
della distinzione tra struttura semiotica e struttura linguistica: questa
differenziazione si trova alla base della questione più volte ripresa a partire
da Saussure sull’identità linguistica. In questo caso vorrei prendere in
considerazione la nozione di forma linguistica nella sua specifica attribuzione
ai generi di scrittura come verbalità progressiva e non cristallizzata. In
questo senso le leggende germaniche che sono state analizzate sulla scia del
pensiero saussuriano, come in Prosdocimi (1983) permettono di dare una
consistenza ai termini “personaggio”, “simbolo”, e in senso più ampio a quelli
di “narrazione”, “storia”, nella loro opposizione o complementarità dinamica
con la realtà linguistica e semiotica del senso comune, nelle quali sono
sedimentate le logiche di formazione. L’ipotesi di partenza è che l’intento
interpretativo delle forme scritte rispetto alla realtà contingente è quello di
fermare alcune sincronie e stati di lingua attraverso costanti più o meno
complesse che si ritrovano in ogni forma logica. L’intento è trovare e
differenziare le forme emblematiche nei termini di variazioni dei generi nelle
temporalità del discorso. Parliamo qui della già abusata nozione di genere
linguistico e semiologico. In effetti, la scrittura ha almeno due proprietà: è
la forma specifica di analisi delle unità semiologiche ed è argine della
relazionalità dei segni; si parla di scrivibilità proprio per indicare lo
slittamento continuo che va dalle pratiche del senso comune alla
pertinentizzazione dei sensi non ancora cristallizzati e, infine, alla
tradizione[1].
Cosa significa, in questi termini, destrutturare il linguaggio? Ha senso
pensare di poterlo analizzare come se fossimo capaci di comprenderlo?
Wittgenstein ci dà la possibilità di riflettere sull’immagine linguistica
rispetto alla rappresentazione. Sarebbe possibile scolpire la progettualità
delle logiche esistenziali o di primo approccio di analisi dell’intuizione
logica. “L’avere l’esperienza vissuta di un significato e l’avere l’esperienza
vissuta di un’immagine mentale. «In entrambi i casi si ha l’esperienza
vissuta di qualcosa», si vorrebbe dire,
«soltanto si esperiscono cose diverse. Alla coscienza Ë presentato un contenuto
diverso – un contenuto diverso le sta di fronte». – Qual è il contenuto
dell’esperienza vissuta di una rappresentazione? Si risponde con un’immagine o
con una descrizione” (Wittgenstein, 1953, p. 232). Se attraverso l’analisi
dell’esperienza è possibile ritagliare il fenomeno e circoscrivere il tipo di
narratività che è in gioco la differenza tra linguaggio e lingua che Saussure
introduce nei tre corsi di Linguistica generale può sottendere soluzioni
ulteriori. Per ipotesi, riprendendo il pensiero prietiano, è possibile
incanalare le “pratiche teoriche” radicate nell’evoluzione linguistica
dell’essere umano nel “genere” scientifico. In gioco ci sono non soltanto
chiavi di lettura differenti, ma vere e proprie costanti emotive che non
possono non essere presenti nelle possibili forme di emozionalità
poetiche mostrate da ciascuna forma
linguistica.
2.1. “Esteriorità” e causalità del
personaggio-segno
A partire dalle
prime ricerche saussuriane sulla pregnanza della letteratura nella linguistica
della parole il personaggio letterario
diventa simbolo o risoluzione di insiemi di caratteristiche che un segno
linguistico ha in una storia intesa come narrazione. In una sorta di repertorio
che il simbolo narrativo espone alla storia (per esempio nella microstoria del
racconto leggendario) la poetica del personaggio diventa maggiormente marcata
in ogni passaggio da una scena alla successiva, definendo i contorni di una
caducità dell’espressione rispetto al contenuto. In altre parole l’espressione
perde il contatto con un’esteriorità a-linguistica e diventa essa stessa luogo
simbolico. Cosa significa circoscrivere una proprietà rispetto ad un’altra? A
volte Saussure sembra sottintendere che la differenza tra due segni deve essere
considerata come diversificazione di singole proprietà. Sebbene un segno in sé
non sia definibile, è necessario pensare ad esso come a un modello del pensiero
che può essere frainteso, condiviso e quindi differenziato dagli altri in un
segmento della parole a formare
il segno linguistico complesso della scrittura o grafema. Nelle ipotesi della naturalizzazione
della mente la forma linguistica assume una caratteristica particolare che è
quella di una distanza anche quantitativa dalle semiotiche radicate nei sensi.
A partire dalla prospettiva evoluzionista non possiamo ricavare una serie di
proprietà dirompenti della lingua se non incastoniamo nella stessa corona altre
gemme che sono proprietà fondative dell’uomo come essere biologico anche se non
ancora del tutto integrato nella semiosi linguistica. Nel suo movimento di
ascensione la lingua non ha determinato, in sé, altre logiche che
retrospettivamente hanno agito nella semiosi della biologia umana. C’è un prima
e c’è un dopo, più o meno riconoscibili, che fanno di una lingua una lingua;
tuttavia non si determina in questi termini che un universo positivo in qualche
modo già dato, in cui l’umano ha da lavorare a lungo per ambientarsi. Sappiamo
che per l’uomo non c’è un habitat naturale, mentre c’è per una lepre e per un
coleottero, o almeno c’è stato. Dire che la determinazione ambientale non ha a
che fare con i processi di apprendimento di una lingua sarebbe quindi
insensato, ma il processo stesso potrebbe invece essere dimenticato, messo da
parte, se ci poniamo sul piano dell’espressione linguistica in atto tra i
parlanti. Da questo punto di vista la crescita del linguaggio non è rilevante,
o, ancora meglio, non c’è una crescita del linguaggio: esso raccoglie i fatti
di lingua, da un punto di vista sincronico, e anche nel dominio delle azioni
verbali che i parlanti compiono non c’è un tempo da cronometrare, al di là
della successione data dalla consistenza stessa delle parole, dalla
sintatticità che dà la forma al senso. Quale deve essere, allora, la
determinazione formale della complessità linguistica? Da questa prospettiva il
termine indeterminatezza sembra voler annullare la domanda sulla selezione generale del
significato: ciò che è determinato non ha a che fare con la formazione
ma con il cristallizzato,
ereditato da forme che hanno mutato valore e da piccoli segmenti di senso che
muovono altre forme. Per Saussure dare una distanza da un segno all’altro
devierebbe l’idea stessa di lingua, di segmento funzionale al linguaggio. Non
c’è nessuna forma più rilevante di un’altra forma, non c’è segno più importante
di un altro nella catena della significazione. Purtroppo però questo non sempre
è valido nella storia delle lingue, quando il potere della lettera, per così
dire, prende il sopravvento. La stessa scrittura è, per Saussure, pericolosa,
per la sua forza ordinatrice. Cosa è da ordinare nella lingua che non sia già,
in qualche modo, stato adottato dalla forma linguistica stessa?
2.2. Funzionalismo e categorie come
strutture emozionali
Nelle lingue gestuali è evidente il
rapporto tra forma e senso nei termini di categorie stabili. Dire categorie è
diverso dal dire tempi verbali, o modi, o tutto ciò che ha a che fare con la
grammatica e la sintassi. Il tipo di algebra del segno linguistico è in
relazione con le coordinate spazio-temporali delle lingue prima ancora delle
formazioni in gerarchie d’analisi testuale. Ed è proprio su queste categorie
che la relazione tra il particolare e il generale ha una esplicitazione
attraverso la lingua. Pensiamo a cosa contraddistingue una poesia da un
fraseggiare comune, tra due persone, nella lavorazione che esse danno alla
letteralità. Non si tratta di fare a meno di una logica ma, al contrario, di
formare attraverso pezzi della stessa stoffa, nella metafora saussuriana, altri
vestiti, nuovi, che hanno fattezza simile tra di essi ma mai identica. Se
chiariamo in che senso questo avviene riusciamo a capire meglio che non ha
senso parlare di identità linguistica, perché, da un lato, è come qualcosa di
già dato, e, dall’altro, per il fatto che nel flusso del linguaggio niente rimane
uguale: ci sono somiglianze ma non equivalenze, a meno che non ci muoviamo nei
mari di altri linguaggi, come quelli della matematica algebrica, per esempio.
Attraverso la costituzione di una diagrammaticità che percorre i segni senza
forare le ruote della significazione, senza fermare l’auriga linguistica, si
realizza il percorso lineare del senso. In effetti, la sensazione linguistica
non ha bisogno di una gerarchia: consolidata nell’apparizione delle
espressioni, essa non si radica in una logica specifica. Una postura non ha una
sensibilità linguistica, malgrado sia un comportamento complesso; non è la
complessità che dà la sensazione e l’emozionalità linguistica. In effetti, la
funzione emotiva sembra ricoprire ciascun enunciato, anche se dobbiamo ammettere
che in una formula matematica, ad esempio, è impossibile ritrovare una emozione
linguistica. Al contrario, nelle forme di discorso elaborato avviene una sorta
di sutura con la pura logica della sintassi, si apre al gioco anche la verità
stessa e diventa logicamente accettabile anche il più lontano giocatore:
diventa una funzione del senso o del gioco linguistico.
3. Reversibilità o irreversibilità?
Se si cerca di circoscrivere i luoghi della
significazione attraverso i diagrammi, come nel caso dei grafi esistenziali
peirceani, o anche nelle semplici legende di una mappa geografica, si potrebbe
dimenticare il fatto che una indicizzazione non è una lingua, né della lingua
mostra le proprietà. Guardiamo invece dove si mostra la specificità della narrazione,
nei luoghi circoscritti dalle visioni dei poeti, in cui spesso si simbolizza
qualcosa, spesso le donne dei poeti o le terre da loro auspicate
allegoricamente come sogni irraggiungibili. Come Saussure difende sono
irrisorie, rispetto alla comprensione in atto, le differenze tra senso proprio
e senso figurato, in virtù della fondamentale negatività della lingua. “Non c’è
differenza tra il senso proprio e il senso figurato delle parole (oppure: le
parole non hanno senso figurato più di quanto abbiano senso proprio) perché il
loro senso è eminentemente negativo” (Saussure, 2005, p. 80). È sorprendente come le parole, se portate alla luce come oggetti,
diventano immagine di altro tipo, anche non verbale, e lo diventano nello
stesso senso in cui in un dipinto dei macchiaioli vediamo paesaggi, oggetti
materiali e lo vediamo non come esperienza privata, ma condivisa. Anche le
parole sono gesti del pensiero, lo sono come espressività divergente. Quello
che comunemente si chiama senso figurato è allora un altro senso che tuttavia
non è, in qualche modo, paragonabile ad una “normalità” della stessa parola che
ha un valore determinato soltanto nel contesto d’uso. Ma è anche vero che non
tutto è poesia. Come pensare, in realtà, che la limitazione che in alcuni contesti
viene data al significato sia consolidata nell’uso del senso comune? Il
cambiamento introdotto dalla scrittura poetica influenza anche il modo di usare
le stesse parole nella prassi quotidiana: fino a che punto è un’immagine di
qualcos’altro, di altre categorie mentali?
3.1. Per una destrutturabilità progressiva
Wittgenstein suggerisce la
somiglianza delle parole alle immagini come forme o rappresentazioni. Si mette
in campo una questione più volte affrontata di recente nelle scienze cognitive
e nelle filosofie del linguaggio moderne. “Il concetto di “immagine interna” è
ingannevole, perché a modello di questo concetto si prende “l’immagine esterna”; e tuttavia gli impieghi delle
parole che denotano questi concetti non sono tra loro più simili di quanto non
lo siano quelli di «segno numerico» e di «numero»” (Wittgenstein, 1953,
p. 259). Tuttavia Wittgenstein
non sembra avere dubbi sull’esteriorità, o meglio sull’aspetto pubblico del
senso: è come se ci volesse dire di non complicare ulteriormente il mondo delle
parole, di non farne feticci assurdi, come nel caso del “segno numerico
ideale”. Il segno “2” non è che un numero, e la parola numero ha già la sua
complessità. Non c’è un esterno da contrapporre a un interno, nessun “2” è al
di fuori di qualcosa o all’interno di qualcos’altro, così come nella poesia
nessuna immagine-oggetto è nella testa di chi legge, ma non è neanche al di
fuori della portata esistenziale del discorso poetico. La sua esistenza è
indubitabile, è l’identità iniziale che per Saussure è la prima cosa semplice
che ci viene data di fronte agli occhi. L’idea di una decostruzione delle forme
linguistiche che lo strutturalismo ha cercato di sostenere non è uno “scavare a
fondo” per trovare in un luogo prestabilito un suo tesoro, le verità sulla
lingua o sul significato di una parola della lingua. Proprio perché non c’è
alcun pozzo dei desideri alla base dell’arcobaleno del linguaggio, l’esistenza
semiologica non ha molto a che vedere con la verità in sé, ma è mezzo e modo di
approdo ad essa. Questo sarebbe possibile se mai avessimo quell’occhio mentale
utile ad arrivare ad uno sfondo condiviso di forme linguistiche accettate da
ogni soggetto parlante in uno stesso percorso linguistico. Se partiamo dalla
premessa che il gioco linguistico ha una sua verità, possiamo pensare di
condividere un luogo di sensi che circoscrive quella città invisibile che fa
parte del nostro sogno semiotico, il “dove” che si trasforma nel “come”: si
costituiscono in breve i modi semiologici e semantici.
3.2. Molteplicità delle figure
linguistiche: dimenticare i sensi
In alcuni luoghi comuni delle forme
linguistiche troviamo esperienze di “dimenticanza” o di smarrimento che
l’espressione linguistica accompagna. Penso alle situazioni di imbarazzo che
vengono chiamate di “asocialità”, per un uso assoluto di emblematicità del
senso comune. In altre parole è come se la figura dello smarrimento portasse
non forme nuove o giochi di segni da riformulare e riadattare al contesto
d’uso, ma come se la parola pronunciata fosse deformata o, come spesso si dice,
appartenente a un’altra lingua. È proprio di questo che si tratta. Quando si
dicono espressioni come “ma che lingua parli?” o, come ho avuto modo di sentire
di frequente, “parli arabo?” si fa riferimento a una figura del significato che
non è rintracciabile al di fuori di una tradizione ben determinata e basata su
principi a priori che possono essere considerati ormai superati, alinguistici.
È come pensare a due generazioni di lingue che si differenziano o pretendano di
differenziarsi sulla base di etichette contenute in classificazioni ristagnanti
senza alcuna reciprocità. Si tratta appunto di un’immagine interna che ci si
illude di non poter comunicare, come se non si trattasse di parole ma di
oggetti ognuno comprendente una funzione che è straniera all’altro. Il punto è
che non ci sono funzioni che una parola qualsiasi, potenzialmente, non può
svolgere. Il tutto si risolve nel capire perché essa non diventa condivisibile
per il parlante, per quale motivo non è sentita come comunicabile. Non si
tratta di alcun problema patologico, ma di una sorta di coscienza linguistica
personale che non “ha la volontà” di voler cambiare l’ordine dei suoi calcoli e
le progettualità che fanno di una figura un vero e proprio abito, nei termini
peirceani. Si pensi a quale idea ha questo particolare parlante del mondo: egli
pensa che la sua lingua sia intraducibile, pensa di poter essere solo. La sua
illusione è lecita, perché il suo linguaggio ha molte più ancore di quelle che
egli stesso è capace di manovrare, di gestire. Il primo uomo pensava
probabilmente di dover trovare qualcosa di diverso da sé e non a qualcosa o
qualcuno che fosse esattamente come lui. Ma s’illudeva: come il suo riflesso
nello stagno era facilmente cancellabile dalle onde lo era anche quello delle
altre cose materiali e delle altre facce. Il segno-uomo è modificato
inevitabilmente, e la sua volontà non ha a che vedere con la sua coscienza o,
come si spesso detto, con la sua autocoscienza. Non è chiaro in alcun caso cosa
significa aver consapevolezza di un fatto che riguarda se stessi: ciò che
accade a un uomo è qualcosa che l’uomo vive, e che in qualche modo può soltanto
subire. Tutto ciò che pensiamo di racchiudere nella parola fatti, con un verismo spropositato, in
realtà non ha a che fare con la vita umana, ma con altre forme di percezione
semiotica che, come già Darwin affermò, sono comuni a molte forme di vita
animale, non soltanto dell’uomo. Una conchiglia trovata per terra e risalente a
migliaia di anni or sono non ha altro che una sua identità, che l’individuo può
intimamante sentire parte della sua stessa storia, giacché è lui stesso a
vederne la forma, i contorni e a riconoscerne anche la provenienza e l’età.
Avere coscienza di quanto ho appena descritto non cambia nulla: l’uomo che
trova la conchiglia vive qualcosa, un impatto silenzioso con il mondo. Non gli
serve qualcosa che lo provi o lo misuri rispetto a qualche altro avvenimento.
In questo si snoda il fatto che non c’è alcuna superiorità dell’uomo sulle altre
specie viventi. Qualunque siano le abilità non ci possono essere forze speciali
che irrompono nella quotidianità per mettere sull’attenti la vita
esperienziale. “Qui con “intenzione” intendo ciò che impiega il segno
nel pensiero. L’intenzione sembra interpretare, sembra dare l’interpretazione
definitiva; non però un segno o un’immagine ulteriori, ma qualcos’altro:
qualcosa che non si può interpretare ulteriormente. Ma si raggiunge un termine
psicologico, non un termine logico” (Wittgenstein, 1967, p. 51). É come pensare, in condizioni
normali, di poter prevedere la propria morte. Si può pensare di stare così male
da perdere completamente l’uso dei propri pensieri, una morte psicologica,
diremmo, o avere un grave incidente o, viceversa, possiamo morire pensando di
essere vivi. In mano abbiamo soltanto costanti emotive, modi già visti di
presentarsi della realtà. È una forma di intuitività che comporta l’affermarsi
di legami del passato e relaziona al prelogico, all’istinto del presente.
4. Presente e costanti emotive
Se pensiamo che è possibile
raccogliere ogni esperienza in descrizioni linguistiche dobbiamo chiederci come
il ricordo o l’immagine di esse si presenta in relazione alla sintatticità
emotiva che ciascun soggetto parlante manipola. Accettando l’idea che non c’è
niente che non sia già stato presente alla coscienza, che non c’è mai un nuovo
pensiero, nel senso più totale (penso a quanti scienziati hanno avuto idee
rivoluzionarie il merito delle quali è stato attribuito ad altri,
successivamente premiati per la loro impetuosità: nella storia delle scienze
matematiche ci sono molti episodi di questo tipo e di tale portata). O i casi
di uso implicito di principi che il parlante non ha bisogno di rinvigorire
attraverso la forma esplicita, ma che sono spesso oscuri all’interlocutore,
cause dei numerosi fraintendimenti che caratterizzano la verbalità dialogica
dell’emozione umana. Ciò che appare come privo di elasticità, o duttilità, come
un sentimento non esperibile, perché legato per esempio a un ricordo di un
fatto già accaduto, o legato a una persona immaginaria, si lega a effettività,
a cause, che nella terminologia peirceana sono interpretanti emozionali,
laddove il desiderio si attua in significati propri, specifici. “The first
proper significate effect of a sign is a feeling produced by it. There is
almost always a feeling which we come to interpret as evidence that we
comprehend the proper effect of the sign, although the foundation of truth in
this is frequently very slight. This "emotional interpretant," as I
call it, may amount to much more than that feeling of recognition; and in some
cases, it is the only proper significate effect that the sign produces. Thus,
the performance of a piece of concerted music is a sign”
(C.S. Peirce: CP 5.475). Qui Peirce parla di un
interpretante emozionale che è il primo effetto proprio di un segno specifico,
facilmente riconoscibile nelle sue verità o, potremmo dire, in quello che dice,
che mette in evidenza. A volte un segno è soltanto questo, un interpretante emozionale,
come nel caso di una colonna sonora. Può ammontare a qualcosa in più del
sentimento di riconoscimento, può avere un senso (meaning) più forte della
familiarità, della percezione con la quale ci muoviamo nel mondo, per il fatto
che siamo già nel processo di semiosi. Si tratta allora di pensare ad
una semiosi che sia il risultato di interpretanti che hanno agito al di là
dell’introspezione, che hanno già dissociato e quindi anche associato le parti
psicologiche, che sono divenuti logici. Potremmo concludere che rafforziamo
l’idea del presente nella traduzione di uno stato emotivo in uno
antipsicologico, non più interno alla privatezza del proprio sentire, ma con
una proiezione di questo sulla soggettività estesa delle semiosi in cui ci si
trova a operare. Quando si supera la fase di rispecchiamento del bambino
nell’adulto, per esempio, attraverso il riconoscimento degli stessi movimenti e
in forme più complesse degli stessi atteggiamenti, avviene lo spostamento dalla
soggettività alla semioticità, seguendo Peirce, attraverso la significazione
primaria dell’interpretante emozionale. È il presente del significato. Tra
potenzialità e atto pragmatico, ossia diagrammaticamente programmabile) c’è una
zona intermedia, ed è il presente logico, ma anche psicologico, malgrado Peirce
tende a differenziare i due anche sul piano ontologico, esistenziale.
4.1. Abduzione:
la finitezza del pensiero e il sogno
Come la
psicoanalisi ha sottolineato, il sogno può dare un forte significato alle gravi
psicosi. Esso però prima ancora dello scolio della malattia può dare senso alla
capacità universale dell’infinitezza del pensiero, e in cosa è possibile
trovare il carattere d’infinitezza. “Il pensiero può, per dir così, volare; di camminare non ha bisogno. Tu non comprendi, cioè,
tu non hai una visione complessiva delle tue transazioni, e per così dire
proietti la tua incomprensione nell’idea di un mezzo in cui sono possibili le
cose più sorprendenti” (Wittgenstein, 1967, p. 61). Si può determinare e riconoscere una qualsiasi
nuova forma di pensiero: essa è una transazione, una verità nascosta ma già
conservata nella caverna del pensiero. Come nel caso dei sogni, quando ad
essere rinnovate sono idee e progetti attraverso una apertura all’inconscio. Se
ci pensiamo bene l’inconscio è un insieme criptato di pensieri, che ci sono,
vivono già nel dinamismo preannunciato dalle immagini mentali. Il punto da
affrontare sarebbe quello della stanziazione dell’infinito. La domanda “dov’è
l’infinito?” resta tale, suggerisce Wittgenstein. Esso è quello che cerchiamo,
che evidenziamo in ogni minuto della nostra esistenza. Al contrario, però, di
ciò che sostiene Wittgenstein, ovvero che il calcolo è infinito, sarebbe da
riconoscere che è infinito proprio ciò che non è possibile calcolare[2].
Come incalcolabile è un sogno. Esso è tale proprio in virtù del fatto che è
un’immagine non circoscritta, non delimitata. È un pensiero, un’idea inconscia:
è la realtà del sogno che nella sua vaghezza ci rende partecipi della finitezza
incalcolabile della veglia. Il gesto del ricordare un sogno è una
riabilitazione all’immagine, una ricerca della finitezza intangibile di altre
forme di pensiero, tra le quali quello matematico è il meno vago, certamente.
Al di là dei casi eccezionali, come Einstein sognatore delle dimostrazioni
matematiche, ma di cui pare non ci sia più alcuna traccia nei grandi scienziati
viventi, è improbabile che qualcuno abbia la capacità di sognare la
ri-soluzione di una seria dimostrazione algebrica. In breve, come riporta
Wittgenstein, il finito racchiude l’infinito, se è l’infinito del pensiero[3].
Entrano in campo almeno due questioni. La prima è quella che riguarda
l’astrazione come un processo, quindi riconoscibile o, come direbbero i
cognitivisti, modulare, divisibile in parti, nella querelle insoluta dell’idea
di unità di spazi e tempi finiti e continui. La seconda è: il non detto
dell’inconscio, è calcolabile? Ha lo stesso tipo di progettualità dei
ragionamenti vivi, condivisibili verbalmente? Di fatto, non si ha a che fare
con estremità di una parete, per esempio, ma con relazioni semiotiche o
semplicemente con semiotiche misurabili in qualche modo attraverso strategie
che sono in grado di formare significati.
4.2. La rete linguistica della
dimostratività
A questo punto insorge chiaramente
la domanda sul confine che separa la logica in sé, con il suo infinito, dalla
logica della psiche: esiste realmente questa differenza? Wittgenstein sembra
suggerire di avversare la scissione tra la due scienze, tranne nel caso in cui
si dà alla parola “psicologia” una riformulazione in chiave strettamente
introspezionista – di stati di cose individuali e inattingibili, ma questo
ormai è più che negato dalle ricerche moderne e contemporanee. Negli Zettel Wittgenstein pone in rilievo questo
paradosso che intrattiene i diversi modi di intendere l’intenzione, quella che
il filosofo vuole separare totalmente dall’idea di processo: “Se voglio
descrivere il processo dell’intenzione sento, innanzi tutto, che ciò che essa
deve fare può farlo se, prima di tutto, contiene un’immagine estremamente
fedele di ciò che essa intende. […] Quasi quasi si potrebbe dire: «L’intenzione
va, mentre ogni
processo sta fermo»” (Wittgenstein, 1967, p. 53). Il muoversi delle realtà fenomeniche come
sillogismi definiti dalle forme storiche presenta nelle forme intentive alcune
peculiarità che autori come Wittgenstein ricordano sprovviste di una volontà
esterna all’atto in sé. Come pensare che ciascuna nostra azione è
effettivamente intrisa di infiniti modelli ai quali restituire le vestigia
prima di mostrarne gli errori. Nella operazionabilità del senso comune il fatto
che ci sono immagini talmente radicate nella logica usuale da agire come
veicoli porta alla ripetizione di schemi nei quali non c’è alcuna aspirazione,
alcuna aspettativa. Essi si mostrano in sé e per sé, denudando in presente e
rendendolo progressivo, inusuale nella scioltezza finita delle singole azioni.
È l’idea peirceana di diagramma che diventa una sorta di metro per la
definizione di logica della scrittura, un po’ come nell’idea complessa di
grafematicità.
5. Conclusioni
Se ci fosse davvero un criterio di
insensatezza - come Wittgenstein propone - tale da restituire all’immaginazione
il suo primo compito di autodeterminazione potremmo dividere la concezione del
modo di realizzazione dei sensi dalle esperienze che abbiamo di essi come
istintivi o prelogici fino a dissodare il terreno del linguaggio oggetto, di
ciò che manipoliamo con fiducia. Non è un uso di esperienze che dalla
eversività porta all’autoregolazione: è insensato dire “tutto serve a
qualcosa”, il tutto non è comprensibile, in primis, e inoltre non c’è soltanto
l’esperire, ma purtroppo anche il subire. Il controllo delle emozionalità non
dovrebbe dunque avere a che fare con l’esperienza, la dovrebbe al contrario
allontanare e farne una negatività, una negazione alla realtà: attribuirne il
senso di pura rammemorazione, indicando ad ogni fatto la strada che porta
all’uscita dalle costanti emotive che possono attribuirsi ai significati.
Parlare di tradizione può significare parlare di forme linguistiche sorrette
non soltanto da sintassi grammaticali ma anche da sintassi emozionali. È il
senso del diagramma peirceano e dell’interpretante emozionale come primo indice
della formazione di ipotesi sul mondo e non di semplice percezione degli
universali. In ciascun atto emotivo che si riferisce al simbolo di un
personaggio, per esempio, c’è una costante emotiva della linguisticità, non una
semplice posizione istintiva, ma una connettività che si manifesta nelle forme
generali di apprendimento. Infine, l’individualità dell’atto fonatorio
contrasta la collettività della parole per il fatto che è nel primo che il linguaggio
è un simbolo proprio, strettamente legato al singolo soggetto parlante. Se è
vero che l’immaginazione non è un senso debilitato ma, al contrario, il fulcro
della scoperta scientifica e, in certa misura, nelle esperienze quotidiane di
adattamento, il discorso verbale che fa delle emozioni regole può diventare
segno puro ossia unico, distinguibile dagli altri.
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[1]
Lo Piparo ne parla nel senso di terza dimensione della lingua per accertare la
pluridimensionalità del linguaggio (cfr. Lo Piparo, 2003, pp. 98-102).
[2]
È da riconoscere la preminenza di una posizione matematica della questione.
Essa si è presentata come il problema del continuo, fin dalla posizione aristotelica
della Physica (cfr. Sergio, 2006, pp. 229-242).
[3]
Wittgenstein riporta: “Hardy: «That “the finite cannot understand the infinite”
should surely be a theological and not a mathematical war-cry» (Wittgenstein,
1967, p. 61).
Sentire le regole delle normatività che vivono nei generi linguistici non ha a
che fare che con logiche sequenziali che il senso comune condivide con ciascuna
scienza (e sarebbe maggiormente corretto il contrario).